mercoledì 23 dicembre 2015

LE PEN, DE LUCA, DEMOCRAZIA










Non vi posto queste due foto di prime pagine di oggi perché cominciate a riflettere. Mi accontenterei che cominciaste a ridestarvi dal sogno, fondamentalmente dal sogno europeo. Poiché è indiscutibile che chi sogna vuol dire che sta dormendo, e se dorme a occhi aperti è ancora peggio. Perché nel primo caso vuol dire che almeno riposa il suo corpo, nel secondo che è completamente rincoglionito, “stupetiato” come si dice in dialetto napoletano, da “stupore”. Vale a dire che lo stupore è tale da stordire i tuoi sensi al punto da renderli inattivi.
Ma nelle due notizie di cui sopra c’è alcuno stupore. Soprattutto la prima, quella che arriva dalla Francia, se si è stati un pochino svegli almeno negli ultimi quattro anni, era facilmente prevedibile.
Attento, lettore, non sto per dirti che era prevedibile che madame Le Pen fosse la solita politicante intrallazzatrice, ma che vista la sua ascesa DEVE essere fermata. E come è già accaduto ampiamente per esempio in Italia con il Cavaliere, tale arresto viene messo in atto con una campagna mediatica che ne distrugga l’immagine.
Probabile che le notizie che arrivano da oltralpe siano vere e comprovate. Ma può anche darsi che non lo siano. E tutti, dico proprio tutti noi, ormai sappiamo che in questo secondo caso, il tutto si ridurrà a titoli in dodicesima pagina. Perché quel che conta è cosa resterà, da adesso in poi, nella testa delle persone. E resterà questo.
Nel secondo caso, quelli che vanno osservati sono i tempi, per cercare di dedurne dei perché. Quali che siano i motivi del Tribunale Civile di Napoli, ci si può domandare se questo rinvio serva al partito di De Luca per vedere prima come andranno le elezioni, e magari, di scandalo in scandalo, di errore in errore, evitare l’ennesimo sconfitta. Forse – è ipotizzabile – se l’esito cittadino si rivelerà favorevole al PD, il neo presidente della regione Campania, potrà essere abbandonato al suo destino... Oppure, prendendo tempo, si cercheranno altri modi per salvarne la poltrona.
Anche in questo caso, chi può dire quale sarà la Verità? E in quanti, tra tre o quattro mesi, si ricorderanno di quanto è stato detto o fatto? Stupetiare o addormentare, camminano sullo stesso binario per fini diversi.

Come la vogliate mettere, il problema è sempre il solito: che fine sta facendo la democrazia, non solo in Italia, ma in questa Unione Europea?

Io non sono dalla parte della Le Pen (e spero vivamente di non doverlo ripetere!), ma mi chiedo: se un partito si presenta regolarmente alle elezioni, chi può permettersi di decidere di deviare, prima o dopo, l’esito del voto quando i cittadini abbiano scelto quella compagine politica?
Perchè se ammettiamo anche solo per un attimo questo, la democrazia è già finita, nella nostra testa e, peggio, nei nostri cuori.

Sa invece, chi mi conosce, che non sono mai stato dalla parte di De Luca. Per questo mi affido alla Magistratura accogliendone il verdetto e accettando la mia privata sconfitta politica. Dunque, qui, la questione diviene altra: il “trattamento” che viene riservato al presidente della Regione è uguale per tutti gli altri cittadini? Poiché se cade la fiducia in uno solo degli organi che costituzionalmente governano ed esercitano la varie funzioni di bilanciamento della vita democratica, può sostanzialmente ancora esistere democrazia?



lunedì 14 dicembre 2015

5 Stelle di inutilità.

Alle elezioni nazionali del 2013 votai Movimento 5 Stelle.
Ero convinto che il Sistema dei partiti avesse bisogno di una sonora mazzata tra capo e collo.
La mazzata indiscutibilmente c’è stata. Ma siccome la politica è quella cosa che, nel bene e nel male, trova sempre una soluzione, una possibile via d’uscita, una alternativa, i partiti tale alternativa l’hanno trovata e sono andati avanti senza colpo ferire.
Da questo mi sorge subito una riflessione: i fatti esposti da certi politici su alcune questioni fondamentali per mostrarne la irreversibilità (per esempio l’impossibilità di superare determinate politiche economiche), vengono da quegli stessi politici smentite quando... quando il problema tocca loro e sopra tutto il loro Sistema di potere; la mancanza di alternativa, dunque, riguarda solo le problematiche dei cittadini. “Non c’è alternativa, si dice. Ma dove non c’è alternativa, non c’è progresso” diceva Carlo Levi in un suo splendido discorso parlamentare (Senato, 9 aprile 1970). La mancanza di alternativa è la morte della politica.
Ma la politica, in una democrazia vera (per certi aspetti, flebili aspetti, ancora lo siamo), è in realtà nelle mani dei cittadini, i quali possono loro stessi trovare le alternative. C’è bisogno però di fare tabula rasa delle proprie ideologie e di coraggio. Coraggio soprattutto di accogliere la Verità. Quanti Italiani sono disposti a farlo?
Decisamente pochi se si pensa che la tabula rasa deve operare su venti e più anni di lavaggio del cervello mediatico legato alla contrapposizione “Berlusconi sì / Berlusconi no”, “Centro destra / Centro sinistra”, e andare a scavare sul fondo dell’anima. Una sorta di operazione di autoanalisi rigorosamente solitaria difficilissima da condurre in porto, perché avrebbe come primo scoglio quello del “mi/ci hanno mentito, il mio partito storico mi/ci ha tradito”. Più semplice tenersi le vecchie categorie e continuare a ballare mentre la nave affonda.
Oppure, come è divenuta abitudine, crearsi di volta in volta un nuovo nemico e scaricargli addosso, responsabilità, colpe e specialmente la propria ira. Non importa di chi siano effettivamente le colpe, il nemico è lui, quindi la colpa è sua. Trovato il colpevole, sono di nuovo a posto con la coscienza.
Questo la politica lo sa, e di volta in volta propone il nuovo nemico. Prendete ad esempio il PD: prima il demonio era Berlusconi, poi fu Grillo, poi fu Salvini, che ancora resiste nella sua posizione di “privilegio”, salvo condividerla, negli ultimi tempi, con varie situazioni di passaggio: islamici, anti europeisti alla francese, all’inglese...
Ma una volta dettasi la Verità, resterebbe il problema del coraggio, e qui non si può rilevare che... quale italiano disconoscerebbe Don Abbondio?
La Storia ci racconta che solo messo realmente alle strette questo strano popolo che chiamiamo italiano conosce la forza d’urto della propria compattezza e unità di intenti. Si attende, senza troppa fiducia, il prossimo episodio.

Nei 5 Stelle, ho smesso da tempo di confidare. E sicuramente non avranno il mio voto alle prossime tornate elettorali nazionali. Il perché si legge tutto nei loro comportamenti e nelle battaglie portate avanti in questi due anni: battaglie formalmente inconcludenti, e che mai vanno ai reali cuori dei problemi.
Un partito, un movimento politico, deve essere indiscutibilmente guidato da una Filosofia, che ne traccia la strada e ne disegna di passaggio in passaggio idee e comportamenti.
Ebbene, è da dopo la loro entrata in Parlamento (datogli un po’ di tempo per capire come funzionano le cose), che mi chiedo quale sia la loro Filosofia (volutamente scritto maiuscolo).
Già li sento i miei detrattori, che invece di rispondere alla domanda, in perfetto stile da ventennio berlusconiano (categoria mentale, quindi appartenente a molti partiti, non solo ai “forzisti”), mi incalzano chiedendo: “Perché, qual è quella degli altri?”.
Il fatto che gli altri non ne abbiano una, non vuol dire che anche tu debba esserne privo, anzi, averla sarebbe, in questo mare di fango, una forza, una estrema forza.
Onestà, non è una Filosofia, è una componente del comportamento, indispensabile, ma solo una componente; fare “il conto della serva, fatto bene”, è una dote, ma non una Filosofia; battersi contro “i ladri”, una componente della Giustizia, ma non una Filosofia.

Restando dunque in attesa di sapere quale sia la loro visione a lunto termine del Paese, della Nazione che vorrebbero costruire, per i nostri figli, e tralasciando tutta una serie di analisi che si potrebbero fare, ad esempio quella sulla questione euro e UE, sulla quale non esito a dire che hanno posizioni a dir poco deliranti e “auto-castranti”, prendiamo il caso che imperversa nelle cronache di questi giorni: il crack delle quattro banche salvate con decreto dal Governo.

Qui, salta fuori il più grande difetto di questo Movimento, difetto che ne rivela la reale radice.

Chiedere le dimissioni del Ministro Boschi è cosa giusta, ma non sufficiente; chiedere che i truffatori vengano arrestati e puniti, è cosa giusta, ma non sufficiente.
Certo, questo solletica non poco la rabbia della gente (e qui, pian piano, scendiamo alla radice del problema), ma, diciamocelo chiaro, serve a niente.
Boschi Maria Elena è un pezzo del Sistema, un soldantino del Sistema. Pure ne ottenessero le dimissioni, il Sistema provvederebbe a piazzare al di lei posto altra persona che ne continui l’opera di disfacimento dello Stato italiano; arrestare i truffatori e condannarli, darebbe un po’ di Giustizia alle vittime, ma non impedirebbe ad altri truffatori di essere messi al posto dei precedenti.

Il retorico Di Battista, invece di scaldarsi tanto su di una questione formalmente inesistente, dovrebbe chiedersi, insieme con i suoi sodali, da dove veramente nasce il problema, perché in Italia ci sono tutte queste sofferenza bancarie ad esempio, e da cosa sono esse determinate. Chiedersi quanto, come e se c’entra la UE. Chiedersi perché siamo sempre i soli in questa finta Unione ad essere più realisti del re.
Chiedersi quale sia la perpetuantesi forma agente e non la sostanza contingente. E se tale tale forma si potrà e come replicare. Solo a quel punto si troverà vera risoluzione ai problemi.
Dovrebbe chiederselo, indagare e dircelo, ponendo il problema fortemente all’attenzione della pubblica opinione, costringendo i media a parlarne chiedendo corretta informazione.
Smontare il Sistema, ma quello vero, quello che si nasconde dietro le facce di quattro miserevoli soldatini, di quattro manager da strapazzo, ed esporlo al pubblico ludibrio e al dibattito pubblico. Cercare e rivelare la Verità, poiché solo quella ci farà liberi.

Invece, siamo sempre e soltanto alla sollecitazione della rabbia. Il che mi fa fortemente credere che abbiano ragione che i 5 Stelle siano solo una operazione di “costruzione del dissenso”, una costruzione che resta perfettamente incastonata nel circuito del Potere; e ciò rivelerebbe “la radice”.

Nelle orecchie di coloro che non dimenticano, risuonano ancora le parole di Casaleggio quando proprioall’inizio del mandato elettorale intimava ai suoi di “non occuparsi dimacroeconomia”. Perché? Che problema si sarebbe posto se dei cittadini se ne fossero occupati? Forse il Movimento doveva  e deve pestare i piedi a tanti, ma non a tutti?

Un giorno forse sapremo la risposta. Come nel passare dei decenni abbiamo capito, e ogni giorno si aggiunge un mattoncino alla nostra consapevolezza, che i brigatisti erano solo pupi nelle mani di grandi burattinai.

È la storia di sempre: giovani appassionati credono in una idea (buona o cattiva è altra faccenda), e qualcuno, fingendo di mettersi dalla loro parte, li usa per proprio tornaconto.
Il tempo ha fatto ormai della psicoanalisi una materia vecchia, lo abbiamo imparato bene che per crescere i figli devono “uccidere” i loro padri. Quando i Di Battista diverranno adulti?


domenica 6 dicembre 2015

Questo Sud brutto sporco e cattivo.

E allora mi ritrovo felicemente a leggere dei brani di Carlo Levi in una commemorazione per il quarantennale della scomparsa. Bene, tutto bene. I brani che ho scelto, discorsi parlamentari, Levi fu senatore della Repubblica, vanno ottimamente. Quindi ci sono i vari relatori. 
Carlo Levi ha fondato la Filef (federazione italiana lavoratori emigranti e famiglie) e ne è stato presidente fino alla sua morte. Dunque, il centro della commemorazione, organizzata dalla stessa FILEF è proprio il problema emigrazione. 
Ora, una brava relatrice, di cui non voglio dire il nome, e che è presidente di un'altra associazione che pure si occupa di migranti, fa un interessante discorso, racconta delle indagini da loro condotte negli ultimi anni ed espone le conclusioni che ne hanno tratto. 
Tutto bene... fino a quando la stimabile (dico sul serio) dottoressa, non si lancia in una affermazione cui non posso fare a meno di rispondere: l'emigrazione dal Sud, da dopo l'Unità d'Italia in poi, non è stata propriamente dovuta a problemi di carattere economico come lo stesso Levi spesso sottolinea, ma più specificamente a una media e alta borghesia retrograda, conservatrice, corrotta e... e allora ho chiesto di intervenire. 
"Perdoni, ma mi viene in mente che Papa Francesco, discende da una famiglia di emigranti piemontesi; e c'è poi l'emigrazione dal Veneto, e quella dal bergamasco verso la Svizzera, e poi c'è una emigrazione spagnola, portoghese... Ora, mi perdoni, o questa borghesia conservatrice e corrotta esisteva in tutte questi posti, o la teoria regge pochino. Scusi se mi sono permesso..."
"Ma no, prego, volevo dire... " insomma, poche parole e ha cambiato discorso. 

Non nascondo che da uomo del Sud mi sono sentito offeso. E non tanto offeso come borghese, ma proprio come cittadino che deve ancora sentire una narrazione che tende sempre a non volere andare alle vere cause, che gira intorno ai problemi senza mai voler centrare un solo obiettivo. 
Eppure, Levi lo dice benissimo: il problema è economico-sociale. 
E allora, possiamo ancora assistere passivi a questi racconti semplicemente denigratori del Sud che mostrano di non avere non solo alcun fondamento scientifico, ma sono anche facilmente confutabili? 
Personalmente non sono più disposto. Con le mie più sincere scuse alla relatrice. 
Bisognerebbe forse cominciare a occuparsi davvero di queste cause economiche e sociali.
Qualcuno una risposta l'ha data, il prof. Paolo Savona, quando dice che: l'arretratezza del Mezzogiorno dipende anche dall'avere subito per tre volte un aggancio monetario fatto a immagine e somiglianza del Nord: con l'Unità (adottando la lira del Nord); dopo la Seconda Guerra Mondiale (con l'ingresso nel sistema di cambi fissi di Bretton Woods); e, infine, con l'ingresso nell'euro. 

Sarà la risposta giusta, non lo sarà? Personalmente mi fido solo del fatto che Savona è certamente il miglior economista italiano vivente. Se vale il principio della meritocrazia, gli credo. 
Ma non chiedo agli altri di credere, gli chiederei soltanto di farsi venire ogni tanto dei dubbi, di ipotizzare che esistano altre spiegazioni, che se si continua sulla linea del racconto che ascoltiamo da decenni e decenni, ormai da più di un secolo (il Sud brutto sporco e cattivo), probabilmente non andiamo verso alcuna soluzione, probabilmente rimaniamo sempre all'interno dello stesso circolo... probabilmente, risolvessimo il problema della migrazione, coloro che se ne occupano dovrebbero trovarsi altra attività. Probabilmente coloro che si occupano di "questione meridionale" dovrebbero trovarsi altra attività... 
Ricordo solo a chi vuole ascoltare che prima del 1861, il Mezzogiorno d'Italia non esisteva.  

venerdì 27 novembre 2015

NEL NOME DEL FIGLIO.

Usiamo dire che la vita è strana.
Ma forse sono strani i nostri sentimenti. Che ci legano a cose o persone che magari non conosciamo e ce le fanno sentire di famiglia.
Con Eduardo era così, e per un gioco misterioso proprio dei sentimenti era così anche con suo figlio Luca, che oggi, per un brutto male, di quelli feroci e fulminanti, ci ha lasciato
Giovane, troppo giovane, in questi tempi in cui vecchi bastardi ostinati continuano a volere indirizzare le sorti del mondo a danno di tanta e tanta povera gente.
E forse anche per questo motivo, per l'averci regalato sorrisi e lacrime e cuore, tanto cuore, soltanto per amore dell'umanità, vogliamo bene, pur senza conoscerli di persona, a quegli Eduardo che passano nella nostra vita.
Perché chi ama e vive il teatro con amore, ama il mondo.
Luca non c'è più. E qualcuno dirà: "Luca non era Eduardo".
Sbaglia. Nel nostro cuore, Luca era Eduardo; ed Eduardo era Luca.
Confessiamolo: chi di noi scindeva il figlio dal padre, e il padre dal figlio?
Nessuno si agiti, so benissimo che non c'è alcuno Spirito Santo. Niente Trinità, o sciocchi tentativi di beatificazione. Erano umani, per fortuna nostra, altrimenti non ci avrebbero regalato tutto l'amore umano di cui erano capaci; e purtroppo lo erano, perché altrimenti non staremmo qui a contemplare questa profonda tristezza nel nostro petto.
Ma forse ora il dolore è più forte.
Perché per quel legame misterioso che solo i nostri sentimenti possono creare, quando Eduardo morì in cuor nostro sentimmo che c'era Luca, e quando vedevamo Luca sentivamo che con lui c'era Eduardo.
Quella immagine di Luca, sette anni, in braccio a Eduardo, dall'Odeon di Milano, è come se, ai nostri occhi li avesse legati per sempre, ancor più di Lucariello e Tummasino.
Qualcosa di profondamente umano era in quella immagine, non una Madonna con bambino, ma un padre con suo figlio, un mistero improvvisamente laico, civile, non del cielo, ma della terra.
Forse è per tutto questo che oggi il dolore è ancora più grande, perché abbiamo la straziante sensazione che tutto sia davvero finito.
Da questo nostro infinitesimale punto del mondo, osiamo dire, per una volta che tutto non è nel nome del padre, ma nel nome del figlio.

venerdì 20 novembre 2015

COME L'AMERIKANO TI SMONTA L'AMERIKANO: LO YOGA DELLA RISATA.

Trovo su FB questo interessante post del grande Hal Yamanouchi. Ve lo propongo. Ho corretto solo poche parole, lasciando tutto il resto come Hal, nel suo simpatico italo-nipponico ha scritto, evidenziando alcuni passaggi particolari e inserendo link di supporto.
"Con la "Teoria periferica delle emozioni", William James capovolge l'idea comune secondo cui alla percezione di uno stimolo segue un'emozione, che è anche accompagnata da manifestazioni a livello somatico; James sostiene al contrario che la manifestazione somatica precede l'emozione, che successivamente viene riconosciuta a livello "cognitivo". L'uomo non ride perché è felice; ma è felice, perché ride. L'uomo non fugge perché ha paura; ha paura perché fugge.
Quando ero alle Elementari in Giappone, uno strano tizio venne a scuola e insegnò a noi scolari a ridere partendo dai movimenti. Prima lo pensavamo un pazzo. Dopo 60 anni, mi rendo conto che era un saggio, un'entità illuminata che andava in giro incoraggiando i giapponesi del dopo-guerra. Si chiama Rakan Oikawa.
Ora dall'India è partito un movimento dello Yoga della Risata, promosso da maestro Madan Kataria. Un grande movimento terapeutico che sfida l'enorme difficoltà che l'umanità sta affrontando, nel periodo di transizione epocale. "Motion creates emotion", dice Kataria. Un'altra entità che è venuta per incoraggiarci.
Tanti esercizi che io propongo nei miei workshop sfruttano questa dinamica. Attraverso movimenti gioiosi, armoniosi e biophili, vengono stimolati circuiti nervosi che rinforzano questi sentimenti e che ci orientano in tale modalità d'agire. Diventiamo sempre più auto-propositivi, giocosi, sperimentali, auto-apprezzanti e auto-sufficienti.
La civiltà corrente ha sottolineato troppo sulla dinamica di dipendenza reciproca tra individui, come se credesse che per "amare" altri, dobbiamo essere dipendenti e frustrati. E' tutto contrario. Solo coloro che sono auto-sufficienti e auto-contenti sanno amare in modi equilibrati.
Così stanno girando un altro tipo di voce e una cultura alternativa, che basandosi sull'auto-sufficienza e sull'auto-illuminazione stanno divulgando in ombra della cultura dominante (quella consumista, competitiva, lamentosa, scontrosa ed ossessionata).
Yoga della Risata è una di questi movimenti alternativi.
Per chi vuole, qui il video del maestro Kataria. 
Al di là di questa particolare pratica Yoga che ho provato ed è effettivamente molto divertente, l'aspetto che mi interessa è quello attoriale che dalla teoria di James possiamo dedurre. 
Soprattutto considerando che James è statunitense. Negli USA è nata la teoria di Lee Strasberg e il suo arcinoto Actor's Studio che ci ha certamente regalato decine di magnifici attori. 
Ma il presupposto della totale immedesimazione di Strasberg - a chi ha un minimo di dimestichezza con la materia appare subito evidente - viene ad essere palesemente smontato da James. Involontariamente smontato da James, il quale non solo è vissuto decenni prima, ma non si occupava certo di formazione d'attori. 
Concentrarsi, immedesimarsi, scendere nel profondo delle proprie emozioni, scavare alla ricerca di ricordi, riportare alla luce dal fondo dell'animo le emozioni, gli accadimenti che vanno in sovrapposizioni o in parallelo con le azioni da rappresentare, ecc. Dunque, potremmo sintetizzare sia pur sbrigativamente, cercare una emozione da cui scaturisca l'azione: piango perché sono triste (e quindi ricerco in me una tristezza per scatenare il pianto). 
C'è invece un piccolo aspetto che si rileva nella "recitazione europea" che viene spesso dagli attori sintetizzato in questa semplice frase: "cavolo, mi sono proprio emozionato questa sera". 
Forse il primo punto che va chiarito è che: se tu attore sei o non sei emozionato, a noi pubblico ce ne frega niente. Io spettatore non pago il biglietto per vedere te che ti emozioni ma per emozionarmi io. Una verità semplice che ci ricorda che il nostro primo obiettivo è suscitare emozioni fuori di noi, e ciò che avviene dentro di noi è irrilevante, o comunque non interessante
Ecco che allora, dalla ricostruzione "matematica" del percorso, noi attiviamo azioni (se mi consentite questo bisticcio di parole), utilizziamo fondamentalmente strumenti della comunicazione verbale e non verbale perché chi è in platea "legga" un determinato senso, quel senso che noi, su base interpretativa compiuta quasi tutta aprioristicamente (il quasi è importante), abbiamo scelto di indicare. Per far questo, come magnificamente Barba ci ricorda metodologizzandolo sulla base di una esperienza secolare e universale, per far questo il controllo diviene l'aspetto fondamentale. E il "lasciare andare l'emozione" diviene successivo alla perfetta scrittura e esecuzione della "partitura" fisico-vocale-mentale (mettete le tre parole nell'ordine che preferite il risultato non cambia). 
Ma cosa vorrà dire questo "lasciare andare le emozioni"? Che lasceremo uscire il pianto o la gioia senza che più si attivi il controllo? 
Non credo. Credo invece che si voglia intendere, in questo gergo teatrale mai scientifico ma sempre artigianale, che una volta sicuri della esecuzione controllata si lascia un minimo margine di libera esecuzione alla "partitura" stessa, facendo sì che, a quel punto, non si agisca la "partitura" ma se ne venga agiti onde non soffocare la possibilità di scoperta di un ulteriore spazio di esecuzione non previsto e che nasca nel tempo presente dell'azione. E quella scoperta si rivela spesso irripetibile in altra esecuzione. 
"L'emozione" lasciata andare, dunque, non è vita reale riprodotta in palcoscenico, ma sbilanciamento momentaneo della forma non prevista dalla razionalità. E' l'ingresso dell'irrazionale nel razionale preordinato e assimilato. Indichiamo, io credo, come "emozione" non il dolore o la pena o l'allegria, ma la "non razionalità" che si manifesta nella esecuzione. 
Se la teoria di James ha un fondo di verità, e io credo che ne abbia proprio sulla base delle esperienze mie e di migliaia di attori, la ricerca del "gesto narrativo" sganciato dalle personali emozioni dell'interprete, non solo provocherà emozione nello spettatore, ma per l'interessante meccanismo illustrato da James, potrebbe provocare anche stati emozionali reali, di vita quotidiana, nell'interprete. 
Se dunque cerchiamo una emozione - nel senso quotidiano - una emozione sulla quale "poggiare i piedi" da porre a base per la nostra costruzione, per amplificare la possibilità di lettura del senso che vogliamo indicare, per sperimentare la validità di un percorso innanzi tutto su noi stessi (e non perché la nostra emozione sia più importante di quella dello spettatore, questo ricordiamolo sempre), sarà l'agire un abbraccio a suscitare il calore, il disegnarci un sorriso sul volto a generare una allegria, l'allontanarci a lasciar "leggere" un timore... 
Ecco perché mi pare chiaro che James lo statunitense smonti Strasberg l'amerikano. 
Che poi, alla fin fine, tre ore di post e sette chili e mezzo di parole per dire ciò che Laurence Olivier disse di Dustin Hoffman sul set de "il maratoneta": 
Olivier - "Dov'è il sig. Hoffman? Dobbiamo girare la scena"
Assistente "Sta correndo qui intorno per farsi venire l'affanno"
... 
Olivier: "Dov'è il sig. Hoffman?"
Altro assistente: "Corre per la scena in cui deve avere l'affanno"
... 
Olivier: "Ma dov'è il sig. Hoffman?"
Un altro assistente: "Arriva, è andato a correre per fare la scena dell'affanno"
Olivier: "Dio santo, ma perché non prova a recitarla?!" 


   

lunedì 16 novembre 2015

LA MORTE SI SCONTA PENSANDO...

Siamo tutti toccati - sarebbe inutile negarlo o fingere - da quanto è accaduto nella capitale francese.
Per un attimo almeno, tutte le nostre altre riflessioni sono andate a farsi benedire.
Ci si interroga su "cosa fare?", ma i fatti sono ancora troppo caldi. Lo capiremo pian piano.
E forse pian piano capiremo anche se le cose sono solo come appaiono o ci sono altre questioni dietro, come ormai abbiamo imparato.
Ieri sera ho seguito il video mostrato a Piazza Pulita sull'Isis e sulle sue tecniche comunicative, sulle sue modalità di propaganda. Mi stupiva il notare che nei commenti in studio troppo poco ci si domandasse da dove questi signori abbiano preso soldi e mezzi per mettere in piedi questa possente struttura comunicativa e soprattutto quali menti raffinate ci possano essere dietro a una così raffinata costruzione.
Pare proprio che si sia persa l'abitudine al ragionamento complesso, e che anche i giornalisti non riescano più a chiedersi che cosa ci sia dietro, cosa che invece sarebbe loro compito o dovrebbe essere loro normale attitudine. E' come se fossimo invasi dalla necessità di ricercare sempre un rapporto causa-effetto di banale semplicità, come se non fossimo più noi a dovere andare verso i fatti e le loro ragioni, ma i fatti a doversi adattare alle nostre capacità o ai nostri preordinati schemi mentali. Questo pure di fronte alla evidenza che dall'altra parte c'è qualcuno che "pensa complesso, pensa complicato".
E - cosa peggiore - quando troviamo qualcuno che prova a rispondere con un "pensiero complesso", si defiliamo già stanchi prima ancora di ascoltare.
Diciamo che potremmo sintetizzare così: chi ci sconfigge è colui, o coloro, che pensano più e meglio di noi. La guerra sembra essere tutta lì, nel pensiero. E su questo terreno noi abbiamo già perso.
E' colpa nostra? Non lo è?... Un po' l'una e un po' l'altra cosa. Perché è pur vero che il Sistema ha agito in questi decenni in modo tale che il nostro cervello si appiattisse su posizioni di facile comprensione, ma noi abbiamo anche fatto in modo che accadesse.
Qualche sera prima dei fatti parigini, sono cascato, in tv, sul solito dibattito politico: un commentatore diceva che questa politica aveva allontanato la gente in particolar modo i giovani, l'altro rispondeva che non era poi tanto vero se si guardava a quanti giovani si erano messi a partecipare alla attività dei 5Stelle.
Era di questo che volevo parlarvi, poi l'Isis ci si è messa di mezzo.
Ma in qualche modo le cose si tengono se pensate alla nettezza con cui si sviluppano i dibattiti sul dopo: è colpa dell'Islam - no non lo è; ci hanno sparato - e noi bombardiamo; c'è pericolo - rinunciamo a un po' di libertà per la sicurezza; e via dicendo.
Con un simile format mentale, le risposte che alcuni movimenti politici propongono sono ugualmente facilitanti nella loro (falsa!) comprensione dei problemi: sei onesto - non sei onesto; mi alleo - non mi alleo; voti a favore - voti contro; la mia legge e buona - la tua legge è cattiva; i soldi ci sono - i soldi non ci sono; compri gli F35 - no, non li compri; sposta i soldi da qui a lì - no, spostali da lì a qui...
Tutto è chiaro, facile, comprensibile, accessibile a tutti. Accessibile al punto che chiunque può fare tutto: occuparsi della cosa pubblica, come recitare in una commedia. Sì, perché questa idea che tutto è per tutti, che puoi fare un video con il tuo cellulare, fotografare con l'Ipad come un professionista, occuparti di economia tanto si tratta solo di fare il conto della serva, si sta pericolosamente spandendo su tutto, con un preciso risultato: il costante svilimento delle professionalità e delle specifiche competenze.
Non penso ce ci siano cose per pochi, tutto è per tutti, ma nella misura in cui (espressione che dichiara i miei anni... sic) restiamo coscienti del nostro proprio e vero stato di apprendimento, e dei limiti che questo ci pone. Tutti possiamo capire delle cose di economia o di arte, ma leggere dieci post di Bagnai non farà di me un economista. Farà solo di me un cittadino più consapevole, più informato; poi, oltre un certo livello, devo essere io stesso a voler lasciare la palla a chi a quella disciplina ha dedicato la vita.
La politica è certamente per tutti e di tutti, altrimenti non sarebbe Democrazia, ma questa condizione comunitaria resta collegata strettamente al fatto di volersi informare (mettere nella forma), di non accontentarsi della più facile conseguenzialità causa-effetto, di non fermarsi, insomma, alla prima cosa che ci viene detta o che ci balza agli occhi.
A volte i morti sono il risultato del disfacimento del nostro pensiero.
Capire è fatica. Quanto siamo disposti, oggi, a faticare?

lunedì 9 novembre 2015

Fassina, la Sinistra, i Dialetti

La notiziona sarebbe che è nato il nuovo soggetto politico della Sinistra, denominato Sinistra Italiana. 
Per ora è solo un gruppo parlamentare, ma è pensabile che evolva in un partito. 
I denigratori sono già all'opera: trasformismo, caccia di poltrone, inutilità politica, ecc. Ormai il vocabolario lo conosciamo tutto, è sempre lo stesso verso chi provi a fare qualcosa di nuovo. 
Dire a Stefano Fassina e suo compagno di viaggio D'Attorre che cercano poltrone è certamente un tantinello fuori luogo. Le loro storie parlano per da sole.
Quello che è certamente interessante è che, dopo avere lasciato per anni la critica all'euro e al sistema ad esso collegato alla destra italiana, qualcosa a sinistra, in tal senso, si muove, e forse, anzi sicuramente leggendo i propositi di Fassina, in quel "Italiana" c'è più di quanto si possa immaginare. 

Se infatti per superare i nazionalismi si deve creare una super nazione (come fa spesso notare il prof. Bagnai), non si capisce dove sia il superamento del nazionalismo. Anzi, questa idea della super nazione, nello specifico, per chi non lo avesse compreso, gli Stati Uniti d'Europa, sarebbe un ulteriore rafforzamento del concetto di nazione e di abbattimento progressivo della "ricchezza delle diversità", seme primario dell'Europa.
Proprio a questa ricchezza, nonché bellezza delle diversità, si è legata spasmodicamente, ansiosamente, e direi anche irrazionalmente la sinistra del nostro paese, lasciando così, anche in questo caso, la difesa delle particolarità territoriali, nelle mani delle destre.
Insomma, a fare il conto, tutto ciò che la sinistra lascia la destra raccoglie. 

Riflettevo - se ne sono ancora capace - proprio sulla questione delle diversità, in particolare su quelle linguistiche. E già, perché nella sua sovreccitazione di andare verso il "mondo a colori", la sinistra (che dalla destra, al contrario, prende sempre le cose di cui si potrebbe fare a meno) ha sostenuto la tesi del "dobbiamo conoscere la lingua inglese". Anche qui con un doppio effetto nefasto: l'italiano è divenuto una ipotesi, i dialetti sono ormai fantasmi. 
Bene, mi piacerebbe, una volta che Fassina abbia convinto quelli di SEL che a lui si sono aggregati a fare profonda ammenda sulla religione dell'euro, che questo nuova Sinistra abbracci l'idea che nella difesa del popolo c'è anche la difesa delle sue radici, e quindi della lingua patria e quindi dei dialetti. Parlare le lingue straniere è una gran bella cosa, ma questo non significa che si debbano perdere le tradizioni. 
Perché se da un lato la comunicazione globale ci consente di accedere al mondo globale, è pur vero che l'inglese che noi parliamo (come ci ricorda il filosofo marxista Fusaro) non è quello di Shakespeare o di Wilde, ma quello della finanza. In realtà, secondo me, non è nemmeno inglese, è americano.
Dunque, un primo modo per opporsi al mondo capitalistico è quello di opporsi all'uso indiscriminato della lingua inglese. Ho detto "indiscriminato", non "totale"! (anche io studio l'english... sic)

Dall'altro lato va considerato che se conosco ed abito perfettamente le mie radici, se so chi sono senza tentennamenti, non avrò mai problemi o paura ad andare in giro per il mondo a confrontarmi con chicchessia. 
C'è poi il secondo aspetto: se sono a difesa, tutela e sostegno del popolo, se sono dalla parte dei contadini (tanto per capirci), non posso essere contro "la terra", e siccome la lingua nasce dalla terra, l'abbandono costante del dialetto è abbandono costante della terra e dunque dei contadini. L'esempio si potrebbe fare anche con gli operai e con i piccoli artigiani e con i piccoli commercianti, e via dicendo. 
Considerando anche che: se il potere comincia a usare una lingua che non tutti conoscono, c'è una parte di popolazione che rischia di rimanere fuori dalla Democrazia, per una palese incapacità di accedere alle informazioni e/o spiegazioni. 
Il concetto liberista/capitalista sarebbe, in questo caso, che: è colpa tua se non sai l'inglese. 
Il concetto di chi dice di essere dalla parte del popolo spero sarà: dobbiamo considerare che non tutti hanno potuto accedere a certi studi, che non tutti hanno le stesse capacità (viva le diversità), che non tutti sono tenuti alle stesse cose (ari-viva le diversità).
Io penso che difendere le etnie, difendere le radici, difendere i dialetti o la lingua patria, non sia un concetto di Destra, ma di Sinistra, che non esclude la comunicazione e l'interazione globale. Il diritto all'autonomia dei Veneti, o dei Catalani, dovrebbe essere nel cuore di una sinistra che difende il diritto dei popoli all'autodeterminazione, il diritto alle scelte democratiche di ciascuno. 

Fino ad ora si è invocata la bellezza delle diversità solo per spingere all'omologazione, se lo si è fatto inconsapevolmente è molto grave, spero ci sia stata buona fede.
Sarebbe il caso di cominciare a difendere sul serio le diversità, come ricchezza vera e profonda, come ricchezza dei poveri.
Spero qualcuno raccolga questa specie di appello. 

mercoledì 28 ottobre 2015

6 - Ultima puntata, "Della Poesia" - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (Informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)

La conclusione del nostro percorso. Ringrazio coloro che hanno avuto la bontà di seguirmi, non siete stati tanti (perché nasconderlo), ma dai riscontri avuti, certamente appassionati. E questo fa piacere. Se contasse solo "l'audience" (che pure conta!) ci sarebbero "scrittori" contemporanei che conterebbero più di Dante. Fortunatamente non è così. 

Un dovuto riassunto delle "puntate" precedenti per chi arrivasse solo ora, e poi la conclusione. Anche questa ultima giornata, come quella precedente, tutta di seguito (ci sono discorsi che non si possono interrompere...), e ancora grazie, di cuore. 














Ultima giornata

«Oggi non posso nascondere un po’ di malinconia nell’ “annunciarvi solennemente” quello che tutti voi già sapete: è la nostra ultima giornata!
Malinconia, sì. Oddio, una lieve malinconia, non esaltatevi troppo, mia cara, mia tenera “gioventù bruciata”. Perché quando si è stati in buona compagnia, quando lo scambio affettivo è stato sincero (e sento che il nostro lo è stato), è difficoltoso staccarsi; difficoltoso perché è un po’ come staccarsi da se stessi, staccarsi da una creatura cui si è dato amore e attenzione, cui ci si è dedicati, ed accogliere il momento in cui questa creatura dovrà viaggiare da sola, senza più il nostro sguardo presuntuosa-mente e velleitaria-mente vigile su lei, è un po’ come prendere irrimediabilmente coscienza degli anni che passano, e che un giorno passeranno definitivamente.
Con voi, in questi pochi giorni, poche ore, sono stato bene, molto bene. Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Avete stimolato i miei pensieri, mi avete costretto a cercare nuovi modi di dire vecchie cose ed anche costretto a capirne meglio altre per potervene parlare; ma soprattutto, in questi nostri pochi giorni – non ve lo nascondo – sono stato bene con Alfonso Gatto; sono stato bene con il dovermi occupare a tempo pieno di lui, dei suoi scritti, sono – almeno spero – cresciuto ancora un po’ nel ripensare a cose che molte volte avevo letto senza comprenderle fino in fondo. Sono stato felice nel leggere i suoi piccoli/grandi meravigliosi pensieri, ed in essi, ogni giorno, ho visto qualcosa non solo di lui, ma di un possibile me.
Ma oggi, la creatura che io sento di dover lasciare andare, non siete voi, non è questo mio spero appassionato discorso, ma quella che questo discorso ha fatto nascere in voi. È una creatura, un figlio (non ho timore a definirlo così) che non conosco né conoscerò mai, ma che sono certo esiste ed esisterà sempre, e che chissà in quale bizzarro modo elaborato dalla vita, forse irriconoscibile a me e a voi stessi, un giorno passerete a qualcun altro. È la Poesia, che corre, silenziosa sovrana, nel cuore dell’uomo. Ad alcuni è dato di esercitarla nelle forme canoniche, ad altri di viverla in forme apparentemente irriconoscibili: un abbraccio, un sorriso, la composizione di una pagina tipografica, sfornare una pizza, redigere un ricorso per un Tribunale, rimettere in sesto la lamiera di un auto, dare calci a un pallone, curare una malattia, insegnare le tabelline… non so… è dovunque. Dovunque noi siamo con l’onestà verso noi stessi e verso gli altri di mettere sempre tutto il nostro cuore in gioco.
“Sono un uomo di cuore” scrive Gatto. Saremo, siamo noi capaci di essere in ogni istante “uomini di cuore”? Non lo so, non so nemmeno se io lo sono. Ma so che possiamo provarci. E già solo il provarci è riuscirci.
Ho guardato spesso, nella mia vita, a quella luna così incredibilmente grande sul golfo di Salerno, della mia, della sua Salerno. Solo un’illusione ottica, nulla di più. Ed ogni volta, guardandola, mi sono chiesto che cosa siano “le radici”, cosa voglia dire “avere delle radici”. Oggi vi dico: nulla. Terre, città, nazioni, regioni, confini… tutte cose che non esistono. Gli uomini non sono diversi, gli uomini sono uguali. La diversità non è un valore, è solo una stupida cosa che non esiste, e con cui il nostro tempo si scontra, sforzandosi in ogni modo di pensarla positivamente come una ricchezza, ma l’unica ricchezza, credo, è capire che la diversità non esiste, capire che tutti gli uomini, nei punti più lontani della terra e del tempo, amano, organizzano le loro società, mangiano in forme diverse le stesse cose, bevono acqua (quelli che ne hanno, sic!), adorano divinità, sperano che ci sia qualcosa dopo la morte, litigano, crescono i figli, qualcuno li abbandona… Facciamo tutti le stesse cose, in fondo. Sempre. Anche poesia, e anche poesia nelle forme canoniche. Gatto ha ragione, Alfonso Gatto, soprannominato “il poeta con la valigia”, ha ragione: “essere alle radici è essere nel sangue”, e “il sangue è tutto rosso” ha detto qualcuno, ecco perché gli uomini sono tutti uguali.
Così, ognuno ha i suoi poeti e ognuno ama i suoi propri poeti. A me piace Alfonso Gatto, ma forse voi, che pure avrete amato questa conversazione, non sceglierete Gatto e andrete verso altri poeti. Che magari non usano la penna ma i piedi, un pennello, una bicicletta. Sono certo che Gatto non si offenderebbe. A Gianni Rivera, uno dei più grandi calciatori di sempre, egli stesso, in una lettera aperta su “Il giornale” allora diretto da Indro Montanelli, scrisse: “lei è un poeta”. E lo stesso Gatto, parlando della sua vocazione ha scritto – ricordate, lo abbiamo letto all’inizio –: “Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi.”
Ecco, forse adesso, giunti al nostro ultimo incontro, per raccogliere le fila e riportarci per un attimo al campo letterario, se la vita – come Gatto dice – è nella presenza dei poeti, quello che dobbiamo ancora chiederci è: chi è, cos’è un poeta, e soprattutto noi, “lettori felici”, come lo riconosciamo?
Lo schemino che mi ero preparato per oggi era molto diverso. Volevo parlarvi di un volume a mio parere bellissimo e oscuro di Gatto, “Osteria flegrea”, dove l’osteria è simbolicamente la vita, quel luogo lungo la strada dell’uomo dove si entra, ci si rifocilla, si osservano o conoscono gli altri, poi si va via. Flegrea, è riferito ai Campi flegrei, vicino Napoli, un luogo antico, carico di storia, e che dunque rimanda alle più profonde radici del poeta, quindi dell’uomo: un uomo per tutti gli uomini. Uno splendido volume, una grande meditazione sulla morte, e dunque sulla vita, come lo stesso Gatto scrive nella nota finale: “…il sole di questa serena contemplazione della morte che è, o dovrebbe essere il vino dei poeti. Così, spero, riceva un senso anche il titolo. È un titolo che mi riporta, tra tanti aberranti finalismi della vita di oggi, al sole dei millenni familiari e alla mia terra. (…) Chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza, delle sue mani, dei suoi occhi, del suo mistero duro in sé e incomunicabile. Chi ne è fuori – spettatore e retore -  ha solo il «gusto molesto dell’esagerazione»”. Ancora mani, occhi… corpo, e quel mistero “duro in sé e incomunicabile”, incomunicabile ma che spinge comunque alla prova perché “chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza”; sua del fenomeno, o sua del poeta? È uguale, in realtà, non c’è distinzione. Borges scrive: “Il verso ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta, il verso ricorda sempre di essere stato un canto”. A chi lo ricorda? È un gioco sottilissimo, un’ambiguità che solo le parole, e solo i grandi che sanno andare verso il cuore delle parole possono restituirci: lo ricorda a se stesso e a noi. Il verso è una cosa viva, quanto noi. La Parola è viva, quanto noi, perché noi siamo parola.
Avrei voluto parlarvi dell’Ermetismo, di quella grande corrente letteraria che fa nuova la poesia italiana, che strappa totalmente con il passato, che nasce grazie a Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, e che trova nei giovani che succederanno a questo imbattibile poker, i Gatto, i Sereni, Caproni, ecc. un terreno fertilissimo; di come tutti questi poeti abbiano, dopo secoli, trovato il modo per andare nuovamente alle radici della nostra poesia e quindi della nostra lingua, rompendo gli schemi, a volte abbandonando la punteggiatura, procedendo per strappi, simboli, sonorità, immagini… e di come un “m’illumino/ d’immenso” sia… perfetto, senza bisogno di spiegazioni, anzi, le spiegazioni lo svilirebbero. E avrei voluto chiarirvi come un Gatto, per esempio, faccia propria questa lezione, fidando nel potere evocativo delle parole, pur consapevole della loro indiscutibile precisione/imprecisione. Ma non ha importanza, è una esplorazione che se vorrete potrete continuare da soli, innaffiando questo discorso con le vostre sensazioni, le vostre idee, la vostra voglia, privatissima, di diventare “lettori felici”.
Quello che ora trovo più importante dirvi è che, al di là delle malinconie, al di là dei luoghi comuni, tutti i luoghi comuni che accompagnano la poesia, soprattutto lo studio della poesia, Gatto è un poeta vivo, vitale, po-si-ti-vo… non ostante il suo amore per Leopardi (lasciatemi quest’ultima, sorridente battuta polemica), e il pessimismo pare non riesca mai a scalfirlo. I dolori che Gatto racconta sono in un certo qual senso “cronaca”, momenti della vita, momenti che la compongono allo stesso modo delle gioie, tasselli di un incomponibile puzzle.
Consapevole di essere nel tempo, egli ha fiducia proprio nel tempo, poiché sa di avere raccolto da coloro che lo hanno preceduto e fida in coloro che gli succederanno. Ha fiducia nei ragazzi che osserva, nei giovani che vede amarsi, nei bambini, nelle rughe dei vecchi, nelle esperienze drammatiche della sua vita, nella luce, nei colori della terra. È un poeta che ama le cose della vita, che ama la vita, ama coloro che la vivono. Ogni uomo, ogni azione, ogni gesto, ogni atto anche della natura, è uno stimolo a gioire, a stupirsi dell’esistenza, a stupirsi della propria esistenza, “inspiegato anche sul come sono” dice nel discorso a Palazzo di Città.
Non è un poeta lunare. Ma, attenti, non è nemmeno un poeta solare. È solare e lunare al contempo. Perché tutto il problema è negli occhi, tutta la questione è nella luce. Il sole non è il maschio, la luna non è la femmina (in tante mitologie è esattamente il contrario). E la luce della luna non è banalmente un riflesso della luce del sole. La luce del sole è solo quella del sole, la luce della luna è solo quella della luna, e basta.
Mi pare sia Leonardo da Vinci a scrivere che noi non vediamo grazie alla luce poiché essa acceca, ma vediamo attraverso la luce, vediamo ciò che la luce ci consente di vedere, e questo è evidente se pensiamo al sole. Ma se osserverete bene nelle notti di luna vedrete che quella tenue, apparentemente flebile luce circoscrive, disegna, indica, evidenzia solo le cose che quella luce sanno raccogliere e rimandare: sono le cose a mostrarci la luce.
Esiste, dunque, anche un modo di guardare la luce, e io credo che sia proprio ribaltando l’ordinario pensiero sulla luce che Gatto guarda. E lo sappiamo chiaramente perché questo continuo rovesciamento del “pensiero osservante”, o della “osservazione pensante”, è in tutti i suoi scritti. È come se ci dicesse: c’è sempre un altro modo per guardare le cose.

All’altezza dei gridi in cui non vola
altra gioia celeste che lo slancio
dei loggiati dipinti alle colombe
torna al silenzio il suo tremare
al vento la sua pietra
(…)

chi è che vola, si slancia, trema? Le colombe o la pietra dei loggiati? Quante possibili visioni si nascondo in una cosa così semplice e consueta come quella di colombe che si lanciano da un loggiato?
Se mi chiedete che cos’è, chi è un attore, una risposta posso anche darvela, è il mio specifico, la mia categoria, io sono un attore, e ci penso da anni quotidianamente: un attore è una idea in continuo movimento. Questa risposta fino ad oggi mi soddisfa. Ma probabilmente, anzi no, sicuramente se mi chiedete chi è un poeta, io non lo so. Tra le tante definizioni possibili posso dirvi che secondo me un poeta è uno cui la Poesia “ordina” di osservare, ascoltare, percepire le cose, le sensazioni, quella Armonia in cui tutta la nostra vita è adagiata come in un ventre materno, al quale la Poesia “ordina” di rimandarci, in qualche modo, quella Armonia.
C’è in giro, ahinoi, c’è in giro troppa gente che confonde l’ordine con l’Armonia.
Al di là delle poche necessità dettate dal convivere sociale, l’ordine è qualcosa di imposto dall’alto e che prima o poi crea dolore.
Chiudete gli occhi, invece, e immaginate di essere sulla vetta di una grande montagna, con un meraviglioso foulard tra le mani. Lo lasciate andare. Comincia a volare, a fluttuare in una infinità di spostamenti piccoli, grandi, sempre nuovi. Immaginate di seguirlo, quel foulard, istante per istante, movimento su movimento, abbandonatevi al desiderio di essere sempre con lui, un tutt’uno con lui nei suoi mille giochi colorati. Essi saranno dentro i vostri occhi, e potrete arrivare a sentire che ciò che guida il tutto non è il caos, ma una misura impercettibile che vive simbioticamente fuori e dentro di noi. Non so in che altro modo dirlo, ma credo che questa sia l’Armonia: ci siamo dentro anche se non ce ne accorgiamo, sta solo a noi scegliere di essere con lei.
Essere con lei per scoprire la cosa più importante che può svelarci, ciò che si nasconde tra le sue pieghe, tra le pieghe di quel foulard, misteriosa, imperscrutabile, incomprensibile, morbida come un bambino: la Bellezza.
Stendhal dice: “che cos’è la Bellezza per me? È quel carattere che è necessario alla mia anima; la Bellezza è la promessa della felicità”. Padre Dante nella Commedia definisce decine di cose complicatissime, la fede, il famoso trasumanare che “significar per verba/ non si poria”, arriva anche a dare una definizione di Dio: “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”; ma per quanto abbia cercato non vi ho trovato una sola definizione della Bellezza, sebbene questa sia richiamata moltissime volte. Quella di Stendhal è la migliore che mi sia capitata tra le mani, e per conto mio, nel valore di soggettività assoluta che il francese attribuisce alla cosa, non definisce proprio nulla, il che rientra perfettamente nel gioco; mi sorge dunque il sospetto che quel “mistero” di cui Tom Robbins parla alla fine del “Picchio” sia proprio la Bellezza, ed è lei, in conclusione, che io credo cerchi un poeta. E di rimando, ciò che noi cerchiamo in un poeta.
Alfonso Gatto non è fuori da questo meraviglioso gioco. È assolutamente quello che Gianni Mura definirebbe un “mendicante di bellezza”.
Mura è un grande giornalista, appassionato di Alfonso Gatto al punto che parlando con lui si ha la netta sensazione che lo abbia conosciuto. Ma se glielo chiedete vi svela che non è così e c’è da rimanerne stupiti. Perché anche questo può fare l’amore per la poesia.
“Mendicanti di bellezza” è una definizione splendida, perfetta, perché è ciò che realmente siamo soprattutto quando amiamo qualcuno o qualcosa. Mura dice che la definizione è di Eduardo Galeano. Ma non è propriamente vero. Sono andato a verificare, Galeano scrive: “Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo con il cappello in mano e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio »”.
Ma anche questo fa l’amore: sposta i piani, mischia le cose, ci alleggerisce di noi, ci restituisce l’oblio in cui siamo nati, ci inebria, ci confonde, così teneramente ci confonde da renderci autori inconsapevoli di un sempre nuovo, piccolo miracolo, come questo: una definizione, una definizione perfetta che prendo per me nella certezza di essere anch’io soltanto un “mendicante di bellezza”, uno tra i tanti, che va per le strade, vaga tra i libri, la musica, i colori, si perde in un paio d’occhi solo per elemosinare qualche spicciolo di bellezza, che scruta nei poeti, in un poeta vero come Alfonso Gatto, sicuro che gli regalerà un po’ di Bellezza.
Io non lo so se Alfonso Gatto sia più o meno grande di un Montale o decisamente più piccolo di un Ungaretti, o del suo amato Leopardi. Quello che so è che, tra le tante cose, un poeta è anche colui che prima o poi tira fuori un verso cristallino, folgorante, unico, puro, di paternità e bellezza inoppugnabile, come “un uomo vivo col tuo cuore è un sogno”.
È in una poesia dedicata al padre. Quando lo dico questo verso non posso fare a meno di pensare a mio padre, al momento in cui, se natura vorrà, dovrò accompagnarlo nel suo ultimo viaggio:

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà si accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro il sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

Ecco, io vi chiedo: è morte questa? È morte questo stupirsi? Sono morte i nostri sogni, la libertà, occhi neri,  rondini, mare, il ricordo caldo di una voce, il cuore, il sogno? Sono morte gli insegnamenti dolci che porteremo sempre con noi? È morte questo mondo affacciato nel plenilunio a guardare nuovi uomini incamminati verso nuove albe? No! E io sento che è questa la bellezza, è questa l’altra luce che può illuminare la nostra vita, è questa la poesia: una cosa inutile, talmente pura nella sua inutilità da esserci assolutamente necessaria. È un canto dell’anima (lo ripeto), o il canto da cui l’anima, volente o nolente, è attraversata.
E se ancor di più è vero che la poesia è fare (dal greco poiêin: fare), mi pare possa anche diventare irrilevante sapere che cosa sia: l’importante è farla, testimoniarla, come si direbbe nella religione cristiana.
L’arte è certamente una cosa che si fa e non di cui si parla. È per questo che tutta la critica resta sempre un passo indietro, perché il critico non fa. Mi è capitato di sentir dire: “La critica non ha ancora risolto il tal problema, sciolto il tal nodo”. Come può la critica sciogliere un qualsivoglia nodo se la sua azione è sempre a posteriori, se arriva sempre dopo che l’opera è fatta?
So come gli attori si riconoscono tra di loro, me lo spiegò, in una calda sera siracusana, un collega che purtroppo non c’è più, Piero Di Iorio: “Solo il fratello può riconoscere il fratello”, perché lo percepisce, lo intuisce, ne riconosce gli odori e le sensazioni, sensazioni che, descrivendole, ti accorgi che solo chi fa il tuo stesso lavoro comprende perfettamente. Di sicuro è così anche per i poeti: si annusano e riconoscono tra loro per una serie di problematiche di cui il linguaggio è veicolo chiaro per loro e tra di loro, e sovente incomprensibile agli altri.
Sarà anche per questo che la critica ufficiale mal digerisce gli Eliot, i Borges, o i Calvino quando “fanno i critici”? Quando un autore parla di un altro autore sicuramente ne comprende, e rivive, le difficoltà del percorso creativo. La sua “azione critica” diviene ancor più destabilizzante poiché sui concetti s’innesta l’impalpabile fascino di una nuova poesia, ed è paradossalmente un’azione falsa poiché alla fin fine parla di se stesso utilizzando l’altro autore come riflesso attraverso il quale comprendere le sue difficoltà o esaltazioni.
Eppure, dato per assodato tutto questo, escludendo i puri dati tecnici della composizione, escludendo in toto l’auto-asserzione “sono un poeta”, noi lettori sempre “felici” come facciamo a dire, ed a ragion veduta: “è un poeta!”?
Ipotizzo, perché mi pare veramente che arrivati a questo punto “significar per verba non si poria”: penso che non si possa riconoscere il poeta se non attraverso l’intuizione e la simbiosi, lasciando che, così come è stato per il suo al momento della “ispirazione”, il nostro stesso corpo si abbandoni per poter essere attraversato. È ancora una volta un gioco di rimandi e riflessi: il poeta è attraversato dal soffio delle sue intuizioni, noi da quelle che lui ci rimanda. Sarà anche per questo che non a tutti piacciono gli stessi poeti.
Ecco, forse è così: riconosciamo un poeta perché percepiamo che ha lasciato se stesso per “essere cantato”, per essere attraversato da quel canto che diventa il nostro canto nel momento in cui ci abbandoniamo al suo e ce ne lasciamo attraversare. E in quel momento, la nostra funzione di lettori è vitale, fondante. La parola scritta, chiusa, sola, non è nient’altro che un simbolo morto. È in quel contatto tra lei e il nostro occhio che si attua, dentro di noi, la sua resurrezione. È lì, in quell’istante, che possiamo sentire che quel corpo del poeta, fratello del nostro in quell’attimo, abbandona le rigidità e le durezze che la vita gli ha costruito addosso per essere di nuovo puro e malleabile; come quando era bambino, ma proprio bambino bambino bambino, un bambino che gioca con suoni per noi adulti informi, senza ancora conoscere la gioia ed il peso mortale della Parola.
Non penso di essere riuscito a spiegarmi, e ve ne chiedo scusa (poi parlo male di Bigongiari!); e non ho nemmeno molto altro da aggiungere, se non due piccole annotazioni:
1- non so quale sia esattamente la “visione del mondo” o “della vita” di Alfonso Gatto, e francamente non mi interessa nemmeno saperlo. Mi interessa, invece, il fatto che so che ritrovo e ritroverò in una qualche sua pagina le parole del mio tempo, del mio personalissimo tempo, passato, presente, e forse futuro. Mi interessa sapere che esiste, in qualche angolo di questa mia terra, il cantore dei miei giorni. Lo vogliamo o no, ne siamo consapevoli, coscienti o no, noi cerchiamo le parole del nostro tempo;
2- credo che Alfonso Gatto lasci sui nostri piccoli tavoli inadatti ad accogliere la storia, un “insegnamento”: accogliete le vostre passioni, i vostri sogni di ragazzi, con la consapevolezza – quella sì adulta – che non ci saranno solo glorie, ma anzi molti bocconi amari. Solo così il futuro sarà sempre possibile. Sarà necessaria l’onestà, tanta onestà, intellettuale e interiore, l’onestà non della convinzione di essere, ma dell’avere, con tutte le nostre forze, “cercato di essere”.
Bene, credo proprio che possa bastare. Vi avevo fatto una piccola promessa all’inizio, c’è una poesia che abbiamo lasciato in sospeso, ora la leggiamo:

Il vicolo della neve

È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.

Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l’inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l’ultimo palpito d’aria
di fresca cantina, d’arancio,
che torna – oh, se torna! – nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l’insegna contrabbandiera
del c’era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.

Straniero, se passi a Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.

L’odore di menta t’invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall’abbondanza.
In quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
a quegli accordi lontani
del tempo che fu.


Lasciate che vi abbracci tutti di cuore sul cuore.
Grazie, e… Buena vida!»