lunedì 25 dicembre 2017

Caro Papa Francesco, dov'è finito il libero arbitrio?

Caro Papa Francesco,
la sua omelia durante la messa natalizia non mi è piaciuta per niente.
Tenterò brevemente, Santità, di spiegarle il perché.
Il suo discorso era tutto incentrato sulla questione migranti-accoglienza.
A parte il fatto, Santo Padre, che questa sua per i migranti sembra diventata un’ossessione pari soltanto a quella della sig.a Boldrini, la quale dice, afferma e conferma di essere di sinistra, ma ancora aspettiamo di sentirle dire una parola a favore dei lavoratori. Ma lasciamo stare, Santità, ché non è tanto il contenuto del suo discorso ad avermi disturbato.
Lei magari non mi crederà, ma ho una vaga idea di cosa possa essere lo spirito cristiano di carità e accoglienza. Ebbene, il mio pensiero è andato alla parabola dei talenti. Credo la conosca: Matteo 25,14-30
In quella parabola Gesù ci dice che il padrone non loda soltanto il servo che ricevuti cinque talenti ne ha riportati altri cinque, ma anche quello che ne ha ricevuti due e ne riporta altri due. La punizione è solo per il servo che avuto un talento riporta esattamente ciò che gli è stato consegnato.
Non è una parabola difficile da comprendere: Dio ti affida un qualcosa e tu devi essere bravo a farlo fruttare secondo le tue forze e le tue capacità. Solo chi non “porta frutto” viene punito.
Orbene, Santo Padre, dalla parabola mi appare chiaro che in tutte le situazioni ciascuno di noi può e deve dare il proprio contributo. Ma da nessuna parte, mi sembra, Cristo stabilisce che esiste la modalità di contribuzione unica, assoluta e perfetta cui tutti devono rapportarsi per essere nel giusto. Non è scritto, cioè, da nessuna parte che si è cristiani solo se si procede in uno specifico modo, modo che, oltre tutto, pare stabilito da altra parte e a priori, come una sorta di modello in cui rientrare, una forma alla quale omologarsi.
Il che vuol dire, a mio modo di vedere – se non ci fossimo capiti – che ciascuno di noi, e di rimbalzo ciascuna comunità, quindi ciascuno Stato, deciderà in qual modo fare l’accoglienza, secondo le proprie capacità, possibilità, organizzazione, fattori contingenti, e anche libera volontà. Si potrà discutere della efficacia e/o validità dei vari comportamenti, ma nessuno può arrogarsi il diritto di appioppare etichette a nessuno.  
Più che cristiano, mi scusi Santità, questo suo sembra un pensiero da società puritana, dove “chi fa” è sempre con l’occhio attento al giudizio esterno, e chi osserva è perennemente pronto a giudicare, e i comportamenti dell’individuo non sono più effettivamente liberi.
Questo accadeva anche nella nostra società cattolica, mi si dirà. Appunto: ci abbiamo messo tanto a liberarcene che non si vede perché dovremmo tornare indietro, o ci si voglia far tornare indietro.
Ecco, il suo discorso non mi è piaciuto per questo, perché mi sono sentito come costretto, messo in un angolo e giudicato sulla base della mia capacità di omologarmi o no a comportamenti preordinati e non so nemmeno da chi, certo non da Cristo. Perché mi pare in linea con quel pensiero globalista che pone sempre i propri criteri al di sopra delle singole storie, che ha stabilito prima e sempre qual è il bene e qual è il male, che usa frasi come “esportare la democrazia” come se esistesse un unico modo, giusto, di organizzare la democrazia mentre tutti gli altri sono sbagliati, e che in questo caso mi dice che esiste un unico modo di comportarsi con il migrante altrimenti non sei… cristiano, civile, generoso… Un modo, insomma, che oltre tutto il resto, gioca sul mio senso di colpa.
Mi perdonerà, Santo Padre: io non rifiuto le sue parole, ma il meccanismo perverso che percepisco esservi dietro, indipendentemente dalla sua buona fede che do per certa, e non intendo lasciare che altri sensi di colpa mi riempiano la vita, ho già i miei, e pesano (come nelle vite di ciascuno di noi).
Se non ricordo male è Cristo stesso ad averci lasciato una responsabile libertà di scelta, ad averci posti dinanzi al senso del dubbio e ad averci chiesto comportamenti unici e non da gregge, comportamenti da adulti. Non aderirò al pensiero facile e omologato, mi perdoni. Accetterò il rischio di sbagliare.
Con osservanza.

giovedì 14 dicembre 2017

Attori, i dilettanti al potere

Nell'attesa che si cuocia la pasta, mi vengono in mente una serie di piccoli pensieri dei quali sono certo vi fregherà poco o nulla.
Per esempio un fatto che va mostrandosi con sempre maggiore evidenza e che riguarda il mio lavoro.
Quella dell'attore è una professione/mestiere che come il buon artigianato appreso a bottega, viene passato da secoli di mano in mano. Negli ultimi tempi si assiste a uno svuotamento della professionalità attoriale (mentre cuoce la pasta non posso dirvi il perché, ma prometto che ci torno), svuotamento che ha anche un movente politico-culturale (di bassissima levatura), il risultato di questo impoverimento della professione è che i dilettanti sono ormai sullo stesso piano dei professionisti, e con il mercato economico alla canna del gas, sono anche avvantaggiati in quanto possono praticare prezzi più bassi, quando proprio dedicarsi gratuitamente.
Ma non basta: la volontà di far assurgere il dilettante a categoria "professionalmente" riconosciuta si rileva in un altro dato: sono giunti agli onori della cronaca, alla direzione di centri di cultura teatrale di primaria importanza, al rispetto diffuso da parte di addetti ai lavori e non, una serie di dilettanti spacciati per professionisti.
Che siano dilettanti, cioè che abbiano imparato facendo da soli (quindi non conoscendo davvero le regole ed il procedere della professione se non per sentito dire, come il pittore della domenica rispetto a chi viene dalle Belle Arti), lo si evince dal fatto che leggendo i loro CV ci si accorge che il mestiere non lo hanno mai appreso, da nessuno. Intendo: attori che hanno nessuna formazione, di alcun tipo, né di scuola né di gavetta, registi che non hai mai fatto l'assistente a nessun altro regista. 
Bravi, siete "nati imparati", come si dice dalla mie parti!
No, sono solo cialtroni dilettanti che hanno approfittato spesso di correnti politiche e di ondate culturali per costruirsi una rendita di posizione. Alcuni di loro vivono un breve periodo, grazie al cielo, poi spariscono; altri ce li dobbiamo tenere come grandi scienziati della professione teatrale per decenni grazie al potere politico che li protegge o alla disonestà intellettuale di una certa critica anche essa legata a doppio filo con la politica. Cosa esercita la politica tramite costoro? Una cosa di gran conto cui si presta poca attenzione: il predominio culturale. L'esercizio delle arti, secondo la nostra Costituzione è libero, il loro "orientamento" no, con buona pace delle "anime belle" che credono ancora alla purezza dell'artista.
Ci si chiederà perché i colleghi, quelli veri, non denuncino questa situazione. Facile: l'attore è come la prostituta, ricattabile in ogni momento, per cui è tendenzialmente prono al potere, soprattutto al piccolo potere che può assicurargli la sopravvivenza quotidiana almeno sul breve periodo. Quando poi un attore diviene famoso, il meccanismo si fa talmente grosso e le relazioni talmente intrecciate che a maggior ragione non si parla, onde evitarsi problemi di vario genere che giungono fino all'ostracismo: il Potere è vendicativo.
Ecco perché, qui nomi non ne leggerete, ed anche perché in questo modus vivendi dell'attore è contemplato il concetto di "vai avanti tu, io forse vengo dopo...". Mi sono già scottato altre volte. Basta, grazie.
E poi perché i nomi, amici cari, li sapete. E se non siete certi, andate sulla rete a leggere i Curriculum!
Bene, la pasta pare sia cotta, controllo... e intanto vi saluto. 

martedì 7 novembre 2017

ATTORI, NUOVO CCNL - per perdere i diritti basta il tempo di una firma...





















Cari colleghi,
non mi sarà purtroppo possibile essere con voi alle assemblee sindacali di Roma e Milano (i cui riferimenti trovate nella foto in testa), consegno dunque a queste poche righe la mia riflessione.

Le questioni che si stanno ponendo nella discussione del nuovo CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) sono decisamente chiare e ci sono anche state dette, dai resoconti che ho letto, senza mezzi termini dalla controparte, e che sintetizzo così: i costi della crisi non possono che essere scaricati sui lavoratori.
Tale meccanismo - che altro non è che scelta politica, non economica - ha già colpito le altre categorie di lavoratori italiani, con riduzione dei salari, delocalizzazioni, aumenti delle ore di lavoro, ma soprattutto abbattimento dei diritti.
Sulla questione del “lavoro a intermittenza”, è nata, tra me e alcuni colleghi, una piccola ma interessante discussione sui social. Non intendo qui entrare nel merito, poiché ognuno avrà la propria opinione sullo specifico problema e ciascuna opinione mostrerà certamente punti interessanti.
Credo invece che, dato il momento storico che non soltanto il nostro Paese attraversa, si debba fare una diversa riflessione proprio osservando il percorso già attraversato dagli altri lavoratori italiani, riflessione che vi porgo in una domanda: l’accettazione di riduzioni di salari, di aumento delle ore, di riduzioni di diritti, ecc. ha alla fine portato a un miglioramento delle condizioni di lavoro, a un risanamento delle aziende, a una rinascita del percorso produttivo, ha, insomma, il sacrificio dei lavoratori prodotto un risultato che in qualche modo sia andato anche a loro vantaggio?
Credo che la risposta la conosciate; per chi non la conosca, è NO.
Ma consideriamo anche la situazione – pura immaginazione – in cui gli effetti dei sacrifici chiesti ai lavoratori abbia avuto esito positivo. Questi avranno sicuramente conservato il posto di lavoro, ma avranno poi riacquisito i diritti cui avevano rinunciato? Anche in questo fanta-caso la risposta vi è nota, e per chi non la conosca è ancora: NO.

È proprio di fronte a tale dilemma che si ritrova la nostra categoria, disponibile al dialogo, attiva nelle proposte, consapevole del momento storico-economico che si sta vivendo, aperta alla mediazione, ma di fronte la quale non pare si ritrovi una controparte ugualmente disponibile
Ciò che vi invito ad osservare è il “meccanismo” che costantemente si sta ripetendo, che in una misura non irrilevante ha già segnato molti colleghi dei teatri lirici, e che possiamo, nei risultati, ormai chiaramente osservare nelle altre categorie di lavoratori.

La domanda che mi sono fatto è: ma se non si firma questo contratto, cosa accade?
Ebbene, nulla!
Nel senso che resta in vigore il vecchio contratto, o meglio quello attuale. La sottolineatura credo sia importante, poiché spesso sento parlare di vecchio, come se già lo avessimo mandato in soffitta, in realtà è quello adesso in vigore. Comprendo che i minimi e le diarie siano ormai inadeguate, che vi sono contenute una serie di norme che non interessano più nessuno, e che, soprattutto, quasi nessuno più rispetta. Ma vorrei invitarvi a riflettere su due punti: il primo è che nel caso sia pur remoto di un’azione giudiziaria, è questo CCNL, oggi, ad essere il riferimento per un giudice, è ciò che è scritto in questo CCNL e non “quel che poi accade nella realtà” ad essere il discrimine per la giurisprudenza; essere nella legge, dunque, è una forza, non una debolezza.
Il secondo punto, è che pur comprendendo l’inadeguatezza dei compensi e le altre questioni cui accennavo, la chiave fondamentale, a mio vedere, è sui diritti. Vi invito a riflettere: un compenso che passa da 5 a 7 (numeri dati solo per esemplificare), quanto siete certi che cambierà la vostra vita? E sulla base di questa per voi variazione, c’è contezza di quanto e come potranno variare gli utili per i datori di lavoro, ugualmente da 5 a 7?
Avete mai sentito parlare in questi anni di aziende con commesse, in attivo, che delocalizzano per avere ancor più profitto a discapito dei lavoratori lasciati a casa?
Credo che si sia in un momento in cui occorre estremo coraggio, anche il coraggio di dire NO e imporre le proprie ragioni a costo di rimanere al palo, che poi vuol semplicemente dire: ciò che già conosciamo e viviamo. Quanto siamo certi che le nuove proposte cambieranno le nostre situazioni lavorative?
Comprendo il legittimo desiderio dei sindacati di portare a casa un accordo, nella convinzione che questo sia il meglio possibile per i lavoratori dato il momento storico, ma – attenzione! – il momento storico sta già cambiando (e non mi riferisco a abberluscone-adestra-erpopulista, ma ad un contesto ben più generale e profondo), così che potremmo ritrovarci, tra qualche anno, in un sistema rivitalizzato… ma senza più i diritti di un tempo.
A perdere i diritti ci vuole il tempo di una firma, a riconquistarli ci vogliono anni di lotte.

Io credo fermamente che ciascuno di noi, nella propria coscienza e per la coscienza collettiva, debba mettere sul piatto della bilancia i pro e i contro, riflettere profondamente se può avere senso svendere, come già altri hanno fatto, i propri sia pur tenui diritti per un piatto di lenticchie oggi senza considerare la prospettiva a medio termine che non investirà solo noi ma anche le nuove generazioni di colleghi.
Non credo si debba scendere a compromessi se la controparte non appare effettivamente disponibile al compromesso, credo che i lavoratori dovrebbero tornare a pretendere e non a elemosinare, ponendo in tal modo in crisi effettiva l’intero sistema, credo che se nella vita reale nessun diritto ci viene riconosciuto e venga rispettato sia almeno importante che sulla carta questi diritti esistano e siano legge, credo che in alcuni casi il principio si faccia più importante della concretezza quotidiana.

Dal mio punto di vista è un accordo che non va firmato, per il semplice principio che in questo momento storico sono i lavoratori che devono vedere accolte le loro richieste senza se e senza ma.
Non credo vada firmato, ma non posso però impedirlo. Posso soltanto esprimere la mia opinione, una tra le tante e null’altro, nel rispetto del lavoro di tutti e comunque sia con un ringraziamento per quei sindacalisti che con onestà e dedizione a questa questione si stanno dedicando. 

domenica 5 novembre 2017

LA DISSOLUZIONE DEL CORPO (dell'attore e non solo)

Nei "Quaderni di Serafino Gubbio operatore", Pirandello narra ad un certo punto della grande attrice la quale si vede per la prima volta sul grande schermo. Maledettamente turbata dalla sua immagine proiettata, si precipita verso il lenzuolo bianco, spalanca le braccia, lo tasta disperatamente e poi urla: "Dov'è il mio corpo?".
Il buon Luigi teorizzava, forse con eccessivo anticipo, che il cinematografo, dissolvendo il corpo dell'attore, avrebbe dissolto l'essenza stessa del teatro.
Con eccessivo anticipo, perché il piacere del teatro ha continuato ad abitare lo spettatore, l'attore, i nostri stessi teatri per decenni ancora.
Oggi, molto probabilmente, ci siamo. L'ora è giunta. L'irreale, o come si dice oggi il virtuale, ha predominanza maggiore sul tangibile. Molto semplicemente, un video è preferito dai più all'evento dal vivo, al punto che se anche andate a un grande concerto rock, troverete il palco disseminato, circondato, sovrastato da una serie di grandi schermi che "trasmettono" quello stesso concerto cui state assistendo dal prato dello stadio. Osservatevi, a un certo punto non guarderete più la figurina sul palco che si affanna sulla chitarra, ma la sua immagine proiettata sul maxi-schermo. Avete pagato ottanta, cento, anche duecento euro, per andare su di un prato a vedere un televisore. solo un po' più grande di quello che avete a casa. Ma non basta: voi stessi, per mostrare al mondo che davvero ci siete stati, registrerete con il vostro telefonino l'evento, ritrovandovi, quando non guardate il mega televisore, a guardare dentro il mini-schermo del vostro cellulare.
Lo stesso cinematografo cui Pirandello imputava la deriva, lavora troppo spesso oggi in studi super tecnologici nei quali gli attori si muovono nel nulla. Tutto quello che gli starà intorno sarà poi ricostruito con il computer, producendo fantastici effetti speciali, che speciali non sono più come un tempo, quando bisognava inventarsi un vero marchingegno per fare aprire il Mar Rosso, o costruire un vero mostriciattolo che potesse in presa diretta interagire con gli attori, come ad esempio ET. Non soltanto sparisce il corpo dell'attore, ma il corpo stesso del luogo in cui egli dovrebbe muoversi, non solo l'anima del lavoro attoriale, ma le cose che ne descrivono e circoscrivono i limiti dell'azione.
La predominanza assoluta del virtuale sul reale si raggiunge probabilmente quando si arriva al punto di trarre il film non più dal romanzo o da un copione originale, ma da un video gioco: è dunque il virtuale a nascere prima e a dettare la vita del reale.
Nel nostro quotidiano non conta più essere a Barcellona o a New York, ma potersi connettere per mostrarsi in quel luogo agli altri, e più velocemente riesci a farlo, più celermente ti giungeranno le risposte di approvazione. Il tuo viaggio non ha più senso in sé, nel valore del tuo spostamento fisico, reale, ma nella attestazione che dal virtuale ti giunge rassicurando il tuo ego. Come l'albero di Popper esisteva non in quanto tale ma in quanto ripreso dalla TV, tu esisti in quanto il virtuale ti sta riconoscendo come esistente in una situazione o in un luogo. Sei divenuto il virtuale albero.
La nostra stessa vita si dissolve, così come il corpo dell'attore, unica imprescindibile essenza del Teatro, cominciò a dissolversi più di cento anni fa su di un lenzuolo bianco.
Una mattina - ero speaker al TG5 - uno dei giornalisti in redazione - si era in tempo di Olimpiadi - chiese al suo collega Giacomo Crosa, olimpionico di salto in alto a Città del Messico, 1968, perché l'atletica leggera fosse così affascinante. Crosa risposa in maniera semplice: "Perché nell'atletica c'è l'uomo". Era una risposta poetica a quel che io pensavo da tempo e che non ero mai riuscito ad elaborare in modo così perfetto e sintetico. In fondo, cosa c'è da dire a un ragazzo che fa atletica se non che dei semplici: corri, figlio mio; salta, figlio mio; lancia, figlio mio... Niente altro. Niente altro che "hai te stesso, corri, salta, lancia". L'uomo a nudo.
Cosa puoi dire ad un attore? Niente altro che: "Hai il tuo corpo, agisci. Non credere ti occorra altro".
La dissoluzione cominciata più di un secolo fa sta arrivando al suo totale compimento, solo gli inguaribili romantici credono che "non accadrà", mentre sta già accadendo. 
Forse è solo un momento di crisi, di passaggio, dal quale usciremo avendo rimescolato e riordinato le carte per un nuovo percorso. Nel frattempo, è evidente che il virtuale è preferito al reale. E tutto si più fare, anche un figlio con qualcuno a distanza senza bisogno di toccarlo e/o conoscerlo. Tutto si può fare. Ma dove tutto si può fare, nulla ha più senso. 

domenica 29 ottobre 2017

RECITARE... O DEL SENTIRSI INADEGUATI (gli anni che passano)

Ieri sera, nella sala dei Granai della meravigliosa Certosa di Padula, abbiamo debuttato con uno spettacolo ideato, costruito, diretto dall'amico Pasquale De Cristofato, "Kosmograph", tratto da vari scritti di Luigi Pirandello.
Mi hanno detto quelli del pubblico che è una bella cosa, emozionante, coinvolgente.
Può solo che farmi piacere sentire questi giudizi, anche perché, facendo lo spettacolo, è evidente che non lo vedo. Già, non ho mai visto gli spettacoli che ho fatto, e sono tanti ormai.
De Cristofaro ha messo insieme un perverso e accattivante meccanismo fatto di attori, di ballerini (i ragazzi del Liceo Coreutico Alfano I di Salerno, per le coreografie di Annarita Pasculli), di estratti da un film del 1926, "Il fu Mattia Pascal" tratto dall'omonimo romanzo, filmati appositamente girati e musiche selezionate e originali (di Antonello Mercurio).
Ce ne andremo a fare un po' di repliche in giro nel corso di quest'anno teatrale, da Napoli a Bari a Salerno.
Bene, tutto bene. E il fatto che la performance sia piaciuta non può che dare soddisfazione.
Solo che...

Solo che alla fine, quando alcuni sono venuti a farmi i complimenti per la mia recitazione, ho sentito in me una certa ritrosia, ritrosia che con il passare degli anni si mostra sempre più evidente al mio animo.
Mi è tornata in mente una intervista a Lavia, nella quale il grande Maestro si definiva - cito a memoria - incapace di fare il proprio lavoro. Certo - aggiungeva ironicamente - sempre meno incapace di altri, ma comunque incapace.
Poteva sembrare una battuta, un autodileggiarsi, ma in realtà Lavia toccava una corda profondissima e sensibilissima del nostro lavoro. Che è di tale complessità che troppo spesso gli stessi attori non ne sono consapevoli.
Il Teatro, l'arte della Recitazione è Arte primaria "che tutte le contiene e nella quale tutte le risposte che l'uomo cerca sono già contenute" (Lavia), questo la rende profondamente complessa, difficile, ambiziosa, strana, irraggiungibile...
Dico da anni che l'Accademia funziona se entrando ti senti un Dio, uscendo un idiota; diffido sempre di coloro che aprendo il copione sanno già come andrà affrontato, mi fido invece ciecamente di coloro che sfogliate le prime pagine si mettono le mani nei capelli disperati dicendo a loro stessi: "e mo', come si fa 'sta roba!?"; è il segno dell'umiltà che avanza, e che si ispessisce con il passare degli anni. Umiltà che nulla ha a che vedere con la modestia.
Gli anni passano e il senso di inadeguatezza ci assale anche se nessuno di noi è pronto a confessarlo, allo stesso modo in cui ci si sente inadeguati all'amore con il passare dei giorni: si continua ad amare, sempre di più, chiedendoci se ne siamo davvero capaci, se stiamo davvero facendo bene, ma continuiamo a farlo.

Così, tendo a discostarmi dai complimenti, a scartarli con un sorriso o un dileggio, a non prenderli/mi troppo sul serio anche se fanno maledettamente piacere.
Mi accorgo di apparire antipatico, forse, o scostante, o magari presuntuoso.
Non voglio e non devo giustificarmi con alcuno, perché so sempre di più che questo, tutto questo fa parte della stessa natura del mio lavoro. E come tale soltanto lo prendo, come lavoro. Di complimenti non c'è in realtà bisogno perché ognuno di noi nel proprio intimo sa perfettamente se ha fatto bene o male, e non ce n'è necessità come non è necessario dire tutte le volte all'impiegato che espleta una pratica che è stato bravo: fa il suo lavoro, come io ho fatto il mio.
Venite pure a complimentarvi, perché gli attori come i bambini hanno bisogno di affetto. Non sorprendetevi se di fronte alla vostra manifestazione di ammirazione li vedrete perplessi. Cosa passa nella loro testa, nel loro animo? Forse questo, sapere che nel maturare delle capacità, avanza implacabile il senso di INcapacità, di inadeguatezza.
Perdonateci, e vogliateci bene, perché recitare è troppo difficile, ma continueremo ad amare il nostro lavoro sempre chiedendoci se siamo in grado di farlo.

lunedì 23 ottobre 2017

LEONILDE CHE NACQUE QUAND’ERA GIÀ NATA

(Ho scritto questo post ieri, riesco a pubblicarlo soltanto oggi. Io sono stato un bimbo fortunato perché ho potuto ascoltare centinaia di storie)

Oggi, 22 ottobre, sarebbe stato il compleanno di mia nonna. Ma non lo era, e fin dalla più tenera età non lo è mai stato. Perché mia nonna venne al mondo dopo essere venuta al mondo.
Leonilde Grauso di Giuseppe, commerciante in profumi, e Lucia Brizzi, ballerina del Regio Teatro di San Carlo, vide la luce in Napoli, alla via dei Fiorentini, quartiere de “i guantai”, nel 1904.
Quando Leonilde emise il suo primo vagito, Giuseppe Verdi era morto da circa tre anni, e Giacomo Puccini era pienamente sulla cresta dell’onda. Al Maestro lucchese è legata la carriera teatrale di nonna Leonilde, cominciata e finita nello stesso giorno con un “protesto”.  Era infatti il 1910, così raccontava nonna, e al San Carlo si dava la prima partenopea di Madama Butterfly, occorreva, come testo richiede, il figlioletto di Pinkerton e Cio-Cio-San, e Leonilde, paffutella e dai bei riccioli biondi per via della sua ascendenza asburgica, venne scelta.
Fu condotta da mamma Lucia alla prova generale, e dopo avere ricevuto le semplicissime istruzioni per il ruolo, vestita e truccata di tutto punto, giuoco meraviglioso che a sei anni la rese ovviamente raggiante, svolse la sua parte con assoluta diligenza. Quando però durante la drammatica aria finale il soprano protagonista la prese in braccio… beh, il bimbo/bimba si rivelò decisamente paffutello. Pesava troppo: protestata! Così ebbe inizio e fine la carriera teatrale di Leonilde Grauso, che da quel momento fu condannata per tutta l’infanzia a vedere il teatro da dietro le quinte.
Nonna, infatti, amava la tombola, ed ogni natale ci costringeva, sia pur con elegante discrezione, a qualche giro di quel gioco che tutti noi trovavamo noiosissimo. Ma cedevamo con amore, perché dai suoi racconti sapevamo che da bambina, ogni benedetto venticinque di dicembre che nostro Signore mandava in terra, dopo il più classico dei pranzi natalizi, mentre gli altri familiari si apprestavano a giocare con cartelle e bussolotto, lei era obbligata ad accompagnare mamma Lucia in teatro perché aveva spettacolo. Come poteva non intenerirci l’immagine di quella bimba strappata a forza dal tavolo dei giochi per passare il pomeriggio tra le quinte di un polveroso palcoscenico, sia pur glorioso come quello del San Carlo?
Da allora, nei suoi ricordi, come in quelli di sua sorella Giovanna, per noi tutti zia Giovannina, rimasero impressi indelebilmente il Ballo Excelsior e tutte quelle Opere che contenevano un balletto, evidentemente perché in tali occasioni per Lucia era più facile ospitare i suoi familiari in teatro. La forza del destino, per esempio, sarà anche un’opera che gode ancor oggi di maligna fama, ma nonna Leonilde e zia Giovannina la canticchiavano con una leggerezza che poteva essere soltanto ricollegata al ricordo dell’infanzia.
Leonilde vide due guerre mondiali, ma di sicuro quella che maggiormente incise sulla sua esistenza fu la prima, che portò con sé, insieme con gli americani che venivano ad aiutarci, la terribile epidemia di influenza spagnola. Quella influenza si portò via mamma Lucia. Papà Giuseppe invece si salvò, forse perché, questa la teoria di zia e nonna, perse tanto sangue dal naso, e con quel sangue scaricò il feroce morbo.
Le due ragazzine, al contrario, dall’epidemia non furono nemmeno sfiorate. Anzi, per tutta la vita non conobbero il fastidio di una febbre o di un comune malanno. La sola volta che vidi nonna nel letto, fu quando, già avanti con l’età, cadde da un tavolo sul quale era salita, benedetta donna!, per spolverare un lampadario, e si ruppe un femore.
Quando le due sorelle si incontravano – per una serie di contorte circostanze, nonna era finita a vivere a Salerno, Giovannina a Roma - chiacchierando tornavano alla loro infanzia. Immancabile, in quelle occasioni, saltava prima o poi fuori l’attribuzione della loro incrollabile salute a “l’uomo della vacca”. Tutte le mattine, infatti, passava sotto la loro casa di Napoli, un contadino che conduceva una mucca, dalla quale per un soldo ti mungeva un bicchiere di latte. Mamma Lucia, dicevano, su quel bicchiere di latte era inflessibile, e doveva essere stato proprio quel latte “sporco”, altro che pastorizzazioni, a costruire la loro invalicabile barriera immunitaria.
Fatto sta, che la spagnola si portò via mamma Lucia nel fulgore degli anni e della carriera, e dopo poco tempo papà Giuseppe, detto ovviamente Peppino, volle risposarsi con una loro parente, che aveva solo due anni più di nonna, la diciottenne Costanza. La cosa era per Leonilde inaccettabile! Così decise, carattere mite ma inflessibile, di andarsene a Roma in casa della zia di cui portava il nome, la quale aveva sposato un nobile signore della capitale. Fu felicemente accolta e lì rimase. Il nobile zio acquisito, era proprietario di alcuni cinema a Roma. Le sere si passavano lì, tra film, chiacchiere, spumoni e risate, e in uno di quei cinema, ormai ventiduenne, Leonilde conobbe un giovane messinese di due anni più giovane di lei, Antonio, detto Totò. Anche Totò si era dovuto trasferito a Roma per una serie di vicissitudini familiari, sia pur di diversa natura, ed era diventato ufficiale della Milizia.
Contro l’iniziale volere della madre di lui, che non vedeva di buon occhio un matrimonio con una donna più grande, Leonilde e Antonio si sposarono, ebbero sei figli, di cui due morti prematuramente, affrontarono un’altra guerra, le mille traversie di ciascuna vita, e alla fine, tra gli altri nipoti, si ritrovarono sulle ginocchia… il sottoscritto.
Sottoscritto che bene di testa non è mai stato. Ero il solo, infatti, una volta scoperta la storia, a non farle gli auguri il 22 di ottobre per quel suo fasullo compleanno, arrabbiandomi e non capendo come tutti gli altri potessero partecipare – vilmente a mio parere – a quella farsa andata in scena fin dal suo primo anno di vita. Io gli auguri glie li facevo nel giorno giusto, e nonna ne rideva compiaciuta.
Sui documenti di Leonilde Grauso – in origine Kraus, poi cambiato sotto regime fascista – era scritto che aveva visto la luce del cielo di Napoli il giorno 22 ottobre. Ma l’aveva davvero vista quella splendida luce?
C’era all’epoca una norma – non credo esista ancora - per la quale se non andavi subito a dichiarare la nascita di un bimbo, pagavi una sanzione. Nonno Peppino, così narra la leggenda famigliare, non era un uomo di manica larga, anzi pare fosse abbastanza… tirchio.
Il giorno 20 di ottobre, quando in verità Leonilde Grauso venne al mondo, suo padre Giuseppe non poté uscire di casa, nessuno poté uscire di casa, perché il Vesuvio, in quei giorni, “pioveva cenere”. Il cielo, racconta la storia famigliare, era un unico tappeto grigio, e nonna venne alla luce… senza vedere la luce.
Come avrebbe fatto, dunque, nonno Peppino a registrare per tempo la nascita della sua prima figlia evitando la sanzione? Semplice: attese, finché la pioggia grigia si placò, poi corse all’ufficio comunale e senza colpo ferire dichiarò che la sua bambina, Leonilde Grauso, di Giuseppe e Lucia Brizzi era nata… due giorni dopo, il 22 ottobre.
Papà Vesuvio tenne quella bimba per due giorni al caldo sotto la sua coltre grigia, forse volendole insegnare fin da subito che: “la vita non è soltanto sole”. Leonilde, penso talvolta, evidentemente apprese subito la lezione, la sua vita fu dura, come quella di tanti altri, ma certamente, lo ricordo bene, non perse mai la leggerezza regalatale da quella pioggia di cenere che segnò la sua venuta al mondo, non perse mai il sorriso.   





giovedì 19 ottobre 2017

L'EUROPA VERA, L'EUROPA FALSA (UN MANIFESTO DA LEGGERE)

"1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.
2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa." (...)
Così inizia un interessantissimo manifesto, La dichiarazione di Parigi - Una Europa in cui possiamo credere, pubblicato da un gruppo di importanti intellettuali europei, francesi, inglesi, ungheresi, tedeschi... i cui nomi sono tutti in calce, e che vi invito a leggere nella versione italiana. Ancora una volta dobbiamo ringraziare Roberto Buffagni per averlo divulgato sui social (e forse anche tradotto... non so). Il pregio, a mio vedere, di questo manifesto, che mette in discussione la visione della Unione Europea quale futuro dei popoli del nostro continente, contrapponendo una idea di "Europa vera" con quella di una "Europa falsa", come le definiscono gli autori basandosi sua una disamina storico-filosofica, culturale, concettuale, artistica, è la chiarezza espositiva. Si potrà essere o non essere d'accordo con loro - io lo sono quasi totalmente - ma non si può non riconoscergli il pregio della nettezza di pensiero e di enunciazione. Nettezza che per forza di cose si incastra perfettamente con il concetto di semplicità, intesa come punto di arrivo, come sintesi, come elaborazione di una serie di questioni e di pensieri complessi.
Diceva Eduardo De Filippo che "la recitazione naturale è la cosa più costruita e difficile che ci sia", la sua semplicità era il punto di arrivo di un percorso lungo, faticoso, elaborato. Peccato che oggi, in troppi confondano semplice con facileFacile, non ci interessa. Almeno se non decidiamo che... Nun voglio fà niente.
Buona lettura.PS - vi rimetto il link: https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

giovedì 12 ottobre 2017

LA TV DELLA MALEDUCAZIONE

Penso che i pubblicitari siano la genia peggiore che potesse partorire questo Paese.
Pardon, ho sbagliato: questo mondo.
Al minuto 5:00 di questo meraviglioso video
potrete sentire la sora Lella, che si scusa con i telespettatori perché per impastare la carne trita con l'uovo, con la quale andrà poi a riempire dei peperoni, usa le mani.
Sottigliezze e raffinatezze della buona educazione di un tempo, che sta andando sempre più fuori moda (per usare un eufemismo). E se vogliamo riconoscere un principale colpevole, questo è proprio la televisione.
Dal 1954, anno della sua nascita nel nostro Paese, la tv ha sempre svolto, ponendoselo come fondamentale obiettivo quello di unificare gli italiani, nella lingua, nella cultura, nell'esercizio democratico e politico, nella socialità, nella coesione di un intero popolo che, era bene evidente, fino a quel momento non aveva conosciuto una coesione vera se non quella imposta dall'alto dal regime dittatoriale.
La buona educazione, e la divulgazione di un comune sentire e modo di comportarsi, non era soltanto... questione di etichetta, ma svolgeva una subliminale funzione nel concreto muoversi dell'ascensore sociale. Perché le classi conoscessero una vera integrazione, non bastava soltanto che l'operaio facesse studiare i figli, occorreva che apprendesse buona regole di comportamento, regole condivise, e soprattutto regole indirizzate verso l'alto. Saper stare a tavola è sempre stato segno distintivo del signore, insegnare ciò ai propri figli era dunque importante quanto il ritrovarseli laureati in legge o ingegneria.
Curiosamente, a riprova di quanto sostengo, le classi più agiate, le ritrovammo in contrapposizione a tali dettami di buon comportamento. In decine di film dell'epoca possiamo vedere nobili che allegramente si passano il bicchiere o usano le mani per mangiare... Ma non basta: Giuseppe Patroni Griffi diceva che nelle case veramente nobili "la roba da mangiare si deve buttare!". Intendendo due cose: era il segno distintivo del fatto che il signore poteva farlo - il povero ovviamente no - e che il cibo non consumato veniva regalato quale mancia ai meno abbienti. Ed in quest'ottica, il buon Peppino, Barone di Faivano, considerava i nuovi ricchi, come gli Agnelli, dei veri e propri parvenu. Alla notizia che "l'avvocato" era andato a festeggiare i suoi 60 anni a New York, il Maestro si mostrò profondamente indignato: "Ma tu che puoi, fai aprire uno dei bellissimi castelli della tua terra, Stupinigi per esempio, e invita il mondo, mostrandogli le meraviglie del tuo paese".
Ma altro che "la roba di deve buttare", il nuovo ricco... mangiava poco. Mangiar poco era il segno distintivo della nuova "nobiltà" e della nuova etichetta. Altro che timballi del Gattopardo!
Alla distanza, il risultato sono i signori chef che ti mettono due ravioli nel piatto o venti grammi di carne, ovviamente al prezzo di 60 leuri a portata! Roba che viene da chiedersi: "ma che ho fatto di male?!".
In sintesi, la buona educazione ha ribaltato i suoi parametri, fondandosi oltre tutto su di un concetto, in nome dello stare insieme e dell'allegria, tutto si può fare.
E qui, come cavallette, intervengono i pubblicitari, che in messaggi fulminei divulgano una modalità di comportamento che scardina qualsiasi certezza consegnataci dai nonni: accarezziamo il cane mentre siamo a tavola, il gatto ci cammina sul piano lavoro della cucina, assaggiamo al cucchiaio di legno che usiamo per cucinare, infiliamo le forchette con cui mangiamo nei piatti di portata (che regolarmente sono sprovvisti di loro proprie posate), afferriamo fette di prosciutto con le mani...
Ecco, andate al 30'' di questa schifosa pubblicità
Arriva un piatto di prosciutto a tavola. Ci sono le nonne, le zie, le mamme... Forchette da portata nel piatto non ce ne sono, il ragazzone si alza e allunga la mano dentro al piatto, prende una fetta e se la ficca in bocca, davanti all'aria divertita delle altre commensali.
Mio nonno mi avrebbe staccato una mano, per mille motivi: prima le signore, aspetta il tuo turno, che le hanno inventate a fare le forchette (a proposito: guardando le pubblicità delle acque minerali, non si sa perché abbiamo inventato i bicchieri!)... E per chiudere il cerchio, mia nonna mi avrebbe cacciato di tavola e i miei genitori avrebbero dato ragione a entrambi.
Ecco, prendete questo comportamento del ragazzo dello spot, lasciate che i vostri figli lo adottino come un comportamento normale, e poi mandateli a una bella cena di lavoro, o di gala, o a casa della sua promessa sposa che magari è pure nobile e ricchissima mentre voi in famiglia non lo siete e dunque la famiglia di lei già non lo vede di buon occhio. Arriva un bel piatto di prosciutto... e il ragazzone, opera! Perché per lui è normale, lo ha visto fare alla tv.
Fatemi poi sapere cosa dirà la famiglia di lei. Molti di voi so cosa mi diranno: "Ma lo fanno loro, li ho visti, i ricchi, i nobili, li ho visti che mangiavano il prosciutto con le mani, lo fanno loro!". Appunto, loro. Che quando vogliono, loro possono e voi no, oppure loro possono e voi forse, o voi anche, o voi sì. Così è, anche se non vi pare.

Ma a questo punto l'obiezione classica su certi comportamente è: "Siamo in famiglia!". Beh, vi svelerò un segreto: non esiste "siamo in famiglia". Non ho mai amato Aristotele, forse perché non l'ho mai capito, ma una cosa ricordo che diceva e la trovo sacrosanta: la virtù è una abitudine.
Se non si è normalmente allenati a certi comportamenti, come il cedere il posto in autobus ai più anziani, chiedere con gentilezza, non dire parolacce, non infilzare senza nemmeno chiedere il permesso la propria forchetta nel piatto dell'altro... il risultato sarà che poi, in certe situazioni, si farà uno sforzo enorme per fare attenzione a ciò che è corretto e a ciò che non lo è. E prima o poi si  commette l'errore, non il piccolo, innocente errore, ma quello marchiano.

Nessuno di noi è Lord Brummell, tutti commettiamo piccoli errori, anche la regina Elisabetta ne commetterà (ne sono certo), ma il risultato è che quella tv che era nata per darci il buon esempio si sta rivelando sempre più un concentrato di maleducazione, ristabilendo un distacco sociale che ci vorrano decenni per ricolmare.
C'erano un tempo trasmissioni che "insegnavano" il buon gusto nel vestire alle signore, oggi siamo pieni di reality nei quali il pacchiano, passando per divertimento, la fa da padrone.
Avete mai pensato a quante anime semplici pensino che quello sia il buon gusto?

PS - E per favore, non prendete esempio dai film americani: sono il popolo più maleducato che abbia mai visto in azione.

mercoledì 27 settembre 2017

IN MORTE DEL GIORNALISMO

(Questo post nasce dalla conversazione con un amico, un giornalista vero e serio, che mi ha confessato di avere ormai difficoltà a fare il proprio mestiere, perché le notizie, i fatti, che porta al suo giornale, affinché siano pubblicati, paiono non interessare, non tanto i lettori, quanto la direzione: "Ormai le notizie le scrivo su Facebook", mi ha detto amareggiato.
Io amo il giornalismo, non fosse altro perché amo mio padre, ed ho un profondo rispetto per quella che è stata una carriera semplice e onorata. Colleghi come lui, oggi in pensione, ce ne sono ancora, ma vivono relegati nell'angolo. A costoro, alla loro strenua battaglia giornaliera, va il mio sincero affetto, con la speranza che mie riflessioni possano sostenerli e forse aiutarli a capire, essendo io occhio esterno, perché le cose non vanno più come dovrebbero andare...)


Poche parole soltanto per raccontarvi un pezzo di tutto quel che non va.
Mio padre, oggi in pensione, è stato un bravo giornalista de Il Mattino (di Napoli!). A rileggere oggi gli articoli suoi e dei colleghi, fa davvero una certa impressione. Sembra di avere sotto il naso dei lunghi telegrammi infarciti di notizie, asciutti, essenziali, e pure senza emozioni.
Per farvi un esempio, un articolo aveva all'incirca questo tono: "Il cadavere di un uomo di 42 anni è stato ritrovato questa mattina alle h 6,40 in via Vinciguerra, all'altezza del ristorante Stella. Il soggetto, per quanto risulta dalle prime indagini dei Carabinieri guidati dal capitano Antonio Forcella, si chiama Gaetano Iovine, commerciante, proprietario di un negozio di antichità sito nella stessa via, ed è stato freddato da quattro colpi di arma da fuoco al torace, di cui uno ha colpito in pieno il cuore provocandone l'immediato decesso. Lo Iovine risulta incensurato...", e così dicendo.
Papà mi ha ripetuto tante volte una cosa semplice: "I fatti subito, all'inizio, perché dopo venti righe la gente si è rotta le palle e passa ad altro", ed il suo grande vanto è sempre stato: "Je scrivo pe 'e pisciaiuole e i fruttaiuole" ("Io scrivo per i pescivendoli e i fruttivendoli"), intendendo - mi pare chiaro - che tutti devono poter capire, anche le persone più semplici.
Ora, prendete un articolo di oggi, ed è molto probabile che troverete una cosa più o meno così: "Lo hanno trovato riverso in una pozza di sangue, accasciato sul bordo del marciapiede, mentre con la mano sul volto cercava probabilmente di difendersi dal suo aggressore. Ad avvertire le forze dell'ordine è stato un passante, che solo per poco non ha incrociato gli assassini mettendo egli stesso a rischio la propria vita all'alba di un nuovo giorno di lavoro...", e non è raro incappare in pezzi che dopo le famose venti righe non ti hanno ancora fatto capire che caz... è successo!
Siamo passati dalla cruda esposizione dei fatti alla narrativa. Ma il giornalismo non ha molto a che vedere con la narrativa, anzi quasi nulla.
Racconta Hemingway che quando su suggerimento di Gertrude Stein decise di passare da fare il cronista a fare lo scrittore, impiegò mesi e mesi di pratica per liberarsi dallo stile giornalistico. La letteratura era altra cosa. Inutile sottolineare che vi riuscì. Mentre quasi mai vedo uno dei tanti giornalisti di oggi che improvvisamente si lanciano nella pratica del romanzo, riuscirvi, e questo credo dipenda dal fatto che loro sono convinti di avere consuetudine con la scrittura. Ma non è così.

Questa nuova tendenza del giornalismo nostrano alla narrazione più che al riferimento di fatti, si è cominciata, secondo me, ad avere negli anni '90, ed è esplosa con l'esplodere del web, motivandola con il fatto (sic) che essendoci nuove forme di comunicazione delle notizie, i giornali dovevano trovare "altre vie". Il corto circuito, però, lo ha dato proprio il web nel momento in cui ha spopolato questo nostro strumento, il blog, il diario, lo spazio libero del racconto che ha incamerato tutto e il contrario di tutto: dalla esposizione di notizie ai racconti erotici.
Appare a questo punto evidente che "inseguendo si perde" e forse i giornali, anche nelle loro forme on line, avrebbero dovuto continuare a proporre "telegrammi". Non sarà un caso se all'ultimo Macchia Nera Awards la Migliore testata giornalistica è risultata - guarda un po' - l'ANSA, l'agenzia di stampa che... passa quasi solo notizie.
Carmelo Bene diceva che "non si può informare sui fatti, ma solo informare i fatti". Capisco che per i più la frase suonerà strana. Eppure affronta un nodo cruciale della nostra comunicazione: l'impossibilità di afferrare la verità, soprattutto con le nostre parole.
Vi parrà strano, ma dire "Pasquale ha ucciso Nicola" è molto diverso dal dire "Nicola è stato ucciso da Pasquale". Voi chiederete: "Ma perché, il risultato è sempre che Nicola è morto!". Certo, ma la sostanza della esposizione si ribalta, perché poniamo il nostro accento, focalizziamo l'attenzione del lettore su di un soggetto invece che sull'altro. Nel primo esempio è molto probabile che il protagonista del nostro racconto sarà Pasquale, nel secondo Nicola.
Dunque, la frase di Bene ha senso pieno, perché non puoi vera-mente informare sui fatti, ma solo metterli in forma, dargli una forma, quindi: in-formare i fatti. Ed in tal ottica non ho nessun problema ad ammettere che anche lo sforzo di papà Gino e dei suoi colleghi aveva comunque dei limiti, anzi delle lacune, ma naturali lacune.

Se tutto si limitasse ad aver intrapreso un percorso di esposizione sbagliato, o poco efficace, il problema quasi non esisterebbe, poiché basterebbe ricambiare strada. Ma il "romanziere" ha per sua inconscia natura il desiderio di esporre il proprio e incontrovertibile punto di vista, la propria... OPINIONE. E questo ha mortalmente complicato le cose.
Nel vocabolario Treccani alla voce n° 3 di fatto trovate: 
3. a. Ciò che ha consistenza vera e reale, in opposizione a ciò che non è concreto, tangibile, sicuro. 
Nello stesso vocabolario, alla voce opinione si trova:
Concetto che una o più persone si formano riguardo a particolari fatti, fenomeni, manifestazioni, quando, mancando un criterio di certezza assoluta per giudicare della loro natura (o delle loro cause, delle loro qualità, ecc.), si propone un’interpretazione personale che si ritiene esatta e a cui si dà perciò il proprio assenso, ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale.

Ecco, la morte del giornalismo è tutta qui: nell'avere trasformato i fatti in opinioni e, soprattutto, le opinioni in fatti. Vi pare una affermazione forte? Può darsi, ma fate lo sforzo di seguire i quotidiani, o di osservare distaccata-mente i notiziari o i dibattiti tv (non quelli stile D'Urso, ovviamente), e vi accorgerete con facilità che ormai si fa di tutto pur di piegare i fatti alla propria convinzione interiore, per cui si appioppano etichette a destra e a manca, si dà del fascista o del nazista ad uno sulla base di non si sa quale fatto o semplicemente cogliendo nel calderone un unico fatto e portandolo come "prova scientifica" di una personale tesi. Avviene per tutti i grandi temi che oggi attraversano la nostra società, dall'immigrazione all'euro, dalla legittima difesa al fisco fino ai dati sulla economia.
"Si propone una interpretazione personale", come ci dice il Treccani, ma pur di far prevalere la propria convinzione interiore, come appunto un romanziere, si eliminano gli altri due punti che ho sottolineato: "mancando un criterio di certezza assoluta" e "ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale".
Talvolta, anzi spessissimo, davanti a una tabella o a un grafico, si arriva anche a negare l'evidenza o a ribaltare il ragionamento pur di non ammettere, non tanto che l'avversario ha ragione, ma semplicemente che i numeri dicono altro.
Lo fanno sempre i politici, mi direte voi. Vero, ma un altro cortocircuito che non si considera mai è nel fatto che ad un certo punto, in particolare dall'arrivo di Berlusconi in politica (e non gliene sto dando colpa poiché il sistema ha in tal senso camminato da solo), i giornalisti hanno preso nei talk show politici a sostituire i politici stessi, schierandosi, consapevolmente o no, da un lato o dall'altro. Talvolta non si sono nemmeno schierati, ma gli stessi colleghi che la pensavano diversamente da loro, li hanno immediatamente collocati su una sponda piuttosto che sull'altra.
Si è così, ironicamente, venuta a palesarsi finalmente la vera natura della ben nota frase che indica la stampa come "cane da guardia del potere". E già, perché se sono "il cane da guardia del potere" vuol dire che proteggo il potere, non il cittadino, altrimenti mi si dovrebbe definire "cane da guardia del cittadino o dello stato".
È chiara questa semplice contraddizione, vero? Ché se io ho una villetta con un cane, lui è il cane da guardia mio, non dei ladri che vi vogliono entrare. La frase, quindi, è sbagliata, ma non deve meravigliarvi visto che è una frase che arriva dagli USA.

Negli ultimi giorni io, non so voi, mi sto divertendo un mondo nel vedere gli accartocciamenti, i "rintorcinamenti", le capriole doppie e triple, della stampa "cane da guardia del potere" per spiegare fatti che si spiegano da soli se uno soltanto guarda i numeri, come le elezioni tedesche o i sussulti catalani. E almeno una verità appare nella sua semplicità: i giornali sono tutti in perdita, in particolar modo quelli della grande stampa, che non perde solo nel cartaceo ma anche sui servizi on line (il che fa anche decadere la tesi che "la carta" perde perché i lettori vanno su internet; ci vanno, ma comunque non da voi), avere un quotidiano è un esercizio di masochismo per un editore. Ma allora, perché ci sono editori che comprano ancora giornali o che fanno battaglie per acquisirne? Facile: perché questi propagandino le loro idee. Se il tornaconto non c'è dal giornale, ci sarà da un'altra parte, che voi non vedete. O quanto meno non vedete perché non guardate bene.

lunedì 4 settembre 2017

LA CITTA' TEATRALE

Ho timore che molti dei miei dodici lettori non comprenderanno appieno cosa sto per raccontare loro. Perché la mia vuole essere, e spero sarà, una osservazione da puro teatrante quale sono, più o meno importante, più o meno famoso, più o meno talentuoso, più o meno fortunato, non ha importanza.
Dopo trenta e più anni di palcoscenico, sono giunto ad una semplice conclusione: sono un teatrante perché mi piace stare in teatro, e mi piace starci più che in qualsiasi altro luogo, e lo starci mi fa stare bene anche più che a casa mia, è il solo posto in cui mi senta al sicuro, protetto, sereno; riavvolgo il nastro e, ne sono certo, non mi è mai capitato, in tutti questi anni, di essere a disagio anche nella peggiore delle fogne in cui mi è toccato di dover andare a lavorare, mai. E tutto questo deve per forza voler dire qualcosa. Non sarà la riprova che sono un Attore, ma un teatrante, come tutti i miei colleghi (attori e tecnici), sì. Una riprova semplice e mica tanto scientifica, ma per ora non so dare altre spiegazioni.

Girare l'Italia in lungo e largo per decenni, vuol dire arrivare a conoscere le città di questo nostro Paese, soprattutto quelle dove torni più spesso e ti fermi di più, come i capoluoghi di regione e spesso anche alcuni di provincia. Un teatrante vero non fa mai il turista. E questo è un vantaggio. Perché arrivi in città belle, come... Parma, e puoi pensare: "Non ho voglia di andare, di corsa, a vedere il Teatro Farnese, ci vado la prossima volta, oggi voglio passeggiare mentre me ne vado a teatro."
E, parrà strano, ma le città così si conoscono: passeggiandoci, osservandone l'umanità, chiacchierando nei bar, guardandone l'attività, i negozi, poi giri un angolo e trovi una chiesa, entri e scopri un capolavoro...

Ma cosa rende una città "teatrale"?
Credo che la risposta sia: lo scambio tra teatranti. Che è scambio di idee, di umori, di pensieri seri e faceti. E perché questo avvenga in pieno e in rilassatezza, occorre un luogo: il ristorante dopo-teatro.
Che sta scomparendo. Come istituzione, intendo. E fondamentalmente per due ragioni: i teatranti non hanno più soldi da spendere, i ristoranti non ci guadagnano più come una volta (e questo comporta che non abbiano nemmeno più il piacere di accoglierti come una volta).
La trattoria o il ristorante dopo-teatro era il luogo dove le varie compagnie si incontravano la sera, dove a fine cena si passava da un tavolo all'altro, si scambiavano informazioni, opinioni, risate, dove i giovani stavano vicino ai vecchi e apprendevano un sacco di cose: dalle storie di teatro, alle regole di comportamento, fino all'affinamento del gusto: il suggerimento di un libro, l'indicazione di uno spettacolo da andare a vedere, o di un nuovo attore interessante da seguire, o le divertenti stilettate tra capocomici per sottolineare che uno aveva o stava incassando più dell'altro, che l'altro aveva più "piazze" in calendario o che la critica aveva detto...
Una scuola che oltre ad essere di vita, era parte integrante della formazione attoriale.

Non voglio fare il nostalgico e annoiarvi con "quanto era bella la mia gioventù e quante cose ho imparato stando a tavola con vecchi e giovani" (anche il modo di stare a tavola, ché la buona educazione sta divenendo un altro dei Paradisi perduti...).
Voglio solo segnalarvi che ci sono città che sono sempre state teatrali, perché si sapeva dopo lo spettacolo "dove si andava a mangiare", e quella piazza sul calendario si aspettava con ansia gioiosa, sapendo che vi avresti incrociato altri colleghi con i quali magari avevi lavorato anni prima, e magari riuscivi a organizzare per andare a vedere tu il loro spettacolo e loro il tuo... Ci sono invece città dove non si è mai saputo e non si sa dove gli attori mangino dopo lo spettacolo, città anche importanti, e questo ne fa città "non teatrali", perché tra i componenti di questa grande e bislacca famiglia non c'è scambio, non c'è mai stata vera osmosi.

Mi piacerebbe - se sono riuscito a spiegarmi - che questo i giovani lo sapessero, che non basta, per fare parte della comunità dei teatranti, starsene a bere nel bar alla moda insieme ad altri coetanei, poiché viene a mancare un elemento basilare: il passaggio di testimone tra vecchi e giovani, che è l'unica vera forza del Teatro. Non è un costume solo italiano. Bergmann, per esempio, diceva che lui la regia la faceva la sera a tavola con i suoi attori.

Abbiamo sempre lavorato per poter mangiare, ed è anche per questo che "si mangia dopo", dopo che si è contato "l'incasso". Questa santa abitudine del ritrovarsi dopo-spettacolo, insieme, a tavola, si sta dissolvendo e con essa "la città teatrale".

martedì 29 agosto 2017

"NEANCHE UNA GOCCIA DI SANGUE": PIRANDELLO, O DELLA CATARSI VIETATA.



Ricorrono quest'anno centocinquant'anni dalla nascita di Luigi Pirandello.

Mi sarei aspettato, da parte del mondo della cultura e dalla Nazione tutta, una maggiore attenzione per quello che è senza alcun dubbio, uno dei quattro, cinque più grandi autori teatrali di sempre e del mondo, fatti salvi i tre sommi classici greci; pare invece che il Nostro sia messo in una sorta di angolo, come accomodato in un cantuccio al quale si pone scarsa attenzione, come un vaso di porcellana o una statuina in bronzo che ci abbia regalato un lontano parente, e per la quale non nutriamo particolare ammirazione. Sta lì, per una forma di cortesia verso chi ce l'ha donata, ma la sua presenza è per noi indifferente.
Se questo è il vostro sentimento nei confronti di Luigi Pirandello, è inutile che mi metta a tessere le sue lodi: far cambiare idea alle persone è complicatissimo, anzi difficilissimo, quasi impossibile; far cambiare le tendenze modaiole è praticamente battaglia persa, si può solo aspettare che passi, e la moda oggi dice che...

è bello bello bello Sciakkespì-re, e quando è estate è bella bella bella pure 'a tragggedia grreka, poi ce sta bene pure er monologo de impegno civile e ar massimo na commmedia che ce fa ride ma co la morale sotto, che ce parla de noi, che si gle vie' bbene poi dopo ce fanno 'n firmetto... il resto è tutta na noia.
Ma che vuole, allora, quer Pirandello lì, co tutto quell'arzigogolo intellettuale, 'no smucinamento che a me, sarò pure ngnorante, ma me rintrona, e poi quella lingua che non si può sentire, quei termini antichi, i verbi tutti strani che nun s'usa ppiù, andasse, direbbe, volessimo... nun s'usa ppiù! Ma te ce vo' uno bbravo, ma uno proprio bravo pe' curatte, perché mica stai messo a posto... E pure agli attori dice che tocca fà na fatica pe dillo... Eh, l'ha detto uno alla televisione, mo' er nome nun me lo ricordo, è quello che fa le finction, è forte.
Cioè, voglio dì: Luigi Pirandello... certamente è stato uno importante perché lo hanno messo pure nella antologia di scuola... Oh, e io me lo ricordo, l'ho studiato, c'ho pure preso 7: "Chi fu Mattia o Pasquale", "Uno, nessuno ha diecimila" "Sei personaggi in cerca d'amore" (che poi co' quel libbro lì è stato praticamente er maestro di Moccia, che me piace 'n sacco. Gennniale!)...
È così, inutile che ce state a girà intorno: Alfieri, Goldoni?... Si se studiano a scola, saranno na roba come I promessi sposi: 'mportante, tocca leggelli, se no poi te pigli er debbito, e io 'st'estate c'ho da fà co' na pischella a Nettuno, mica posso perde' er tempo co' Mattia e Pasquale che 'n' ze capiva chi era morto... Oh, così è, ve piace o nun ve piace! come diceva proprio Pirandello! 
Però, tu voj mette' con 'no Sciakkespì-re? Così fresco, così agile, mo-der-no! Ma guarda che bei film che ce fanno... e sempre diversi... Oh, prendi er film de quando s'era 'nammorato de quella nobbile che nun se la poteva sposà... Ma na commedia proprio bella, me ce so' pure commosso... nfatti se chiamava Sciakkespì-re en love_e. Proprio forte 'sto Sciakkespì-re! E poi gli stranieri sì, gli stranieri davvero sanno fà le cose, mica come noi italiani, che, diciamo la verità, diciamoci la verità na vorta pe' tutte: semo pallooooosi, semo pallooooosi! Sempre rintorcinati, probblematici... mai che te facessero ride' o piagne'... Na Magnani nun c'è ppiù, c'è poco da fà... ma quella mica era italiana, era romana, ro-ma-na! I Taliani ar massimo possiamo fa' la commedia ma la capiamo solo noi perché è la lingua che ci frega. ce manca la lingua! 
Sciakkespì-re, 'nvece, ch'era 'n dritto, scriveva in inglese! 
Che poi, mo' s'è scoperto ch'era de Messina... 
Eh, l'ho letto su internet: era de Messina! 
Quinni siciliani tutt'e ddue: ma Sciakkespì-re, penzace bbene,  scriveva in inglese! 
E l'inglese lo capischeno tutti! Pe' quello c'ha fatto er botto! Ma proprio er botto, ma da subbito!
Un successo che... guarda: c'ha sistemato la famiglia pe sette generazioni! Un grandissimo!


Non sto polemizzando, giuro! Mi guardo soltanto intorno. E pare sia sempre stato così. Ci raccontava Giuseppe Patroni Griffi un esilarante episodio cui aveva assistito a teatro quando era giovane. Erano i primi anni di Pirandello, al teatro Diana, su al Vomero, rappresentazione di una sua commedia. A un certo punto, parte, inesorabile, il classico monologo pirandelliano: "perché io, come sono per me, e non per voi, che mi vedete per quello che io sono per voi, ma non come lo sento io, che ognuno è per sé quello che non è per gli altri e per ciascuno di noi che per noi e per me e per io e per voi e per...", una voce possente arriva dal fondo della platea urlando: "Ooooooooh, ccà ce fa male 'a capa!" (tipico modo napoletano per dire che io già ho i pensieri miei e tu contribuisci a ingarbugliarmeli...).

Ma passiamo oltre.

Rileggendo Enrico IV (di Luigi Pirandello, non di Shakespeare), trovo a un certo punto questo passaggio (atti I):

Belcredi Ma fin da principio! Si figuri che, quando avvenne la disgrazia dopo che cadde da cavallo... Dottore Battè la nuca, è vero?
D. Matilde Ah, che orrore! Era accanto a me! Lo vidi tra le zampe del cavallo che s'era impennato... Belcredi Ma noi non credemmo affatto dapprima, che si fosse fatto un gran male. Sì, ci fu un arresto, un po' di scompiglio nella cavalcata; si voleva vedere che cosa fosse accaduto; ma già era stato raccolto e trasportato nella villa.
D. Matilde Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!

La caduta da cavallo, per coloro che non lo sapessero, avviene durante una mascherata organizzata per un carnevale. Il carnevale è in fondo una festa dionisiaca, o comunque sia un rito di conclusione per una rigenerazione, il caos, la babele che ricondurrà all'ordine, a un nuovo ciclo vitale. Forse la confusione che regna nei nostri tempi deriva anche dall'avere cominciato a preferire quella scemata di Halloween al nostro Carnevale... ma anche qui passiamo oltre.

Un grande autore non scrive mai nulla per caso, nemmeno il più piccolo respiro. Che egli ne sia consapevole o no, cosciente o no, tutto è riconducibile a un senso che perfettamente si incastra con tutti gli altri pezzi che compongono la sua creatura, la sua opera.
Enrico è, tra le tante altre cose, la negazione evidente della tragedia, la rappresentazione del mondo post freudiano, dove, divenuto impossibile compiere la tragedia (Gabbiano checoviano docet, lì dove il protagonista, Kostja, non riuscendo a uccidere la figura paterna, rivolge l'arma contro se stesso), non ci resta che il grottesco del dramma, non ci resta che il violento dissidio interiore che viene a scatenarsi tra il nostro bisogno di purificazione e le regole, le nuove regole sociali, sulle quali, implacabilmente, si innestano anche le convenzioni.
Il "vecchio mondo", il mondo antico per meglio dire, in cui la rinascita passava per il sangue, per il lavacro di sangue, è ormai definitivamente perduto. Può più, in questo nostro mondo, essere mandato assolto Oreste per avere assassinato la madre? No, perché comunque sia l'omicidio non è più il nostro modo per risolvere socialmente le questioni.
Certamente un bel passo in avanti, importante. Ma il dissidio resta dentro e ci macera, che ne siamo coscienti o no. L'invocazione di "Giustizia Giustizia Giustizia" che regolarmente sentiamo da parte dei familiari delle vittime di crimini violenti va proprio nella direzione di una richiesta di purificazione secondo le moderne modalità. Non rispondere a queste invocazioni è compiere un ulteriore delitto: negare all'interiorità del familiare quella purificazione necessaria per continuare dignitosamente a vivere, forse solo a sopravvivere.
Ma in Enrico IV, Pirandello chiaramente ci mostra un modo terribile per ritrovare l'antico lavacro di sangue, un modo crudele e pericolosissimo: la pazzia.
Solo chi è fuori dallo schema che la società si è data può ricorrere a modalità che tale schema negano. L'omicidio che Enrico commette viene giustificato dalla sua pazzia.
Questo, però, agli occhi del mondo in cui egli vive; non agli occhi di noi spettatori, che ben chiaramente sappiamo che l'ignoto chiamato Enrico non è pazzo.
In un gesto d'impeto, l'ignoto compie l'omicidio. Il carcere o il manicomio criminale, possiamo immaginarli come sua futura destinazione; oppure, essendo egli considerato pazzo, rimarrà chiuso nel suo castello per sempre. La scelta della pazzia perenne, agli occhi del mondo, è essa stessa un carcere dal quale Enrico non potrà mai uscire, rimanendo inchiodato all'immagine del grande ritratto che è nella sala del trono, e forse perennemente ripetendo a se stesso quella che è la battuta più straziante del dramma, detta malinconicamente proprio alla donna amata: "Non si possono avere sempre ventisei anni, madonna".
La soluzione, dunque, non c'è. La tragedia è negata. Con la piena e feroce consapevolezza, però, che questa tragedia negata farà esplodere ancor più violentemente il dolore nel corpo e nell'anima del personaggio, impedendogli qualsiasi forma di liberazione.
Scrive Giovanni Macchia nel suo splendido saggio "Pirandello o la stanza della tortura":
"Dov'è la catarsi in Pirandello? Dov'è la liberazione? In qualche colpo di rivoltella ben piazzato? In qualche suicidio? Nell'omicidio di Enrico IV che lo costringerà risibilmente a fare il pazzo per tutta la vita? La crudeltà pirandelliana è nel vietare ai personaggi la tragedia, la via della tragedia, contro il fato o contro gli uomini, e in questo rifiuto è uno dei segni della sua modernità. Così, d'altra parte, una diversa manifestazione di crudeltà era quella di far decadere le sue creature a oggetti di riso e di commiserazione. L'umorismo, visto in questa luce, è una delle forme patenti di una diabolica, dongiovannesca voluttà d'abiezione. Servirsi dell'umorismo per negare all'uomo qualsiasi illusione. Anche l'umorismo, come strumento critico, rientra in questo teatro della tortura." 
La storia, in questo capolavoro di Pirandello, racconta tutto, o esplicitamente, o in maniera subliminale, e tutti i tasselli, a ben vedere, vanno a cadere, leggeri, al loro preciso posto nel puzzle.
Anche la piccola battuta della Marchesa Matilde: "Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!", che pare essere solo un dettaglio che arricchisce il racconto, una nota di colore, si sistema precisa nella simbolica negazione della catarsi, una negazione preannunciata come la battuta è pronunciata ancor prima che l'ignoto/Enrico appaia sulla scena.
Nel racconto finale del ferimento del rivale Tito Belcredi, concluso, classicamente, con la morte di questi fuori scena, la parola sangue, non appare, mai. Noi spettatori, certo possiamo immaginarlo. Come possiamo immaginare quale sarà da lì in poi l'esistenza di quell'ignoto sequestrato dalla sua stessa vita.  

lunedì 28 agosto 2017

LE DIECI REGOLE DELLA SILVIA (L'INSEGNAMENTO DELLA RECITAZIONE AL GIORNO D'OGGI)

La mia cara amica Silvia Nati, bravissima attrice, compagna di Accademia (Silvio D'Amico, perché l'Accademia è una!), dice, da tempi immemorabili che: "Puoi fare il tipo di teatro che vuoi, tradizionale, sperimentale, avanguardia, ricerca... e tutte le 'mbecillità che ti pare - la Silvia è fiorentina purosangue - ma ci so' dieci regole su come stare 'n palcoscenico che valgono pe' tutti, e quelle LE DEVI SAPERE!".
La Silvia ha ragione. Punto.
Saranno dieci, le regole, o sette, o venti, non mi voglio ora interrogare su questo, ma quelle sono uguali per qualsiasi genere tu faccia, e le devi conoscere. Del tipo: portare la voce (o più banalmente "farsi sentire fino all'ultima fila di poltrone"), sapersi muovere, sapere come si sta fermi, battere le finali di parola, conoscere la differenza nella dizione tra una vocale aperta o chiusa (poi aprile e chiudile come ti pare, ma la differenza la devi gestire come bere l'acqua), impara a respirare, ecc. ecc. ecc.
Mario Ferrero è stato un bravissimo regista, ma ancor più è stato un magnifico insegnate. Entrato in Accademia nel 1979, c'è rimasto fino alla sua scomparsa a 90 anni. Oltre trent'anni di insegnamento. Gli attori che oggi vedete, usciti dalla "Silvio D'Amico", da Castellitto a Gifuni a Lo Cascio, alla Mandracchia, alla Silvia, alla Marinoni, ecc. sono tutti passati sotto di lui. Poi, magari, ciascuno di questi avrà amato un qualche altro Maestro, sebbene in molti continuino a portare il ricordo di Mario ben vivo nel cuore - compreso il sottoscritto - ma i primi insegnamenti, nella scuola di Teatro per eccellenza, li hanno avuti da Ferrero.
Ebbene, Ferrero in questo era un mago, perché ti chiedeva di eseguire e basta, perché a forza di urla o frasi molto colorite, ti piantava nell'animo, nel cervello, nel corpo, "le aste" del mestiere, i fondamenti dai quali non avresti più potuto prescidere, anche se poi finivi a fa "er teatro de ricerca" ("Ricerca de che? - si chiedeva Paolo Lorimer - dei sordi 'n fondo a la saccoccia...")
Ovviamente il lavoro di Mario non si fermava qui, e in fasi successive entrava in dinamiche di più alto livello. Ma dopo un anno con lui avevi "le basi", quelle che oggi ci stiamo mortalmente giocando in molti campi, non solo recitativo: LE BASI!

Nelle mie ultime esperienze di insegnamento, noto con profonda amarezza, vedendomi i ragazzi andare e tornare, che passano da un insegnante all'altro (per loro scelta, io mica li posso legare, sono liberi, per me, di fare, sbagliare o migliorare nel percorso che preferiscono e che sentono più consono alle loro capacità), sto notando una singolare tendenza: moltissimi docenti operano sempre come se fossero in un super corso di perfezionamento, anche se hanno davanti a loro ragazzi completamente acerbi. Sento ventenni fare discorsi da attori con lunga esperienza, e senza nemmeno - mi è ben chiaro - che capiscano cosa stiano dicendo e il perché lo stiano dicendo.
In un post su Facebook parlai un giorno della necessità per i novizi di farsi poche domande e eseguire l'esercizio che il maestro affidava loro, come un pianista la mattina fa le scale o il cantante i vocalizzi: eseguire e basta.
Ebbene, la pratica della esecuzione guidata, mirata a inchiavardare nel bagaglio dell'attore in erba quelle dieci regole invocate dalla Silvia, pare non usi più.
C'è oggi un'altra tendenza, a mio vedere pericolosa e comunque poco fruttuosa, poiché alla fin fine non forma un lavoratore-attore, un soggetto, cioè, che è messo, prima di ogni altra cosa, nelle condizioni di cavarsela nelle più disparate situazioni e riuscire, bene o male, a risolvere. 
Mi pare che ciascun docente sia convinto che "il metodo recitativo" che egli persegue, o ha imparato, o ha praticato nella sua carriera, sia il migliore, e quindi l'unico. E quello, implacabilmente, vuole insegnare all'allievo! Tutti gli altri metodi vengono presentati al ragazzo come sbagliati e basta: "la recitazione è questo, il resto è m...". E nella volontà di creare quello che in realtà è solo il nuovo adepto di una specie di setta, si perde di vista l'insegnamento dei fondamentali, anzi NON SI INSEGNANO I FONDAMENTALI, spesso convincendo l'allievo che "con la giusta concentrazione, col sentimento giusto, con l'energia giusta... tutto si risolve da solo".
I risultati? Non serve che ve li descriva - e so che i miei colleghi (veri!) hanno già capito.
Non meravigliatevi, dunque, se in una fiction non capite le parole, o in teatro non vedete improvvisamente più bene un attore sul palco, o non capite come e perché sta compiendo un gesto... Il tutto è dettato dallo sbiadirsi delle "dieci regole della Silvia", a favore de: "'a concentrazione, l'energia, il ricordo de la situazione, l'intenzitàà, 'a ricostruzione de la vita, lo smembramento de la frase, 'a poesia nun se recita, er verso lo devi da rompe...".
Il risultato è che la sola cosa che si rompe sono i coglioni. Ma questo poco conta, basta che siamo stati INTEEEENZIII!
Eppure, io noto, i giovani sono maledettamente alla ricerca di maestri, ma di maestri che facciano in modo che essi siano autonomi, lo diventino, crescano autonomi, e non che dipendano sempre dal proprio insegnante; di maestri che li mettano nelle condizioni di districarsi nelle più diverse situazioni, e di cercare così, dati gli strumenti di base, la strada che preferiscono e sentono più vicina al loro animo.
C'è invece molta cialtroneria, anzi sempre più cialtroneria nel mio mestiere e nel suo insegnamento. con il risultato che la professione sta andando letteralmente a puttane, a tutto vantaggio dei dilettanti puri, o di dilettanti spacciati dal main stream come professionisti (chi sono? dove sono? cosa fanno? Ne parliamo un'altra volta).
Cosa rende un insegnate un buon insegnante, mi sono chiesto in questi anni, e credo che la risposta sia in quello strano sentimento che ti senti strisciare nell'animo dopo un giusto periodo di lezioni, sentimento che insistentemente, guardando il ragazzo ripete: "Ti ho passato gli strumenti che a me sono stati passati: quand'è che cominci a camminare da solo e ti levi dai coglioni!".

giovedì 10 agosto 2017

CACCIA AL NUOVO NOTEBOOK, L'INUTILE BATTAGLIA (PERSA!)

Il mio computer è morto. O quasi. Nel senso che non recepisce più alcun aggiornamento e dunque è da considerarsi fuori gioco come un nuotatore che voglia scendere in gara con uno scafandro da palombaro, roba impossibile.
Così è partita la caccia al nuovo notebook! Perché in queste ricerche la quantità di termini che devi imparare è pari solo ai cinque anni di lezioni di chimica della compianta prof Tramontano compendiate in un mese, e se non si fosse capito io, la chimica, la fisica e la matematica non siamo mai andati troppo d'accordo, fin dalle elementari. In conseguenza, coerente con la mia capacità di complicarmi l'esistenza, per paura del greco, di cui i miei cugini più grandi, tutti al classico, mi parlavano con terrore, scelsi lo scientifico. Praticamente cinque anni a lottare per un sei! Finito il Liceo non ebbi dubbi: Lettere! Ovviamente Moderne, e basta con i numeri.
Oggi, di fronte a processori, RAM, HDD, SSD e compagnia cantante, praticamente sbarello!
Ma il nuovo computer portatile ci vuole e quindi tuffiamoci nell'impresa, non sia mai che la rifiuti.
Il risultato è che mi trovo di fronte a un mondo completamente folle del quale, più esamino, più capisco letteralmente nulla, scoprendo ogni giorno, oltretutto, una magagna. E siccome non sopporto l'imbroglio e l'ingiustizia, faccio ancora maggiore resistenza, e finché questo vecchio (si fa per dire) Mac funziona, tiro avanti.
Il delirio maggiore è dato dalle sigle. Credo di avere capito che il successo di Apple è dovuto, oltre alla vulgata corrente che: "non prende i virus", anche al fatto di avere in realtà pochi modelli e dai nomi facili da ricordare.
Le altre case, invece, HP, o Acer, o Asus, o Lenovo, o Dell... producono una quantità di prodotti da fare invidia a tutte le fabbriche cinesi, dalle quali, per colme di ironia, tutti 'sti computer in qualche modo arrivano.
Lettere e numeri incastrati in nomi che diviene impossibile ricordare o distinguere per un confronto.
Poi ci sono i prezzi, talmente variabili da far venire letteralmente il mal di capo.
Poi ci sono le offerte, e i tassi e le rateizzazioni e i piccoli negozi e la grande distribuzione e l'addetto che oggi ti consiglia il contrario di ciò che un suo collega nello stesso megastore ti ha consigliato ieri.
Insomma, pare una battaglia, alla ricerca del miglior rapporto qualità/prezzo, o quanto meno dell'evitare la fregatura e farsi un'altra scarsa decina d'anni tranquillo.
"Resta su Apple", mi dice qualcuno. Follia, rispondo io, visti i prezzi e visto il fatto che, il giorno in cui, agosto 2008, comprai il mio Mac pensai di fare un grande investimento proprio perché doveva durare. Ma il mercato è il mercato, e anche la casa di Steve Jobs si è adattata, per cui, dopo un certo numero di anni, sempre più ristretto, cominci ad essere vecchio e non più supportato. Non è un mondo per vecchi, quello del mercato.
E allora necessita fare opposizione. Niente Apple!
Già, ma allora cosa?
Un AV 110X7Q, o un EX 15 SS82, oppure un EX 15 SS83 da confrontare con un AV 111X71Q?...
Una scheda HDD, o SSD, o la novità scoperta in questi giorni dell'eMMC che te la segnano come un SSD nei cartellini ma non lo è, e ha pure capacità ridotta perché i Giga e poi la RAM e non consideri la scheda grafica? "Mortacci vostri!", è la sola cosa che pensi mentre l'impiegato ti spiega cose che non capisci.
"Ma lei cosa ci deve fare?", "Io?... internet e scrivere...", "Perché questo per i giochi non è adatto", e chi se ne frega dei giochi, mica te l'ho nominati. "e se poi sente la musica mentre va su internet e sta scrivendo.... il consumo e la ram che gira...". Ma io che ne so? Ma ti pare che scrivo mentre ascolto la musica e giro sui siti mentre scrivo? Non so in che mondo vivete. E se gli addetti alle vendite fanno queste affermazioni, dev'essere questo il mondo in cui vive la gente.
Ho scoperto che c'è gente che spende € 1.800,00 per avere un portatile con cui giocare. Non avete proprio un cazzo da fare nella vita!
Al che, a questo punto, mi domando se sono più folli i fabbricanti di computer o la gente che se li compra. Non ho risposta e resto sempre alla solita certezza: Non è un mondo per vecchi, o comunque non è un mondo per gente semplice.
Ma ne esiste più di gente semplice? I vegani ce li hanno tutti questi problemi con il computer? (perché mi vengono in mente i vegani?).
Forse alla fine ha ragione il mio amico Alberto, che di computer si occupa: "So' tutti uguali, stabilisci la cifra e comprane uno, so' tutti uguali. Tra tre anni si scassa, è vecchio e te ne devi prendere un altro".
Deve essere questo il vero trucco cui non mi rassegno: fottere il mercato adattandosi al mercato.
Non te li do 800 leuri, te ne do al massimo 300, tra tre anni altri 300... e alla fine non ti ci faccio guadagnare come speri perché tanto è sempre un fregatura.
Il credito al consumo, del quale dovrò per forza di cose usufruire innalzando ancora il debito privato del mio Paese, ti dà l'illusione che, poco alla volta, puoi fare un acquisto che ti metta al sicuro per un tempo ragionevole di utilizzo, che almeno per dieci anni non ci penserò più. Illusione!
Devo convinvermi: prendi una roba, Liguori, usala e poi gettala; dagli meno che puoi dei tuoi soldi e... fanculo al mondo, tanto non è per vecchi.

martedì 8 agosto 2017

POMPIERI PIROMANI, STARE DALLA LORO PARTE.

Io non voglio giustificare. Voglio capire. E che credo che questo sia il dovere di ogni cittadino coscienzioso. L'indignazione un tanto al chilo, combinata con il moralismo un tanto al chilo di cui è figlia, serve a poco. Anzi a nulla. "La crisi - scrive Eduardo De Filippo ne "L'arte della commedia" - è una cartella di rendita nelle mani dei confusionari". Ecco perché voglio, tento, provo a capire.
La storia dei pompieri di Ragusa che appiccavano incendi per prendere le indennità fa sicuramente scalpore. Ma lo sdegno non è sufficiente.
Innanzi tutto si fa presto a dire "i pompieri, i vigili del fuoco". Le informazioni ci dicono che si tratta di volontari. Allora cominciamo, per favore, a non mescolare l'onesto lavoratore con chi dà occasionalmente una mano.
Prenderei poi in considerazione l'ipotesi che anche quei quindici volontari non abbiano svolto unicamente la loro attività andando ad appiccare roghi per poi spegnerli; probabile che nel corso del tempo si siano anche prodigati in attività regolari. Questo conta meno, poiché davanti a una vita di onestà, se metti un piedi in fallo, per quel fallo vai giudicato. Il resto può far parte del quadro generale in cui il fattaccio viene a concretizzarsi, delle cosidette attenuanti che non eliminano la colpa ma devono essere prese in considerazione.
I volontari della storia prendevano un compenso. E questo già suona strano, per cui la prima cosa che viene da chiedersi è: ma se uno è volontario, perché viene pagato?
Una qualche risposta ce la dà il segretario del CONAPO, sindacato autonomo dei vigili del fuoco, Antonio Brizzi, sul sito della organizzazione: "Il vero volontariato è gratuito - ma và?! - Questo è precariato mascherato". E già qui, c'è qualcosa che non quadra.
In realtà ci sono molte cose che non quadrano, e se vi fate un giro sul web trovate decine di video o articoli nei quali si denuncia il degrado da cui il prezioso corpo è ormai investito. Questo è uno, preso veramente a caso.



La denuncia, come potete ascoltare, è forte, e non dissimile da quelle di tanti altri lavoratori di questo Paese. Stipendi bassissimi, mezzi che mancano, strutture fatiscenti, precariato interminabile...

È stata una estate terribile, nella quale i nostri vigili del fuoco sono stati impegnati oltre qualsiasi immaginazione e in condizioni che più volte hanno fatto gridare allo scandalo, suscitando anche un profondo moto di riconoscenza per la la loro abnegazione.
Le segnalazioni e proteste di questi lavoratori giungono, come sempre dal web si può facilmente verificare, da ogni parte di Italia. Un esempio qui e un altro qui...
Basta questo a giustificare? Ma evidente che no. Ma forse aiuta a capire, che la situazione in cui operano i nostri pompieri è davvero indecente, al punto che i volontari vengono minimamente retribuiti forse per supplire almeno alle carenze di organico, visto che le carenze di mezzi non possono essere risolte che gli esseri umani.
Aggiungiamo un altro tassello: quanto guadagna un vigile del fuoco? Troviamo l'informazione anche in questo caso facilmente sul web in questo sito che spiega come entrare nel corpo. Si parte da 16.700 Leuri lordi l'anno! Se vi pare adeguato, allora nulla di ciò che accade deve indignarvi.

Al loro fianco ci sono i volontari, come abbiamo detto e compreso. Quali sono i loro compensi? E ci sono?
Ci sono! E a quanto si legge sempre sul sito del CONAPO, pure per loro ci sono ritardi e ritardi nei pagamenti.  
Allora dobbiamo prendere sul serio la denuncia di Antonio Brizzi secondo il quale il volontariato è un precariato mascherato?
Mi riservo la risposta.

Ma tutto questo, giustifica? Ancora no e mai giustificherà l'atto malsano e spregevole.
Ci presenta, però, un piccolo interessante quadro, quello di un degrado che mette in difficoltà il lavoro nonché la vita delle persone. E non è difficile immaginare che nel degrado si possa giungere a immaginare il peggio pur di sfangarla.

Avete presente i film americani, i film di quella america bella, felice, ricca e terra di opportunità?
Quante volte, in quei film, vi è capitato di vedere un onesto padre di famiglia, un serio impiegato, una segretaria zelante, un compito addetto alla sicurezza i quali, di fronte alla possibilità di un forte guadagno che può cambiare la loro vita, grama, trista, ordinaria e difficoltosa, decidono di assecondare un rapinatore, di entrare in un brutto giro d'affari, di lanciarsi in una speculazione pericolosa?
E quante volte, questa volta nella nostra Italia, avete sentito di un impiegato comunale che mette a rischio il proprio posto di lavoro, nonché la propria onorabilità, per una mazzetta di mille, duemila euro? Quante mazzette prenderà all'anno quell'impiegato, dieci, quindici? Di certo non sono soldi con cui scappa alle Bahamas per non tornare più, lui e la sua famiglia. Così come difficilmente la zelante segretaria statunitense immagina di girare il mondo in Yacht per il resto dei suoi giorni.
Qual è dunque la questione?
La questione è che abbiamo destrutturato un mondo basato sul concetto di socialità e di Stato forte che si occupa dei propri cittadini, poiché i cittadini stessi sono lo Stato, e abbiamo... messo il denaro davanti a tutto. Abbiamo cercato e realizzato la competitività, il libero mercato, il mondo delle opportunità ma solo per quelli "che ce la fanno", gli altri si arrangino, il darwinismo eletto a sistema... abbiamo ucciso la solidarietà, e continuiamo a ucciderla ogni volta che un lavoratore sciopera per difendere i suoi diritti e un altro lavoratore si lamenta dei disagi che lo scioperante gli provoca.

Il Denaro, la dea Mammona, è più importante di tutto perché è la sola cosa che può risolvere qualsiasi problema: curarsi bene, educare i propri figli al meglio, vivere momenti senza pensieri, fare vacanze di buon livello, soddisfare i propri più strampalati bisogni, assicurarsi una vecchiaia serena...
"Ma anche prima era così!".
Mi spiace NO.
Il Paese che dal dopoguerra si era cominciato a costruire, e che viaggiava su binari efficienti, prevedeva una solidarietà sociale che garantiva vita dignitosa all'operaio come al piccolo e medio industriale. E questo lo abbiamo distrutto.

A questo punto, fermatevi un attimo a riflettere e chiedetevi: è possibile che un gruppo di quindici persone, con le proprie difficoltà di vita, abbia architettato un piano malefico che gli consentisse di arrotondare lo stipendio, come l'impiegato del film americano decide di partecipare alla mega truffa per mandare i figli all'Università?
Lasciate per un attimo il moralismo un tanto al chilo, vuoto e inutile se non servisse solo a farvi sentire a posto con la coscienza, e pensateci: quante volte avete detto, un po' per celia e un po' per non morir, "Eh, ma vabbè!... ma magari se me li trovavo davanti io quei soldi, me li prendevo..."?
Mai? Sicuri che la morale che applicate agli altri non può investire in alcun momento della vostra vita anche voi? Nemmeno per il pensiero? Sicuri che non avete mai pensato che l'immigrato vi ha stufato quando vi vuol vendere le borse false sulla spiaggia, che avete sempre pagato perfettamente il parcheggio, che non avete mai buttato un piatto di plastica nel contenitore della carta?

Quanto avranno preso per questo loro giochino perverso e schifoso quei quindici volontari alla fine? Duemila euro a testa? Millecinquecento? Tremila?
Meno male che li hanno scovati e fermati perché il danno recato a noi, alla nostra terra e alla natura era enorme, forse dieci, forse cinquanta volte tanto, ma siamo proprio sicuri che nessuno di noi possa mettersi nei loro panni?

Non sto dalla loro parte come scritto nel titolo (provocatorio, altrimenti non leggevate nemmeno le prime due righe...), ma forse un quadro di comprensione del fenomeno possiamo tirarlo giù.
Ricordandoci - last but not least - che il tutto avveniva al Sud.
Qualcuno ricorda qual è il tasso di disoccupazione da quelle parti?

Mai per giustificare, ma solo per comprendere.