sabato 24 dicembre 2016

CARI POLITICI, NOI TEATRANTI NON LAVORIAMO GRATIS.

Questo è il link, e questo è il testo (tanto per non farvi perdere tempo, ché è breve):

"Festa di Roma 
Roma Capitale, in occasione di questa bellissima festa, invita tutti coloro che siano appassionati di musica, canto e teatro, a voler condividere il proprio talento ed esibirsi negli spazi appositamente allestiti sul Lungotevere, nel tratto compreso tra ponte Garibaldi e Castel Sant’Angelo. Le proposte di intervento (con l’indicazione dei recapiti) vanno inviate via email entro le 12.00 del 28 Dicembre 2017 all’indirizzo staffdir.cultura@comune.roma.it allegando una breve presentazione, la descrizione della performance proposta e la sua durata. Si specifica che, durante le esibizioni, non potranno essere veicolati messaggi pubblicitari o politici, né potranno essere svolte attività di commercializzazione di prodotti di consumo. La partecipazione è a titolo gratuito, ogni onere della performance sarà a carico del partecipante, durante le performance non sarà possibile raccogliere offerte. Sulla base delle proposte ricevute e degli spazi disponibili, l'amministrazione si riserverà di accogliere le richieste nei limiti di compatibilità tecnico-organizzativi.” 

Mi capita spesso di dire che grillini e piddini sono due facce della stessa medaglia. Per certi versi fare una simile affermazione mi dispiace, non foss'altro che per un senso di mancanza di speranza, da un lato e dall'altro; ma se qualcuno ricorda l'iniziativa del ministro Franceschini, uno dei tanti flop dei governanti degli ultimi decenni, questa del Comune di Roma a guida 5 Stelle è un'altra bella iniziativa che non solo auspichiamo, ma siamo certi terminerà con un nulla di fatto.
La certezza è che i teatranti non dimenticano: "gli attori hanno buona memoria", dice Deborah in quel capolavoro di Sergio Leone che è "C'era una volta in America". I politici si mettano il cuore in pace: i teatranti non dimenticano.
Con Teatranti intendo tutti i lavoratori dello spettacolo, di ogni genere e grado, e sulla proposta dell'amministrazione capitolina c'è poco da dire, se non che è squallida, squallida come la concezione che si ha di noi.  Sembra quasi che si voglia offrire a dei bimbi uno spazio in cui giocare. E certo le osservazioni che si possono fare sono tante, tantissime, a cominciare da quelle che si leggono sui social, tipo: andateci voi a lavorare gratis, quel giorno i chirurghi opereranno gratis?, è una vergogna, ecc.
Potrei aggiungere che la cosa veramente bella sarebbe vedere lungo le strade a "esprimere la loro creatività" coloro che certo non hanno bisogno: le star, i professionisti dai trecentomila euro in su a film o a fiction televisiva, i gradi registi, o i super musicisti. Beh, allora sì che sarebbe divertente. E pure interessante: vedere "le stelle" che offrono gratis il loro lavoro alla loro città. E per la strada, come - forse - quando erano ragazzi in cerca di fortuna.
Ma forse costoro sono divenuti troppo snob per regalarsi una botta di giovinezza.

Non è questo, però, quel che mi preme. Quel che mi preme è rilevare che nel non inquadrare il valore (e le problematiche) dei teatranti tutti, si evidenzia l'assenza di una progettualità culturale; progettualità culturale che non si può più considerare come circoscritta a un comune, ma va estesa alla nazione intera.
Dai tagli lineari, alle nuove regolamentazioni contrattuali, al dilagare di iniziative senza compensi per i lavoratori, sono ormai anni che i governanti stanno dicendo a tutto il Paese che la Cultura, nelle sue molteplici forme, non ha valore.
Perché forse i politici non lo hanno compreso, ma il compenso è la concretizzazione del riconoscimento della professionalità. Certo, vogliamo essere pagati, come tutti i lavoratori, perché abbiamo casa e famiglia, ma anche perché ogni volta che mi paghi stai riconoscendo che ciò che faccio ha un valore, e quel valore sono io stesso che ho impegnato la mia vita per raggiungere quella professionalità. Non mi pare difficile da capire.
Invece ti metto a disposizione un kindergarten: vai, bimbo, gioca e sii felice.

Io spero - e invito vivamente - i miei colleghi professionisti di non aderire.
E spero anche che altri aderiscono: gli amatoriali.
Avrete, così, le strade invase dai dilettanti.
E forse, cari politici, guardandoli, riconoscerete finalmente voi stessi: dilettanti con dilettanti, perché attore e spettatore sono uno specchio dell'altro.

La verità è che quasi nessuno di voi ha una vera visione di questa Nazione proiettata nel futuro. Quel che vi manca è proprio la Politica, la sua visione a medio termine ("nel lungo periodo saremo tutti morti" JMK), e non l'avete perché non avete una visione culturale della Nazione.
Oh, scusate, dimenticavo che a voi, come a tanti cui avete fatto il lavaggio del cervello, il termine "nazione" fa schifo, ci sono anche coloro che lo considerano fascista. A me, invece, fa alcuna impressione, trovo che sia etimologicamente molto interessante.
Non avere una visione culturale della Nazione significa non avere una visione politica, economica, sociale, civile... Per voi la Cultura, diciamoci la verità, è una rottura di scatole: "Ma che vogliono questi "artisti", che palle!, con la loro supponenza, con la loro serietà, con la loro visione astratta del mondo; noi ci occupiamo di problemi concreti, mica possiamo stare appresso ai vostri deliri. Che ce ne facciamo di Edipo o di Amleto, di Picasso con quei disegni strani o di tutte quelle Madonne con Bambino, non ne bastava una? E i ballerini poi, i ballerini sono talmente irreali quanto tutte quelle strane mosse che fanno, ma a che serve andare sulle punte?
La Cultura, al massimo, serve a portare turisti e far camminare l'economia, alberghi pieni, ristoranti affollati, bar e negozi presi d'assalto... Ecco, cari artisti, mettetevi al servizio dell'economia: per la strada ci saranno le bancarelle, la gente comprerà, e voi offrirete un piccolo piacere al consumatore. Tutto qui. A che serve il pensiero quando hai la tasca (e la pancia) piena?"
È semplice: se non avete visione culturale, come potete vedere i lavoratori della cultura? Ovvio che per voi non esistano.

Oppure...

Oppure, la verità è che una visione ce l'avete, ed è una visione globalizzata del mondo, dove capitali finanziari e merci camminano liberamente sulla pelle degli uomini, e i lavoratori sono d'impiccio, con le loro richieste di diritti, di retribuzioni, di equità sociale... E così, come per un operaio il salario deve scendere insieme ai diritti, per gli artisti il compenso deve scomparire.
Avanti con gli amatoriali. Con coloro che non studiano, non si aggiornano, non si specializzano, non approfondiscono, anche perché - vanno compresi - intenti a guadagnarsi lo stipendio con altro lavoro. Sarà più semplice, così, fargli pensare quel che voi volete che pensino, divulgare messaggi superficiali e invasivi. E giungere alla omologazione dell'arte, e quindi del pensiero: uguale a New York, come a Roma, a Pechino, Parigi o Shangai.
La vostra parola d'ordine è "integrare". Sembrerebbe bella, ma l'integrazione è nemica della diversità. Abbatte, uccide, spegne le diversità.
Mentre l'arte ha bisogno estremo della diversità, non solo nazionale, ma anche regionale, in un continuo processo di creazione e interscambio che perpetuamente l'arricchisce.

Grazie, non abbiamo bisogno di giardini d'infanzia. Abbiamo bisogno di lavoro, come tutti, come gli operai e i pescatori. Perché siamo come loro: lavoratori.
E se proprio avrò necessità di far "sfogare" il mio ego, organizzerò una lettura nel salotto di casa mia.
Di sicuro non mi beccherò il freddo. E per niente.
Anzi, visto che è Natale, faccio gli auguri a tutti e torno a dire la poesia in piedi sulla sedia come quando ero bambino, per mamma e papà. Gratis. Loro lo meritano.

lunedì 5 dicembre 2016

4 DICEMBRE, LASCIARSI ALLE SPALLE L'EDEN (o l'inferno dantesco)

Non ho avuto fiducia nel popolo italiano, lo ammetto. Dimenticando che l'unico momento in cui davvero reagisce è quando viene messo spalle al muro. 
Ho temuto la potente propaganda, ho temuto che la paura, la tecnica della paura scatenata dal regime avrebbe sortito il suo effetto. 
Ho usato l'idea della vittoria della parte avversa anche con un filo di scaramanzia, ed anche, lo confesso, per impaurire io, a mia volta, qualcuno, qualche pigro, magari, che sarebbe rimasto a casa pensando che tanto era tutto già fatto e scritto. E pure per portare un po' sfiga a quelli del Sì, voglio confessare anche questo. Resto un uomo del SUD, "Non è vero... ma ci credo". 

Ma non voglio cercar scuse, perché sono maledettamente felice di avere sbagliato! E ringrazio questo strano popolo, di cui non si comprendono mai bene i contorni, per avermi ricacciato in gola le paure. Non mi ha soffocato, mi ha fatto respirare. 
Perché il risultato del giorno di Santa Barbara è clamoroso, clamoroso e inequivocabile per i numeri, che sono indiscutibili. 
E che lanciano un segnale netto oltre ogni dubbio, il messaggio che dovrebbe arrivare a ogni politico della penisola: 

Cari politici italiani, è la seconda volta nel giro di pochi anni che il popolo italiano boccia una riforma della Costituzione che ne stravolge il contenuto, non parliamo di piccoli aggiustamenti o ammodernamenti (che pure quelli sarebbero da discutere, giacchè ogni volta che ne avete apportato uno avete combinato disastri, vedi Titolo V e Pareggio di Bilancio), ma di stravolgimento del contenuto, prima è toccato a Berlusconi ora a Renzi, prima al centrodestra ora al centrosinistra. 
Il messaggio a questo punto è: IL POPOLO ITALIANO NON VUOLE CHE LA SUA COSTITUZIONE SIA CAMBIATA. PUNTO. 
Non vale nemmeno il discorso delle" riforme condivise, a ampia maggioranza..." e tutti gli altri modi di dirlo. 

NO, IL POPOLO ITALIANO HA DETTO E RIBADITO CHE NON VUOLE CHE SI TOCCHI LA SUA COSTITUZIONE. PUNTO. 


Ci saranno quelli che diranno, forse giustamente, che gli Italiani vogliono che sia applicata... ma nemmeno questo è il concetto chiaro e inequivocabile che esce dalle urne. L'unico messaggio è quello che vi ho detto. Gli altri sono tutte interpretazioni. 

Nessuno però si illuda che sia finita. 
È stata vinta soltanto una battaglia, importante, tipo quella di Agincourt, ma non ancora la guerra, che sarà ancora lunga e complicata, dura e snervante. La bestia ferita, si agita ancor più, maledettamente, tira possenti e pericolosissimi colpi di coda.
Forse lo scenario sarà questo, ma come dice il suo autore è solo fantapolitica. 

...O no?
Lo scopriremo solo vivendo. Tanto, abbiamo vissuto e siamo sopravvissuti sempre, pure tra milioni di difficoltà. Chi può avere paura di un governo tecnico, quando questo Paese (e mica solo lui nella Storia) ha visto passare Lanzichenecchi e pestilenze, carestie e nazisti, colera e imperi, cadute e resurrezioni, ecc. ecc. ecc.
C'è un costo, sempre, soprattutto in termini di vite umane, che è quello più odioso, vero!
Ma questo sistema, che molti temono, solo per sentimento irrazionale, per paura, anzi per terrore, non ci è già costato devastazioni sociali e personali, dolori, morti, suicidi, malattie, disoccupazione, perdita di aziende, vessazioni, perdita di diritti dei lavoratori, del diritto alla sanità, alla scuola di valore e uguale per tutti, di pari opportunità, i poveri non sono forse più poveri e i ricchi più ricchi...? 
Se lasceremo questa terra, ci lasceremo forse alle spalle l'Eden o uno spettrale girone dantesco? 
Talvolta c'è coraggio in chi parte, talvolta in chi resta. 
Noi siamo in una paradossale situazione, nella quale il partire, il lasciare forse è il restare, restare e combattere, continuare a combattere. Sconfitta è avere paura del futuro, il coraggio è di chi compie il "salto nel buio", non di chi non vuole compierlo perché vittima della propaganda del terrore (e giuro che ne ho preso uno a caso). 

Non voglio qui, oggi, fare nomi, ma c'è uno sconfitto, il vero grande sconfitto, che nessuno ha finora nominato nei dibattiti. La sua è una sconfitta davvero unica, pesante, umiliante. 
E giusta. Per me la sua sconfitta è giusta, perché essendo un grande vecchio, lui c'era, lui c'era quando accadevano le cose più brutte della nostra Storia del '900. 
Costui, nel nome di una religione, la religione della sua élite, ha permesso che troppe cose si ripetessero. Ha tradito il suo popolo, e soprattutto (so' che vi parrà strano ma questo è un discorso che comprendo solo io, scusate) i suoi amici. 
Il Popolo italiano ha risposto. Ora basta. 


Nella bella notte italiana di ieri, mi è tornata in mente questa bellissima poesia di Alfonso Gatto. L'ultimo verso è un puro canto del cuore.
Permettete che la dedichi a tutto il Popolo italiano.  
 



25 aprile

La chiusa angoscia delle notti, il pianto
delle mamme annerite sulla neve
accanto ai figli uccisi, l'ululato
nel vento, nelle tenebre, dei lupi
assediati con la propria strage,
la speranza che dentro ci svegliava
oltre l'orrore le parole udite
dalla bocca fermissima dei morti
"liberate l'Italia, Curiel vuole
essere avvolto nella sua bandiera":
tutto quel giorno ruppe nella vita
con la piena del sangue, nell'azzurro
il rosso palpitò come una gola.
E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d'improvviso ci apparve in mezzo al petto.

mercoledì 30 novembre 2016

IO SOSTENITORE DEL NO, TEMO VINCERÀ IL Sì (5 spunti di riflessione)

Avevo cominciato a scrivere un post per spiegare perché io, sostenitore del NO, temo vincerà il Sì. 
Mi sono poi accorto che stava venendo fuori un articolo interminabile. In pochissimi, forse nessuno lo avrebbe letto, nemmeno i miei sei affezionati lettori. 
A quel punto ho deciso di prendere un'altra strada, fidando sul fatto che, soprattutto se seguite altri importanti blog, alcuni dei quali menzionati qui a fianco tra i miei preferiti, avete imparato a unire i puntini. 
Limito il discorso, allora, anzi non lo faccio proprio e vi propongo una serie di brani, letterari, cinematografici e teatrali. Le parti in grassetto sono mie evidenziazioni. 
A voi le deduzioni.

Da “Il memoriale della Repubblica” dello storico Miguel Gotor, oggi deputato del PD, pubblicato da Einaudi

(Il pezzo che cito non è semplicemente “la deduzione dello storico”; esso può essere considerato come felice sintesi ottimamente corredata da una serie di note che rimandano a testi originali e ad altri studi sulla figura dello statista italiano; reputo quindi possa essere acquisito come spunto di riflessione) 
 
“Come ha spiegato Giovanni Moro in un’intervista del 1998, il padre, nel rivendicare il ruolo della DC, aveva tematizzato come pochi il conflitto tra sistema politico e società italiana, acutamente consapevole della perdita di autorevolezza e della deligittimazione dei partiti che non avrebbero più potuto rivendicare il monopolio della dimensione pubblica. Sotto questo profilo Moro, sia da libero sia da prigioniero, è stato il politico italiano che meglio di ogni altro si è reso conto della crisi delle regole democratiche, intesa come difficoltà del sistema di governo parlamentare di risolvere il dilemma tra rappresentanza e decisione. Un problema comune a tante democrazie occidentali, ma che in Italia, ancora trent’anni dopo, si avverte con particolare urgenza. Moro, con la sua insistenza sulla presenza nella penisola di una destra profonda e non completamente espressa, sembrava ricordare che la nazionalizzazione delle masse nel nostro paese era avvenuta sotto il fascismo e perciò aveva assunto caratteri inevitabilmente autoritari. Una miscela particolare di iperpolitica e di antipolitica che la crisi degli anni Settanta avrebbe riportato in auge, naturalmente sotto forme nuove e adeguate alla mutazione dei tempi. Un fattore obiettivo che avrebbe condizionato gli sviluppi della qualità della democrazia italiana nel lungo periodo, favorendovi l’attecchimento, più che altrove, di modelli populistici e plebiscitari, di cui nelle pagine di Moro si legge in controluce la previsione”. 



Da "Il generale della Rovere", film del 1959 di Roberto Rossellini, dall'omonimo romanzo di Indro Montanelli





Dal volume “Morte di un presidente”, sempre sul caso Moro, del giornalista Paolo Cucchiarelli, ed. Ponte alle Grazie:

“Nel 1946, Umberto Saba coglieva un elemento ancora oggi utile a capire l’Italia e anche il senso ultimo dell’omicidio Moro:

Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha mai avuto in tutta la sua storia, da Roma a oggi, una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molto porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono dei parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani (...). Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione (...) gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.

L’omicidio Moro è l’unico tentativo – non simbolico – di “uccisione del padre portato a compimento dalla generazione della rivolta post ’68; il problema è che fu colpito il padre sbagliato, con tutte le conseguenze dirette e indirette del caso, tra cui l’asservimento psicologico e politico che avrebbe caratterizzato gli anni successivi.”


Da "Il sindaco del rione Sanità" di Eduardo De Filippo




Per chiudere, da "Scritti corsari" di Pier Paolo Pasolini, ed. Garzanti, inizio del brano "Fascista", intervista di Massimo Fini 

"Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai. (...) Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato "la società dei consumi". Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. Ed invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. Nel film di Naldini ("Fascista", ndc) noi abbiamo visto giovani inquadrati, in divisa... Con una differenza però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di centocinquant'anni addietro, come prima del fascismo. 
Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di una irregimentazione superficiale, scenografica, ma di una irrigimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l'anima. Il che significa, in definitiva, che questa "civiltà dei consumi" è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la "società dei consumi" ha bene realizzato il fascismo". 


Credo si possa finire qui. 
Materiale spero di averne fornito a sufficienza. 
Voglio ricordarvi soltanto che Pier Paolo Pasolini fu assassinato nel 1975; Aldo Moro nel 1978. 

martedì 29 novembre 2016

IL NON PIÙ LIBERO VOTO DEI CAMPANI


L’ormai noto discorso del presidente della regione Campania Vincenzo De Luca ai sindaci per incitarli a sostenere il Sì al referendum sulla riforma costituzionale ha avuto, tra gli altri, un effetto che per un qualsiasi uomo del Sud intelletualmente onesto è estremamente fastidioso.
Chi frequenta i social avrà potuto infatti verificare che gran parte dei commenti indicano la tendenza al voto di scambio come geneticamente innata nei Meridionali.
Questo, ovviamente, soprattutto da parte dei sostenitori del No, molti dei quali temono che la vittoria del fronte avverso sarà determinata proprio da questa sorta di connaturata diversità.
La Rete non è la verità, ma un occhio minimamente attento può cogliervi, nel florilegio di opinioni, l’umore variegato e al contempo composito del Paese e delle sue parti.
Questo caso è esemplare di ciò che ancora, dopo 155 anni di Unità italica, il resto del Paese pensa di noi Meridionali e in particolare di noi Campani. Restiamo simpatici, svegli, fantasiosi, galanti, divertenti, ospitali, folkloristici, ma ancora non abbiamo cancellato tutto quel resto di peggio che ci hanno sempre attribuito. Il luogo comune è duro a morire, e anche il tanto di buono che dal Sud è venuto fuori in questo secolo e mezzo, non è riuscito ad abbatterlo. Dovremmo interrogarci, perché un motivo ci dovrà pur essere. Siamo e restiamo come quei simpatici truffatori, che si ammirano nel momento stesso in cui si condannano.
E allora, qui si pone un problema: cosa faremo, noi cittadini?
Risponderemo come il governatore regionale si aspetta, confermando così, agli occhi del resto d’Italia, la nostra condizione di geneticamente asserviti al potere, o ci opporremo anche modificando il nostro desiderio di voto, magari proprio per il Sì, pur di non esporci a un giudizio denigratorio e sprezzante delle nostre capacità di essere davvero cittadini di questo Stato?
Il discorso di De Luca ha lo spaventoso effetto di spingere noi in un doloroso paradosso, condiziona interiormente il nostro voto e anche la sua conseguente “lettura”. Pure chi intende votare NO, si vedrà indicato, forse, prima ancora che come difensore della Costituzione del ’48, come antagonista del Presidente di regione.
L’art. 48 della Costituzione italiana, dice che “il voto è libero”, e così dicendo indica non solo che è libero da imposizioni e condizionamenti esterni, ma che lo deve essere anche da quelli interni: la decisione deve essere presa in libera coscienza.

C’è ancora questa condizione per i cittadini Campani?

martedì 22 novembre 2016

SIAMO "LAVORATORI DELLO SPETTACOLO", PER FAVORE NON CI CONFONDETE CON "IL MONDO DELLO SPETTACOLO"

Ha girato in questi giorni una sorta di appello, documento, non si sa bene cosa, sottoscritto da una serie di intellettuali e soprattutto da artisti a sostegno del Sì al referendum costituzionale.
Per ciò che i social sono divenuti, si possono immaginare i commenti da parte dei sostenitori del NO sui rappresentanti del “mondo dello spettacolo”.
Io sono un attore, professionista, ho 52 anni, svolgo questo lavoro da oltre trenta, e non ho mai capito cosa sia “il mondo dello spettacolo”. Non lo conosco.   
Ciò che conosco è il mondo dei “lavoratori dello spettacolo”, delle seconde e terze linee che quotidianamente affrontano questa professione con onestà.
Vivo prevalentemente in Teatro, e intorno a noi attori c’è il silenzioso e valente mondo dei tecnici, dei trasportatori, delle scenotecniche, delle sartorie... tutte persone che si “guadagnano la giornata”, fanno sacrifici, crescono i figli, comprano casa, pagano il mutuo; combattono col “rosso in banca”, con la paga che arriva in ritardo, la diaria insufficiente, i treni o le autostrade, il costo dei ristoranti, degli alberghi (non i grandi alberghi, un tre stelle è un lusso!); che devono periodicamente controllare che i contributi gli siano stati effettivamente versati, che a fine lavoro aspettano mesi l’ultimo bonifico, che vanno in scena pure ammalati perché non puoi fare diversamente; che terminata la scrittura non sanno quando ne arriverà un’altra, che non vedranno mai un TFR, e veramente non sanno se prenderanno una pensione.
Gente che accoglie con amore tutte le difficoltà di un lavoro che è vera passione, che non ha protezione di alcun genere, non ha riconoscimento professionale, che si è vista negli ultimi e durissimi anni di crisi sottrarre spazio da gruppi di amatoriali che possono pesantemente abbattere i costi avendo ovviamente altra entrata.
Ma non fa niente. È il lavoro che ci siamo scelti, che amiamo, e per il quale quotidianamente combattiamo, perché come diceva Peter Brook: “il vero lavoro di un attore è cercare lavoro”, il resto, quando la scrittura arriva, è solo amore.
Io voto NO. Perché amo il mio Paese e la mia Costituzione. Perché sento di volerlo difendere da un subdolo assalto, perché la revisione l’ho letta e la trovo orrenda. Perché non vedo come si possa credere a un premier che farebbe, oggi, una battaglia contro l’Unione Europea, quando ha inserito nella riforma l’obbligo per noi, Stato italiano, di assorbire pedissequamente i dettami della UE (art. 117).
La crisi che ha investito la Cultura e lo Spettacolo italiano ha nulla di diverso da quella che ha colpito operai, contadini, pescatori, commercianti, impiegati, piccoli e medi imprenditori, che ha creato precarietà, insicurezza di lavoro e dunque di vita, abbattimento dei salari, restrizione dello Stato Sociale, che ha visto i ricchi divenire sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
È accaduto anche a noi. Perfettamente uguale. Lo Stato è praticamente sparito se non che per pochi “circoli” accortamente scelti, il teatro privato, che ha dato da vivere a tantissimi, è ormai in ginocchio, prendi oggi paghe che percepivi dieci anni fa, le lunghe tournée non esistono più, e di deflazione in deflazione salariale, alla fine i vincenti sono i dilettanti.
Anche da noi, ormai, si è creata una élite, distante dal resto dei lavoratori, che non si occupa dei loro problemi, che evita accuratamente di prendere posizione, distante, assente, autoreferenziale, dove talvolta salta fuori qualcuno con un minimo rigurgito di coscienza, poi più niente. E niente a che vedere con i Volontè, o le Magnani, o i Cervi che un tempo erano in prima linea per i diritti della categoria.
Certo, anche i componenti di questa odierna élite, per “arrivare” avranno fatto le loro gavette, ma la sensazione netta è che costoro abbiano totalmente dimenticato di quando... erano come gli altri.
Pensare che ogni lavoratore dello spettacolo, sia “il mondo dello spettacolo”, ci offende profondamente. Queste élites non ci rappresentano. E non per il Sì o per il No, ché pure tra noi lavoratori ci sono sostenitori della Riforma, ma perché ormai essi vivono lontani dalle nostre vite, come Marchionne dai suoi operai, Briatore dai suoi camerieri.
Per favore, non ci confondete. 
Grazie.   

venerdì 18 novembre 2016

DOV'ERA LO SPREAD QUANDO ERAVAMO VIVI?



h 5,30. Sono già sveglio. Cosa inusuale per un attore. Al massimo è l'ora in cui si va a dormire. Ma sono cose che non accadono più, leggende metropolitane ormai, roba di altri tempi, tempi in cui la vita era talmente più concreta da essere seriamente spensierata, tempi in cui nessuno avrebbe mai pensato di accusare qualcun altro di "vivere al di sopra delle proprie possibilità", perché le possibilità c'erano per tutti, abbondantemente, bastava solo volersele andare a costruire. Perché alcuno ti avrebbe messo i bastoni tra le ruote, nessuno ti avrebbe strutturalmente impedito di camminare: volevi il molto?, potevi provare ad averlo (mica è detto che ci saresti riuscito, ma ci potevi provare); volevi il tuo poco, il tuo giusto per una dignitosa sopravvivenza?, nessuno si sarebbe permesso di accusarti di essere improduttivo, non aggressivo, socialmente un peso... alcuno ti avrebbe fatto LA MORALE!
C'erano attori che andavano a letto dopo una sobria cena post-spettacolo, e attori che si attardavano fin quasi all'alba. Ciascuno gestiva la propria esistenza come preferiva senza sentirsi giudicare se non in pettegolezzi da bar che lasciavano il tempo che trovavano.
Era davvero un altro mondo; ed era solo trenta, quaranta anni fa. I giovani, nati tra la fine dello scorso secolo, e l'inizio del nuovo, non riescono minimamente a immaginarlo. Anche perché c'è troppo virtuale nelle loro vite, e l'immaginazione si è tristemente appannata.
E così stamane, alle h 5,30 mi alzo, ma in verità ero già sveglio da un po'. Mi sento come uno di quei vecchi signori della mia terra, che a dispetto delle dicerie popolari, guardano quotidianamente sorgere il sole, preparando il caffè, versando il latte nel piattino del gatto, innaffiando le piante, leggendo due pagine di libro, appuntando la lista della spesa. Prima che la casa si svegli, prima che il tramestio confonda pensieri e problemi: un'ora di vita in silenzio, come una meditazione orientale.
Ma sono un uomo del mio tempo e accendo il computer, e sfoglio, e leggo e osservo mentre sorseggio il primo caffè. E così, tra vecchi post e foto annegate nella memoria virtuale, mi rispunta fuori questo grafico sullo spread.
Lo spread... Ma c'era ai miei tempi lo spread? Non me lo ricordo. Eppure li leggevo i giornali, li ho sempre letti, anche due, tre al giorno; ho sempre dato una scorsa alle pagine di economia, non ho mai snobbato alcuna pagina e alcuna notizia; dov'era lo SPREAD?
E quel grafico è lì, implacabile, a dirmi che "altro che caduta del governo Berlusconi del 2011, ci sono stati numeri decisamente peggiori", differenze talmente più ampie da stroncare una mandria di tori con uno starnuto... Ma io non me lo ricordo... C'era ai nostri tempi lo SPREAD?
Perché mi sa che non sono soltanto io a non ricordarlo, ho il vago sospetto che anche molti di voi non ricordino di essere stati "sull'orlo del baratro", anzi, visti i numeri, sul fondo del baratro!
E il sospetto ancor peggiore è questo: c'era nel nostro vocabolario la parola? La parola SPREAD, c'era nel nostro vocabolario?
NO, questo lo posso sottoscrivere in rosso, non c'era, e mi sa che non era tanto frequentata nemmeno dagli italici operatori di borsa, che certamente la conoscevano, ma ne facevano un uso decisamente limitato, altrimenti, in così tanti anni, uno a cui fosse scappata, diamine, ci sarebbe stato! In più di trent'anni, uno che avesse segnalato un problema collegato strettamente a questa parola, SPREAD!, ci sarebbe stato, cavolo!, uno, mica dieci, uno, e sarebbe venuto fuori prima o poi, quanto meno sulla "Gazzetta di Poggibonsi e Peretola".
Ecco, io guardo il grafico, e vedo che l'Italia dei primi anni '80 dello scorso secolo, quello dal quale io orgogliosamente vengo, era in una situazione più che disperata. Non può non essere così, perché più avanti, alla fine del grafico, c'è la situazione che ci ha condotto all'interruzione di democrazia nel nostro Paese, c'è la situazione che ci è stata dipinta con la disperata e disperante esternazione del "FATE PRESTO", c'è quello che ci è costato lacrime e sangue, vere!, tra esodati e suicidi per crisi economica (che sono molti più di quanto si racconti!). E se quel racconto, quello del novembre 2011, era vero e quelle erano le parole che lo descrivevano, perché non c'è una descrizione di quei primi anni ottanta che a quest'ultima minimamente si avvicini? Non c'era allora forse perché non c'erano le parole, forse perché non c'era il vocabolo: SPREAD! Ma non c'è nemmeno oggi, con le nuove parole, per allora. E questo è indiscutibile, oltre che decisamente strano!
Non mi raccontate storie! Io il mio Paese me lo ricordo perfettamente, e ricordo che accadevano decine e decine di cose brutte al giorno. Ricordo il brutto e il bello. Un Paese dove se volevi ci potevi provare davvero, un Paese che offriva opportunità e non sentivi una disperante necessità di andartene all'estero.
Guardo il grafico e mi chiedo: dov'era lo SPREAD quando eravamo vivi?