sabato 21 novembre 2020

IL DESIDERIO DI LIBERTA': Attori Mercanti Corsari, cosa vogliamo essere domani?

Ho ripreso in mano un libro che amo molto e che penso tutti gli attori dovrebbero leggere: "Attori Mercanti Corsari" di Siro Ferroni, professore di Storia dello Spettacolo alla Università di Firenze. 

Il libro ricostruisce quella che possiamo considerare nascita e sviluppo della organizzazione del teatro contemporaneo per come noi ancora lo conosciamo. In buona sintesi, verso la fine del 1500 una fortissima crisi economica investe tutta Europa, le varie corti di principi, duchi e granduchi si vedono costretti a tagliare le spese, le compagnie di comici che vivevano e lavoravano a palazzo, furono improvvisamente cacciate fuori e costrette a reiventare tutto il loro lavoro. Da qui, la progettazione, costruzione e/o adattamento di sale per le rappresentazioni, i teatri aperti a tutto il pubblico, non solo quello della corte, le stagioni teatrali, lo sbigliettamento, i contratti delle Compagnie con i teatri, dei comici con le Compagnie, i viaggi, i periodi di prova, ecc. ecc. ecc. 

Riuscire a vedere, attraverso il bel lavoro di Ferroni, come sia nata la organizzazione in cui ancora oggi viviamo, rivedere i nostri antenati alle prese con la precarietà del lavoro, la vita nomade, imprecare alla volatilità del mestiere, alla qualità dell'osteria "dove per lo più si paga bene e stassi male", lamentarsi del padre che non l'ha messi a un altro mestiere "nel quale credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio", e vederli giungere alla conclusione che ciascuno di noi perfettamente conosce: "Pacienza, io ci sono entrato e basta in questa professione romperci un paio di scarpe, per non se ne levar mai più" (Domenico Bruni, attore del '600). Notare che l'espressione "romperci le scarpe" è sinonimo di "recitare", dunque una volta fatto non te ne libererai mai. 

Va detto che questa "rivoluzione" è quasi interamente italiana, e il periodo che Ferroni indica per questa riorganizzazione è 1580-1630.

Dello stesso periodo è la nascita di un altro fenomeno totalmente italiano: l'Opera lirica. La prima riunione di quella Camerata de' Bardi da cui tutto nacque, e di cui si ha notizia, è infatti gennaio 1573. 
Un gruppo di nobili si riunisce per discutere informalmente di arti, poi ad un certo punto decide di cercar di capire in quale modo gli antichi greci mettevano in scena le loro tragedie, e soprattutto come le declamavano. Nasce così quello che resterà nella Storia come "il recitar cantando".

Curiosamente, forse il più grande fenomeno musicale di sempre non nasce tanto per "far musica", quanto per "far teatro". Pensando a certe diatribe di oggi tra registi e direttori d'orchestra, a certe antipatie tra cantanti e attori, tra teatri di prosa e di lirica, viene francamente da sorridere. 

Dunque, in questa riorganizzazione, gli attori cominciano a muoversi, a viaggiare, a fare "il moto perpetuo" come scrive uno di loro, Flaminio Scala. Anzi a ri-muoversi, perché il nomadismo dei teatranti è ben più antico di quanto si possa immaginare. 
Ebbene, Ferroni si pone una giustissima domanda: s'è scritto e detto che gli attori si mossero per guadagnarsi da vivere, e questo è certamente vero, ma come argutamente l'autore osserva, è soltanto una parte della verità, perché se fosse solo per quel motivo, motivo economico, di lavoro, di ricerca di benessere, non si spiegherebbero tutte le storie, verificate, dei tanti attori, divenuti famosi, ricchi, importanti, proprietari di case e tenute, che non ostante questa raggiunta agiatezza continuavano a viaggiare, a fare "il moto perpetuo". 

La risposta di Ferroni è decisamente interessante e ve la riporto per come è scritta: 

"La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca di libertà. Altrimenti, come diceva Domenico Bruni, sarebbe stato preferibile "qualche altro mestiero" con il quale si sarebbe potuto cavare "miglior profitto, e senza travaglio". Essi cercano di godere "quella libertà che pare che conceda Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano sudditi". Non sappiamo se il viaggio degli attori abbia avuto inizio in una determinata epoca della civiltà come effetto di una crisi improvvisa o se invece, molto più probabilmente, sia sempre esistito come fattore endemico, all'interno e a fianco di altre migrazioni; tuttavia nell'epoca di cui ci occupiamo esso lascia intravvedere tracce di antiche motivazioni. Ebbe, ad esempio, caratteri stagionali, come molti altri viaggi che videro protagoniste le frange mobili delle sociètà contadine. Come il banditismo, ad esempio, o la milizia mercenaria. Ancor meglio delle guerre e delle rapine, che si svolgevano di preferenza in primavera ed estate, l'attività comica poteva integrarsi con il ritmo dell'agricoltura che regrediva proprio nella stagione culminante del carnevale (non a caso, le trattative per le stagioni seguenti si svolgevano in periodo di quaresima e potevano protrarsi fino all'estate, in coincidenza con le fasi più intense dell'attività agricola). In ogni caso la mobilità, anche temporanea, era il modo migliore per vincere la coercizione e l'autorità vessatoria che i padroni potevano esercitare sui modelli stanziali. La terra, i raccolti ciclici, incatenavano l'uomo al potere. Solo la decisione di partire e di vivere da nomade, almeno per lunghi periodi, poteva liberarlo. Il viaggio di questi "ribelli" non ha né uno scopo, né una destinazione, non ha né una fine né un principio: è - secondo le parole dei comici - un "andar in volta", un "moto perpetuo", un "andar attorno", una condizione di vita precaria e instabile assunta per vivere liberamente. Almeno nelle illusioni e nelle scelte di partenza."  

Rileggere questo passo mi ha fatto venire in mente una cosa che riguarda il nostro oggi, o meglio gli ultimi venti anni della nostra storia, quelli durante il quale si è proceduti allo smantellamento silenzioso, sotterraneo e sistematico della tradizione teatrale italiana. 
Quello che leggiamo in Ferroni - come in altri autori - deve innanzi tutto farci capire che il Teatro, in Occidente, che ce ne siamo resi conto o no, siamo noi!, e per tornare ad esserlo è necessario buttare a mare le intellettualizzazioni e gli ideologismi, e riprende tra le mani il mestiere, la professione (in questi giorni se n'è andato Gigi Proietti, forse dovremo ragionare sul serio sul perché ci piaceva Proietti, dire che "ci faceva ridere" è davvero poco e forse anche offensivo per quel magnifico attore, c'è qualcosa di più che DOBBIAMO DIRCI! Ne riparleremo).
Noi siamo quelli che hanno insegnato il Teatro al mondo, è indiscutibile, un vero e proprio assioma, che ci è per esempio confermato dal fatto che abbiamo pochissimi drammaturghi di caratura mondiale, ma tantissimi attori che sono andati a portare "il mestiere" in giro per il mondo. Quando Molière e la sua Compagnia approdano finalmente a Parigi, vi trovano "les Italiens" guidati dal grande Tiberio Fiorillo (Scaramouche); quando Goldoni scrive "Il servitore di due padroni" desidera avere come Arlecchino Antonio Sacco, il migliore del tempo, che in quel momento è impegnato in Russia su invito della Imperatrice Anna Ivanovna; il primo attore, vero, non del racconto, di vita reale, che Stanislavskji cita nel suo splendido "Il lavoro dell'attore su se stesso" è un italiano, è Tommaso Salvini, riportandone un basilare pensiero: "Il grande attore deve sentire veramente quello che immagina", sul quale svilupperà tutto il suo ragionamento e il suo metodo.

Ora, se noi non recuperiamo il senso profondo della nostra Storia e della nostra naturale evoluzione, se non riannodiamo il filo con il nostro passato, non saremo più in grado di proseguire il cammino, di evolverci, di tenere la barra ferma sulla nostra rotta. Se non recuperiamo il senso di ciò che siamo stati diverremo inevitabilmente (i-ne-vi-ta-bil-men-te!) una colonia.
Già per troppi versi lo siamo: la mania del "devi conoscere l'inglese altrimenti non lavori" ce lo certifica, perché conosceremo anche l'inglese ma troppi attori, ormai, non conoscono più la pronuncia italiana; l'insistenza stupida su teorie e tecniche di insegnamento cui nessuno vuol togliere importanza, ma che non ci appartengono, ne è un altro aspetto, ma mi chiedo dove si insegni più il Metodo mimico di Costa che il mondo così tanto apprezzava? Ecc. ecc. 
Chi perde il suo passato ha già perso il proprio futuro (ricordiamoci di Orwell).

In quest'ottica, Ferroni ci dice la cosa fondamentale: perché siamo un teatro girovago? Perché in ciascuno di noi, di noi attori (ma se osservate anche dei nostri tecnici) c'è un inconscio desiderio di libertà.
E questo desiderio di libertà si esprime in un modo in realtà semplice: il viaggio.
Il viaggio è la nostra dimensione naturale, e la sua espressione/organizzazione artistica, la tournée, è un pezzo fondamentale della nostra esistenza spirituale.
Noi viaggiamo per fuggire, per sfuggire, per sfuggirci. E per cercare e cercarci. 
Sfuggire a cosa non si sa, cercare cosa tanto meno, o meglio ciascuno di noi avrà i sui motivi, privati, privatissimi, che a volte nemmeno lui stesso conosce, ma i tanti anni di lavoro e i tanti colleghi che ho conosciuto, mi fanno capire, leggendo quelle pagine, che Ferroni ci ha visto giusto, per una volta un professore universitario ci ha visto giusto su un aspetto del teatro, forse perché leggendo lettere e documenti di quegli attori del passato si è fermato ad ascoltarli, cosa che la politica e i suoi tanti colleghi, sia pur bravi, non fanno mai. 
 
Ecco: nel tentativo tutto politico di questi ultimi anni, a partire dalla legge sulle "Residenze teatrali" di Veltroni nel '96, fino alla ossessione per le "alzate di sipario" con annesso innalzamento delle produzioni regalatoci da Franceschini, dalla cancellazione dell'ETI fino alle complicazioni burocratiche che le Compagnie private, quelle che vivono di tournée, incontrano per accedere a quelle sovvenzioni che son sempre più scarse, tutto pare chiaramente volto ad uccidere la nostra tradizione teatrale, a imporci "la stanzialità", ad impedire la tournée, la vita della Compagnia di giro, a castrare la nostra Storia che non può essere che quella e nessun'altra se lo è stata a dispetto di tutto attivamente fino ad almeno dieci anni fa ed ancora sgomita per esserlo.
 

Festival ed eventi, eventi e festival, teatri stabili e pluriproduzioni, alzate compulsive di sipario e teatri nazionali... tutto pare proprio fatto apposta per soffocare quel nostro inconscio desiderio, quell'atavico bisogno di libertà. Stanziali e non più girovaghi!
Bloccarci, costringerci, irregimentarci, legarci a un dettato artistico-culturale che, una volta perse le radici, non verrà più da noi ma ci sarà imposto, dall'esterno, dall'alto, non si sa da dove, nell'esercizio di una finta libertà di Stato, di un finto pensiero libero. Perché il nostro libero pensiero dovrà essere soffocato, soffocato partendo dalla rivoluzione che cancellerà pian piano, silenziosamente, subdolamente, le nostre radici. 

"Ma perché? Perché tutto questo, qual è il senso di questo progetto distruttivo?", qualcuno si starà chiedendo se avrà avuto la bontà di arrivare a questo punto. Lo scrive ancora Ferroni: "La terra, i raccolti ciclici, incatenavano l'uomo al potere. Solo la decisione di partire e di vivere da nomade, almeno per lunghi periodi, poteva liberarlo. Il viaggio di questi "ribelli" non ha né uno scopo, né una destinazione, non ha né una fine né un principio...". C'è qualcosa che può fare più paura al Potere di una rivendicazione che in realtà non ha alcuno scopo se non in se stessa? Come l'Amore. Nel romanzo di Orwell, gli uomini del Potere non si accontentano di stroncare la storia d'amore dei due protagonisti, che al di là dei loro aneliti di libertà è in se stessa pura, senza scopo, ma di reindirizzarla secondo la loro ideologia verso il culto dell'ideologia stessa.

Risolto dunque il problema del nostro inconscio desiderio di libertà, saremo perfette macchine della propaganda.

Noi siamo stati quelli che una volta "rotte le scarpe" non volevano più tornare indietro, cosa vogliamo essere domani?  

martedì 17 novembre 2020

NON VI LIBERERETE FACILMENTE DI NOI (17/11/1984 - 36 anni di Teatro)

Stavo pensando che il 17 novembre di 36 anni fa, precisamente Venerdì 17 novembre 1984, per la prima volta sono salito in palcoscenico. Ho fatto quello che con una meravigliosa espressione antica si chiama il mio "ingresso in arte", una espressione che andrebbe recuperata, ma il mondo di oggi cosa volete che capisca perso dietro gli alternativi intellettualizzati e gli ideologismi... 

Ma insomma, quel venerdì 17 novembre dopo che mi fu concessa una mezza prova in camerino e una in palcoscenico, fui catapultato sulla scena. 
SI trattava di "Filumena Marturano" di Eduardo, un classico delle compagnie amatoriali, anche se quella non era propriamente una compagnia amatoriale, dato che i due che ne erano a capo, Alessandro Nisivoccia e Regina Senatore, avevano in realtà una lunga esperienza professionale alle spalle, lui con Gassman, lei con Eduardo stesso e Mariano RIgillo. Ma constatato che la vita di tournèe non faceva per loro, si trovarono una bella "cantina" da cento posti che divenne fucina di giovani attori, la chiamarono "Teatro San Genesio" e il gruppo, in onore al TPI, Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman, TPS, Teatro Popolare Salernitano. 



In quel vicolo della vecchia Salerno, vico Guaiferio, tanti di noi sono partiti alla scoperta di quel meraviglioso mondo che fin da subito amammo e che mai ci ha lasciato anche quando qualcuno di noi ha cambiato strada. Non è retorica: il Teatro è così. Ami quello, vuoi fare quello e non ti interessa in realtà fare altro. Ho conosciuto attori importanti, molto importanti, che dovevano una grossa parte della loro popolarità al cinema e poi alla televisione, ma li ho visti rinunciare a un lavoro davanti la macchina da presa per poter fare la loro tournée teatrale. Perché questo è un altro concetto che si è perso: sarà che siamo italiani e il sangue non lo puoi smentire mai, ma il Teatro è la tournée. 
Non c'è stato niente di più bello nella mia vita, in questi 36 anni - forse perché non ho avuto figli - dei lunghi viaggi, della scoperta delle nuove città, del ritrovare quelle già viste, del rivedere facce amiche dopo anni, del conoscere nuovi teatri, sentire ogni sera pubblici diversi, del veder scaricare le scene, e montarle, e poi alla fine vederle smontare da lavoratori operosi e divertiti, non c'è stato nulla di più bello che stare insieme a un compagno che non sai quando più rivedrai e dividere con lui la cena, e magari il sonno, e le giornate a raccontarsi l'intimità e la vita, niente dell'ascoltare i vecchi parlarti di un altro mondo, e poi crescere e vedere altri giovani che arrivavano con le loro arroganze o timidezze, come eri stato tu alla loro età o come non avevi avuto il coraggio di essere. Nulla ho amato più del sipario, e del camerino che era casa, e gli stucchi, gli ori dei teatri, e quel silenzio sacro e magnifico, quel silenzio di bimbo che dorme sereno che è dentro a un teatro vuoto prima dello spettacolo, quando tutto è pronto, i tecnici si sono allontanati, non tutti gli attori sono ancora arrivati e le mascherine sono ancora nei loro spogliatoi. Quella mezz'ora, se sei fortunato un'ora, carica di pace è un sogno di quiete che si rinnova ogni sera. Niente è stato mai più bello di quello, di quel momento in cui senti che sei nel solo luogo al mondo in cui nulla e poi nulla di male potrà mai accaderti. 
Forse è per questo che ho amato e amo il Teatro, perché il Teatro, al fondo di tutto, senti che ti protegge. Potrai morire ogni sera e poi rialzarti e dire: "ho sbagliato, devo farlo meglio, domani ci riprovo".  

Oggi sono 36 anni, tanti ricordi nella mente, tanti volti e insegnamenti, tanta vita, e amore. Stamane facevo lezione a dei ragazzi che forse abbracceranno questa professione. Il tempo non è passato invano e io sono felice, e sereno per tutto quello che ho fatto e certo che ho ancora tanto da fare, e lo farò, con calma. Non vi libererete tanto facilmente di me. Non vi libererete tanto facilmente di noi: Noi siamo il Teatro. 

Ho almeno tremila anni,
ho visto la luce, giorno per giorno, sorgere e calare,
ho sentito la polis 
crescere intorno a me, 
mentre mi era assegnato l'arduo compito 
di tenerla per mano, compito 
cui non mi sentivo adatto, 
ma che mai e poi mai avrei rifiutato; porto nel sangue 
il coraggio 
la fatica e l'amore 
di tutti quelli che mi hanno preceduto, 
di tutti quelli che mi succederanno; 
a loro lascio 
incorrotto 
quel  testimone che mi fu consegnato, nella certezza 
che il mio impegno sarà perpetuamente rinnovato; 
ogni nostra singola fine 
scivolerà serena in quell'oblio 
che è nostro orgoglio. Noi siamo 
i senza nome e senza memoria 
che sono stati la storia dell'uomo. 
Noi siamo il Teatro.