lunedì 13 febbraio 2017

DOTTOR JEKYLL, SAN TOMMASO E FAKE NEWS

Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è il racconto che ha avuto il maggior numero di trasposizioni cinematografiche dopo Madame Bovary
È il capolavoro di Flaubert, dunque, ad oggi, a mantenere questo curioso primato. 
Le trasposizioni per lo schermo dei romanzi pongono, come si sa, una serie di problemi, ed è certamente per il tentativo di dare risoluzione a queste questioni di stampo totalmente artistico che i cineasti se ne sentono perennemente attratti. 
Ogni film (comprendendo anche le versioni per il piccolo schermo) è un tentativo, una proposta e una possibile risposta. Nessuno la risposta definitiva. 
Il caso di Jekyll/Hyde è però particolarmente curioso. Perché come sa chi ha letto il raccontino di Stevenson, solo alla fine veniamo a scoprire che i due sono la stessa persona, mentre al cinema non possiamo che scoprirlo praticamente subito, alla prima ingurgitata di pozione. Così, l'attenzione del realizzatore si deve per forza di cose concentrare su altro dalla storia: la convivenza tra bene e male in un unico essere, la forza e le possibilità degli effetti speciali, il punto di vista da cui la storia viene guardata e raccontata... 
Esso è certamente il caso più chiaro di come cinema e letteratura siano due generi diversi, che raccontano con modalità differenti e che praticamente sempre la trasposizione è una operazione che "prende spunto da", senza poter essere mai "quel racconto". Da qui, poi, la vulgata corrente "ma il libro è un'altra cosa". Certo, il libro non può che essere un'altra cosa, perché diverse sono, ancor prima che i tempi, le tecniche della narrazione. 
Quello di Jekyll e Hyde resterà per sempre un problema irrisolvibile per l'ottava arte. 

Ma un caso di impossibilità di trasposizione del racconto si era già verificato nella storia dell'Arte della nostra civilità: l'incredulità di San Tommaso. 
Se stiamo infatti ai Vangeli, in particolare Giovanni (20,24 - 29), l'apostolo non mette mai il dito nelle piaghe di Cristo. Egli esprime il suo dubbio, richiede una prova concreta della resurrezione del Maestro, afferma che non crederà, come sappiamo, finché non avrà posto la sua mano in quelle ferite.
Poi, quando se lo vede davanti, cade in ginocchio ed esclama: "Mio Signore, mio Dio". E la faccenda si chiude lì. 











Dunque, Tommaso non mette mai in pratica quella sua richiesta di prova. Eppure, se date uno sguardo alle pitture che hanno attraversato i secoli, il gesto è più o meno sempre lo stesso che vediamo in quel quadro di Caravaggio. 
Mettetevi nei panni di un pittore: come posso far capire attraverso una sola immagine che quello che, per esempio, di getta ai piedi di Cristo è effettivamente l'apostolo incredulo? Potrebbe essere chiunque e qualsiasi altro il momento. 

Ogni arte, dunque, ha il suo modo di narrare e non può prescinderne. Ogni arte ha il suo pezzetto di finzione, e addirittura di menzogna. 
Talvolta pensiamo di conoscere la Verità solo perché vediamo una foto o un filmato. Dimentichiamo che l'obiettivo, per sua stessa natura, come l'occhio, non può che escludere un pezzo della realtà. E se questo è vero per l'arte, che porta con sé il tempo della costruzione e della meditazione, ancor più vero lo è per la cronaca, che si illude di "fotografare la realtà". 
Il concetto di falsa notizia è insito nel concetto di notizia stessa. 
Escludendo il concetto di "notizia VERA", la differenza tra notizia falsa e notizia non falsa è solo da ricercare nella buona o cattiva fede di chi la diffonde. Noi stessi, tra quando leggiamo una notizia e poi la riportiamo a qualcun altro abbiamo già modificato il racconto. 
Chi pretende di possedere e/o determinare la Verità, sta già mentendo. 

giovedì 2 febbraio 2017

L'AMARO POSTO NELLA STORIA DELLA MIA GENERAZIONE

Ormai, a causa di una serie di eventi incrociati, l'argomento uscita dell'euro è sdoganato. 
Grazie al cielo! 
Il crollo è imminente. Imminente sempre stando ai tempi della politica. Un anno, un anno e mezzo, due... Tutto può essere. Fatto sta che la moneta unica è finita e la si tiene in vita come un comatoso più prossimo alla dipartita che alla ripresa. 
A proposito di ciò, mi è capitato di leggere sui social un commento, tra i tanti, ieri, nel quale si diceva: "Bene, ma a me questi sedici anni di vita chi me li ridà?". 
Sacrosanto. Qualsiasi cosa possa avere indotto i nostri governanti (in buona o cattiva fede?) a intraprendere questa strada, che già si sapeva sarebbe stata fallimentare, resta il fatto che sedici anni della nostra vita sono passati. 
Quando siamo entrati nell'euro io avevo quasi trentasette anni, ora ne ho cinquantadue, e pur volendo contare solo gli anni di crisi piena dal 2008, sono comunque circa otto anni di fatiche e lotte e sofferenze e gastriti, di occasioni perse, di lavoro sballato, di vita e amore disturbati; di un logoramento generale insomma, otto anni della mia vita che niente e nessuno potrà mai restituirmi. 
Lo trovate giusto? Io no. Ed è questa per me la più grande colpa di coloro che, pur sapendo, hanno fatto il passo sbagliato. E che sia stato sbagliato, oggi lo sappiamo in pieno e senza dubbi; possono, quei soggetti, continuare a menare il can per l'aia quanto vogliono, ma i fatti sono qui, incontrovertibili. 
Per questo non ho mai creduto a quella idea d'epoca berlusconiana, che tutti i partiti hanno abbracciato, per cui si elegge uno, lo si prova, poi se non va lo si cambia. Perché le nostre legislature, nazionali o locali, durano tra i quattro e i cinque anni, e quando tu combini un disastro (a Parma in una sola tornata qualcuno fece un buco da un miliardo di euro, tanto per ricordare), poi ci vorranno altri anni per risanare... e a me, il tempo che mi hai rubato con tutto ciò che vi è di vita connesso, chi me lo restituisce? 
In tal senso, questa politica odierna mostra tutta la sua pochezza, ed andrebbe spazzata via in toto, cioè non solo gli uomini, ma anche il sistema. 

Il commento sul social, però, mi ha fatto tornare alla mente una mia vecchia domanda: che generazione saremo, noi, per la Storia? 
Sono nato nel 1965, e spesso ho pensato che la generazione di mio nonno ha vissuto il fascismo (di qua o di là è altra storia) e ha fatto la guerra; quella di mio padre la ricostruzione, i miei cugini più grandi il '68 e poi il '77... e noi, noi che nei giorni della immaginazione al potere avevamo tre anni, e dodici durante la liberazione sessuale? 
Chi saremo noi davanti alla Storia, la generazione degli anni '80, degli Yuppies rampanti? O mio Dio! E mi prende lo sconforto. 
In effetti un disastro. Ma bisogna sempre trovare un modo per vedere quel dannato bicchiere mezzo pieno, anche se per me il bicchiere non è mai stato né mezzo vuoto né mezzo pieno, ma solo mezzo bicchiere di vino. 

E dai, cerchiamo di vederla bene, soprattutto ora che volge alla fine la grande battaglia, questa immensa e subdola terza guerra mondiale. Posso consolarmi. Quando nel 2012, dopo una serie di domande, ricerche e curiosità, approdai alla verità, mi prendevano e ci prendevano per matti e appestati, per gente da mettere in un angolo e con la quale non si doveva parlare. Per strada ho perso amici e raffreddato i rapporti con tanti cui continuo a volere bene, ma con i quali è meglio non parlare di "certe cose". Certo, ho trovato nuovi amici e nuovi conoscenze, ma quanta sofferenza è costato questo percorso. 
E parlo io di sofferenza, io che in fondo ho sempre potuto mettere insieme pranzo e cena, pagare affitto e bollette, che ho dovuto rivedere tanti e tanti parametri della mia esistenza, ma non mi sono mai trovato nella condizione di coloro che, per esempio, sono stati letteralmente spinti al suicidio, di coloro che hanno perso davvero tutto avendo i figli o altre grandi responsabilità sulle spalle. Io in fondo, in tutto ciò, sono anche stato fortunato. Ma questo non ha alleviato la mia rabbia e la sofferenza dentro, perché vedere soffrire e spesso morire le persone oneste, semplici, per bene, fa solo male all'anima, e quindi a tutto il nostro essere. Solo chi non ha cuore per il proprio prossimo mai, può aver vissuto bene questi anni, perché lo stato di sofferenza delle persone era reale e dinanzi agli occhi di tutti.   
In tutti questi anni, che volgono fortunatamente al termine - ma che ancora non ci hanno dato la parola "fine!", quindi dovremo continuare a far lo sforzo di esser vigili - un verso di Alfonso Gatto mi è tornato spesso alla mente: "i poveri hanno il freddo della terra". 
Non posso nascondere che non ho mai ben capito cosa voglia dire, ma per me esprime tutte la tenerezza, e il dolore che sento dentro per coloro che sono stati tanto, troppo più sfortunati di me, sempre che di "sfortuna" si voglia parlare, visto che chi ha voluto questa situazione, ora sappiamo che sapeva, sapeva perfettamente. 

Alla fine, anche la mia generazione si è conquistata il suo posto nella Storia, ha avuto la sua infima casellina, qualcuno potrà sempre dire che anche noi siamo passati su questa terra: siamo quelli che hanno lottato, chi nel grande, chi nel piccolo, ognuno a seconda delle proprie possibilità, perché questo regime dittatoriale della moneta unica, dell'Unione Europea, del globalismo senza freni e senza controllo, del disprezzo verso i poveri, del classismo, del ritorno alle monarchie assolutiste, della distruzione delle nostre culture, della sostituzione di popoli, della menzogna e della mistificazione fatte sistema, di una ideologia sconfinata in un credo cieco e fondamentalista disprezzante il dolore altrui, non vincesse. 
Ce l'abbiamo quasi fatta. Non è ancora finita, ma ce l'abbiamo quasi fatta. E anche quando sarà finita, ed avremo vinto (ci spiace per coloro che perderanno) non dovremo mai dimenticare, insegnandolo alle nuove generazioni, di non distogliere mai l'attenzione, di non credere alla prima cosa che ti dicono, di non pensare che i diritti acquisiti, conquistati dai nostri padri, nessuno te li potrà mai togliere, di non dare mai la libertà, la democrazia, lo stato sociale per scontati, perché questo è stato il nostro errore. 
Noi, adesso, per questioni di tempo, non abbiamo più molto da imparare, ma dobbiamo imparare a insegnare perché non si ripeta. 
C'è ancora da fare, ma tutto fa intravedere che ne usciremo a testa alta: "noi pochi, noi felici pochi, noi banda di fratelli". 
Bene, avremo fatto il nostro. E così sia.

Mi resterà soltanto una malinconia: avrei preferito non contare, avrei preferito essere dimenticato dalla Storia e non vedere tutto questo. L'avrei preferito.  

mercoledì 1 febbraio 2017

RECITARE O DIRE LA POESIA (dialogo fa un allievo e un maestro)

La Poesia si recita o si dice?
(dialogo propedeutico tra un Allievo e un Maestro)


A - Ma la poesia si recita o si dice?
M - Bella domanda! L’idea che si è fatta strada negli ultimi anni è che la poesia “si dice e non si recita”, ma così non può essere per tanti motivi. Considera innanzi tutto il fatto non casuale che questo concetto si è fatto strada negli ultimi 50 anni.
A - Vuoi dire che prima non ce lo si chiedeva?
M - Poco. Lo si dava per scontato, si eseguiva e basta senza farsi troppe domande.
A - Cioè non ci si interrogava sul problema?
M - Certo che ci si interrogava, come ci si è sempre interrogati, solo che non si sentiva il bisogno di scrivere le risposte, di dare organicità ai problemi. Voglio dire che il lavoro era profondamente artigianale - come in verità ancora è! - e tutto trovava soluzione semplicemente nel fare. Soltanto da un certo periodo in poi si è presa l’abitudine, per certi versi ottima, di scrivere, di ragionare, di scambiare le opinioni, di creare una metodologia, di me-to-do-lo-giz-za-re. Più o meno dalla fine dell’800 in poi. Diciamo, per intenderci, che prima le cose si facevano e basta,  parlandone tra attori e passandosi “il mestiere”: regole, modi, tecniche, opinioni... tutto, insomma, rimaneva circoscritto alla pratica della professione; da un certo momento in poi il ragionamento si è come “aperto al mondo”. Questo ha comportato che altri, non del mestiere, siano “entrati nel ragionamento”, il che non è stato propriamente un bene, ma ha anche portato nella discussione differenti punti di vista che l’hanno certamente arricchita e alimentata, e questo invece è sicuramente un bene.
A - Tu credi dunque che solo gli attori debbano parlare di Teatro?
M - No, io credo che solo gli attori possano parlare di Recitazione, è diverso. È la loro Arte, e solo chi vive pienamente un'arte ha conoscenza diretta di felicità e infelicità.
A - Felicità e infelicità?
M - In tutte le espressioni artistiche esistono “zone” del lavoro che non possono essere raccontate, o che si possono raccontare solo con grande difficoltà attraverso metafore, allusioni, traslazioni. Chi invece vive in quell’arte capisce senza bisogno di racconto la sensazione del collega. Prendi ad esempio “le storie sugli incidenti teatrali”, quei piccoli accadimenti della scena o della vita del teatro che gli attori si raccontano tra loro magari la sera a cena dopo spettacolo; fai caso: essi ridono di quei racconti, o ne condividono la “tragicità”, in maniera piena e immediata, ma se alla stessa tavola sono seduti dei non attori, questi non parteciperanno mai allo stesso modo. Simile meccanismo per le questioni metodologiche, che passano tra teatranti agilmente giacché sono quotidianamente condivise. In verità, penso sia così in tutte le professioni: solo due chirurghi possono davvero sapere cosa può voler dire... sbagliare a incidere con un bisturi.
A - Se ho ben capito, fino a un certo periodo non si è sentito il bisogno, per un problema come appunto “la poesia si dice o si recita”, di “mettere per iscritto” le proprie riflessioni, poi qualcosa è cambiato.
M - Sì.
A - Cambiato cosa, però?
M - È cambiato tutto, è cambiato il mondo, è cambiato il modo di guardare l’uomo e di parlare di lui. Credo sia innegabile che nel momento in cui sbuca sulla scena un certo signor Freud tutto cambia, in ogni settore, in tutte le arti. La pittura: osserva come potentemente si trasforma tra fine 800 e inizio 900. In musica: pochi anni per passare da Brahms a Berg. Perché, dunque, in Teatro doveva essere diverso, perché per l’attore doveva essere diverso?
A . Beh, ma non è che tutti abbiamo letto Freud...
M - E questo è l’aspetto davvero interessante! Certamente, non tutti abbiamo letto Freud; ma ti dirò di più: mentre Freud lavora a Vienna, a Mosca un piccolo signore di nome Cechov scrive i suoi capolavori. Per quello che ne sappiamo nessuno dei due aveva notizia dell’altro. E qualche anno dopo, mentre un signore di nome Pirandello scompone, quasi viviseziona l’animo umano, da un’altra parte del continente un signore di nome Pessoa fa praticamente la stessa cosa, e per quanto se ne sa i due non si sono mai né parlati né incontrati.
A - Come è possibile?
M – La mia sensazione è che, evidentemente, qualcosa “gira nell’aria”: come posso dire?, qualcosa attraversa i tempi, si muove e cambia il modo di vedere il mondo, lo si voglia o no. L’umanità, possiamo immaginare, si muove più insieme di quanto crediamo, le idee viaggiano, e hanno sempre viaggiato, più di quanto percepiamo.
A - Dunque Freud è fondamentale, senza di lui non sarebbero cambiate le cose? È questo che pensi?
M - No.
A - Come, No?
M - Intendo che il dottor Freud è sicuramente fondamentale, ma i germi di un cambiamento c’erano già e si vedevano in giro. Un certo “cambio di visione” sarebbe accaduto comunque, e non fosse stato Freud a mettere nero su bianco i suoi studi e le sue teorie, prima o poi un altro medico lo avrebbe fatto; così come se non ci fosse stato Stanislavskji, prima o poi un altro teatrante avrebbe scritto un libro sul metodo.
A - Capisco. Ma ancora non hai risposto alla mia domanda: la poesia si dice o si recita.
M - La poesia si dice perché può solo essere detta, e si recita perché un attore può solo recitare.
A - Un pezzo alla volta per favore.
M - Certo
A - Parte prima: la poesia si dice...
M - ...perché può solo essere detta.
A - Cioè?
M - Quando reciti porti al pubblico un personaggio, lo mostri, lo rappresenti. Esso è filtro tra te e il pubblico, si frappone, per forza di cose, pure se uno crede nelle “immedesimazioni totali”. Non sei e non sarai mai tu, sarà sempre e comunque una rappresentazione, una sorta di velo che è davanti a te e davanti lo spettatore, e tra te e lo spettatore: non può essere diversamente. Il “recitare”, cioè il “citare la res”, cioè ancora il “portare in giudizio la cosa”, il “portarla in giudizio davanti a un terzo”, mette per forza di cose tra te e lo spettatore un filtro, o se vuoi uno specchio, uno specchio doppiamente riflettente; ed è lì, in quello specchio che i due, attore e spettatore, si incontrano, solo lì si toccano: nel personaggio. Il personaggio è al contempo punto di divisione e punto di incontro tra attore e spettatore. Qual è il personaggio di una poesia?
A - Dipende...
M - Da cosa?
A - Da quello che la poesia dice, dalla storia che racconta.
M - No, no, caro. Non ti sto chiedendo di cosa parla la poesia, ma chi è colui che “racconta il fatto”. Tante volte un personaggio racconta la storia di qualcun altro, ma il personaggio è lui, non quello di cui egli in quel momento racconta. Se Amleto racconta la morte del padre, il personaggio rappresentato è Amleto non il padre. E la cosa di primaria importanza che Amleto fa è comunque rappresentare se stesso, anche se sta raccontando la morte del padre. In quel racconto c’è lui, la sua vita e la sua emozione; se il racconto lo facesse un altro personaggio, vita ed emozioni sarebbero diverse.
A - Ah, sì, certo, chiaro.
M - Dunque: se prendiamo, per esempio, “Il sabato del villaggio” di Leopardi, la donzelletta non è il personaggio da interpretare.
A - Sì, sì, ho capito. E dunque il personaggio è il poeta, perché è lui che parla.
M - Eh! Questa è una accettabile definizione, semplice ed efficace: “Chi è il personaggio? Il poeta”.
A - Bene.
M - Ma il poeta è un personaggio?
A - ...?
M - Un personaggio è l’invenzione di un autore, il frutto della sua immaginazione. È inserito all’interno di una struttura, di un racconto, egli è parte e funzione di quel racconto; ha relazioni con gli altri personaggi anche quando siamo di fronte a un monologo; ha una sua vita, sia pure immaginaria, passata e presente, e forse anche futura. All’interno della struttura possiamo ricostruire per lui un carattere, una tipologia, e pure una sorta di psiche... Puoi dire le stesse cose del poeta?
A - Evidentemente no. Il poeta è una persona in carne ed ossa, che ha pensato e scritto i suoi pensieri, che ha sofferto e ha gioito davvero nella vita, in una vita reale e non della finzione.
M - E dunque, qual è il personaggio nella poesia?
A - Credo che a questo punto possiamo dire: il poeta stesso e nessuno nel nedesimo tempo.
M - Questa mi piace ancora di più. Dunque, tu, come attore, di cosa puoi farti carico, di cosa vuoi e puoi “riempire te stesso” per restituire al pubblico la poesia? Dimmi prima di tutto una cosa: la poesia nasce scritta?
A - In che senso?
M - All’origine dei tempi, la poesia si scriveva?
A - Penso di no. La poesia era un’arte orale. Omero la cantava, lo sappiamo, si accompagnava con la lira e la cantava.
M - Esattamente. Quindi possiamo affermare che alla base della poesia c’è il canto?
A - Direi proprio di sì.
M - Bene, tieni da parte un attimo questo discorso e torniamo alla domanda di prima: se il tuo “personaggio” è il poeta, che al contempo non è un personaggio, di cosa ti fai carico per restituire al pubblico la poesia?
A - Io direi... del pensiero del poeta, del suo animo insomma. Cioè... io penso che in qualche modo “devo” essere il poeta.
M - La situazione si complica.
A - Beh, certo, visto che il poeta non è un personaggio.   
M - E allora, quale spiegazione riesci a darmi. Dai, ché ce la puoi fare.
A - Direi che in qualche modo devo farmi carico del pensiero del poeta, in qualche modo io devo, e direi voglio, essere il pensiero del poeta. Se mi spingo all’estremo posso dire che io sono il poeta.
M - Sì, benissimo. Forse dire “io sono il poeta” è un po’ troppo, ma hai colto perfettamente il concetto, e con esso il problema. Da qui la domanda successiva: se il poeta non è un personaggio, come puoi pensare di “rappresentarlo”?
A - ... già, non posso. È un bell’impiccio. A pensarci bene, mi pare che si cammini su una linea molto sottile, e cadere da una parte o dall’altra è molto facile.
M – Sicuramente. Vediamo però a questo punto di tirare delle conclusioni: tu non sei il poeta, non puoi rappresentare il poeta, ma d’altra parte devi in qualche modo “impersonificare” il poeta, che però non puoi trattare come un personaggio... e allora, quale presumi possa essere l’unica cosa che ti resta da fare, la sola cosa di cui puoi farti carico?
A – A questo punto confesso di essere andato in confusione... francamente non lo so.
M – Scusa, stringi il cerchio e stai all’azione, pratica, diretta, semplice: tu, cosa devi fare?
A – Oddio, in che senso.
M – Stando alla domanda da cui siamo partiti, “una poesia di recita o si dice”, alla fin fine, qual è la semplice azione che devi fare? Tutto questo discorso perché tu devi fare che cosa?
A – Beh... devo leggere una poesia...
M – Benissimo! E allora, alla fin fine, togli il personaggio, togli il poeta, togli il testo, togli le psicologie, togli... togli tutto. Chi è rimasto?
A - ... la poesia.
M – Da sola? La poesia... e poi?
A - ... non so...
M – Calmo, stai andando in confusione, ma è più semplice di quel che pensi. Ti aiuto, perché quando si va in confusione sulle cose semplici, poi diventano le peggiori da sbrogliare; dunque siete in due: la poesia, come hai giustamente detto, e...
A - ...?
M – Tesoro mio bello – adesso mi arrabbio – chi la deve dire ‘sta poesia?
A – Io...
M – Oh! E quindi?
A – La poesia e io.
M – Ah! Vivaddio! Vedi che era più semplice di quanto immaginassi? Quindi, se ci sei solo tu e la poesia, tutto quello che ti resta da fare è assumerti “il carico” di quella poesia, è “fare tua quella poesia”, è fare in modo che il senso di quel componimento entri in te e faccia parte di te e tu di lei...
A – Per sempre? Anche se non ne condivido il pensiero?
M – Ma NO! Adesso non farmi imbestialire. Quando fai un personaggio in una commedia devi essere per forza d’accordo con lui? Devi per forza essere lui? Se interpreti il mostro di Londra ti convinci che faceva bene ad ammazzare quelle ragazze? E se pure te ne dovessi convincere – cosa che mi porterebbe a prenderti a schiaffi – manterrai questo convincimento per tutta la vita?
A – Ma certo che no. Non me ne convinco e non me lo porto dentro per la vita.
M – E allora?! Idem con la poesia. Ne comprendi il senso e lo restituisci, proprio come fai con un personaggio. Poi saranno cavoli dell’autore se scrive cose da deficiente! Tu devi fare il tuo solito lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo, e poi restituisci il senso che hai acquisito, diventi il primario elemento di restituzione del testo, senza mediazioni, senza un personaggio a fare velo tra te e il pubblico!
A – Tutto chiaro...
M – Speriamo.
A – Ma il problema resta: la poesia la dico o la recito?
M – Dire una cosa è recitarla? No. Ed essendo tu un attore (o almeno aspirando ad esserlo), se ti metti in piedi davanti a un pubblico per leggere una poesia o per dirla a memoria, quali tecniche userai? Userai toni, ritmi, scansioni, dizione, articolazione, fonazione, controllo, intelligenza... insomma, criteri, moduli, tecniche da attore o no?
A – Assolutamente sì!
M – Userai quella tipica chiusa cadenzata, con la pausina prima della frase finale per fare capire che è finita e che può partire l’appauso (si spera!), o no?
A – Assolutamente sì!
M – E allora, lo vedi: tu dici la poesia, in quanto in un certo senso sei tu che la dici, ma la reciti perché usi tecniche da attore, e dunque non puoi che recitarla. Al contrario sarebbe una lettura inesistente, piatta, amorfa, come una sequela di parole in tutto simili a come sono scritte sulla carta, senza vita, senza un senso - che poi sarà il tuo e non quello di un altro ma questa è altra storia - e solo in quel modo avrai restituito al pubblico la tua interpretazione del testo. Le parole sono tutto e niente, non puoi che interpretarle, e nel momento stesso in cui le interpreti, nel momento stesso in cui sei tu a scegliere il senso da dare loro, le stai recitando, le stai, cioè, ponendo sotto il giudizio terzo di cui si diceva all’inizio, quello del res-citare, del portare in giudizio davanti a un terzo. Non può essere diversamente. La verità, secondo me, è che la poesia si recita, ma la reciti per il semplice motivo che se sei un attore non puoi in alcun modo negare te stesso.
A – E se uno non è un attore? Se è un poeta? Perché ci sono tanti poeti che leggono le loro poesie in pubblico.
M – Certo che ci sono. Ma ascoltali e osservali bene: è in quel momento che sono loro a prendere da te, attore, le tue tecniche espressive. Cercano magari di imitarle, rientrando, lo vogliano o no, nel campo della recitazione, cioè della restituzione interpretativa ad un pubblico.
A – Ho capito, e mi pare chiaro. Solo un’ultima cosa: se io “porto in giudizio davanti a un terzo”, e siamo io e il pubblico, siamo in due: chi è il terzo?
M – Ti rispondo subito: il terzo siete tu e il pubblico insieme. Un tutt’uno, che nel momento in cui si compie il rito laico del teatro, attivate, comunitariamente, la riflessione sull’oggetto della rappresentazione. Ecco perché il teatro era così importante nella polis, tra i greci, perché in quel momento, attori e spettatori divenivano il consesso civile, unico, che rifletteva su se stesso: divisi nello spazio e dallo spazio scenico, uniti nella meditazione rituale. La cavea semicircolare, sembra quasi, simbolicamente, indicarci che quel cerchio non si chiude, che ingloba tutto lo spazio del teatro, continuando ed abbracciando il palcoscenico per mettere tutti insieme, tutta la città in una sola azione di... riflessione sul senso della vita e dell’uomo. Hai capito?
A – Credo proprio di sì.
M – Speriamo...