mercoledì 30 settembre 2015

UNA VISIONE DELLA CULTURA: LA PRESENTAZIONE DELLA STAGIONE AL REGIO DI TORINO


Ieri mattina sono stato alla conferenza stampa di presentazione dell’apertura della stagione lirica del Teatro Regio di Torino, il sipario 2015/16 si alzerà il 14 ottobre su “Aida” di Giuseppe Verdi.
Erano presenti il sovrintendente Vergnano, il direttore artistico Fournier Facio, il direttore d’orchestra nonché direttore musicale del teatro, il bravissimo Noseda, il regista americano William Friedkin , il sindaco Fassino, e un rappresentante del gruppo Intesa-San Paolo, che sostiene l’attività della Fondazione Teatro Regio, e del quale, mi spiace, non ricordo il nome, né essendo lì in veste di cronista ma di semplice spettatore, mi sono preso cura di segnarmelo: mea culpa!
È stata una conferenza interessante con spunti anche divertenti. Molto simpatico il regista americano, premio oscar per “Il braccio violento della legge” e regista de “L’esorcista”, il che confermerebbe, per contrappasso, la tesi secondo cui un grande attore comico è, lontano dalle scene, persona serissima.
Non è un resoconto della conferenza che voglio proporvi, quello lo trovate sui quotidiani di oggi, ma la riflessione che ne ho tratto.
Nel suo discorso, “l’uomo di Intesa-San Paolo” - e mi scuso ancora per non averne appuntato il nome - inquadrava l’attività del Regio nella trasformazione che sta attraversando e attuando la città di Torino, la quale da polo industriale “sta divenendo lentamente” (parole sue) polo culturale, trovando quindi attraverso la cultura un nuovo elemento di traino economico.
Mi sono subito chiesto – e avrei voluto chiedere, ma non ce n’era possibilità – per quale motivo un polo industriale non potesse essere anche polo culturale, ed oggi un polo culturale non può essere anche polo industriale?
Dal discorso del cortesissimo signore si deduceva che i due elementi è come se fossero stati, e siano ancora, in contrapposizione.
La leggenda vuole che Torino fosse una città molto viva, ricca di locali notturni, non a caso personaggi come Fred Buscaglione qui fecero la loro gavetta; poi, sempre leggenda vuole, il mitico ragionier Valletta, che fu a capo della FIAT nel periodo di transizione tra Giovanni Agnelli nonno e Giovanni Agnelli nipote-avvocato, intimò di dare una bella calmata ai divertimenti serali perché i suoi operai la sera dovevano andare a letto presto, altrimenti ne avrebbe risentito la loro resa.  
Se con la fine della vita notturna si sia spenta anche la vita culturale, è sempre tutto da dimostrare, ma la contrapposizione raccontata dal rappresentante della Fondazione Intesa-San Paolo, faceva tornare alla mente quei racconti metropolitani.
Ciò che resta sicuro è la narrazione di un contrasto a mio parere inspiegabile, da cui, però, altra domanda è sorta: se si pensa di sostituire, come si sta facendo, al traino economico dell’industria quello della cultura, deve evidentemente voler dire che la cultura non è considerata un valore in sé, da preservare, perpetuare, proteggere e sostenere sempre e indipendentemente da tutto, ma solo un elemento da usare con secondo fine? Cosa mi deve far pensare, quel discorso, che se l’industria non avesse piegato le ginocchia, una città importante come Torino, e come essa magari tante altre, avrebbe continuato a considerare la cultura non prioritaria? Devo in qualche modo pensare che per veder sopravvivere... gli attori devo veder soccombere gli operai?
E infine: quando un giorno la cultura non tirerà più la carretta economica, cosa si farà, la si metterà da parte, la si lascerà cadere nel dimenticatoio o la si abbandonerà al suo destino, magari sostituendola con un altro traino economico, per esempio lo sport?
Non posso nascondere che questo modo di concepire la Cultura mi lascia perplesso, non mi convince. Non voglio pensare che preserveremo i templi di Agrigento solo fin quando ci saranno turisti che andranno a visitarli, sarebbe come dire che ad un certo punto non preserveremo più l’uomo nella sua interezza. E forse, anche se non ce ne accorgiamo, lo stiamo già facendo...

domenica 27 settembre 2015

Perché e come intitolare un teatro o una piazza: indicazioni generali per il politico di turno.

Trovate qui un mio articolo pubblicato dagli amici della testata iConfronti.it e poi anche dal quotidiano (il cartaceo, grazie al cielo esiste ancora) Cronaca del Salernitano.
Perché e con quale senso dare il nome a un teatro o a una piazza. Una questione salernitana che può essere d'esempio, e di monito, per tanta superficiale politica italiana.

(Devo decidermi a inviare agli amici de I Confronti una mia foto decisamente più allegra, quella che potrete vedere è un momento di uno spettacolo... e non fa certo una simpatica impressione)

venerdì 25 settembre 2015

UNA PICCOLA PERPLESSITA' (merda sulla merda!)

Mi accingo a pubblicare una serie di post importanti, almeno per me. Un testo che scrissi molti anni fa e che non ostante elogi su elogi, non è mai riuscito a trovare un editore...
Ma prima vorrei esporre una piccola perplessità.
Voi saprete - e se non sapete ve ne informo - che un blog registra tutti i contatti, il numero di visualizzazioni, giornaliere, settimanali, mensili... nel complesso e anche post per post.
Ebbene, mentre i vari articoli su Dante, o sulle vicende politiche o sul Teatro registrano bassissime frequentazioni, anche solo due o tre visualizzazioni, l'ultimo pezzo, quello sulla vicenda Colosseo, ha registrato una clamorosa impennata.
Bravo, che bello, dirà qualcuno. Grazie.
Ma io so che un motivo c'è, ed è molto di bassa lega: nel titolo di quel post c'era una parolaccia. Come che sia, questa cosa attira l'attenzione. Un trucco, insomma per indurvi a leggere.
Lo avevo già sperimentato anni fa, quando suggerii a mio padre, per un suo articolo un titolo molto forte, contenente appunto una parolaccia. Pubblicato su quotidiano, si scatenarono un mare di polemiche (per il contenuto, non per la parolaccia...). Ci furono risposte, repliche, ecc.
Non voglio fare alcun commento, non ho risposte e nemmeno morali da fare a nessuno. Questi sono i fatti e mi piaceva comunicarveli perché ognuno di voi possa dedicarvi un pensiero.

sabato 19 settembre 2015

COLOSSEO, LA VERA FIGURA DI MERDA!


Qualche hanno fa ho passato il capodanno a Madrid.
Tappa obbligata, il Museo del Prado.
Pregustavo già l’emozione di vedere dal vivo i tanti dipinti famosi che lì sono, tra questi l’arcinota Maya desnuda del Goya. 
Bene: arrivato al punto in cui la piantina del museo mi diceva esservi il dipinto, questo non c’era. Non c’era! Un cartoncino, al suo posto, spiegava che era stato mandato a una mostra di non so cosa, non so dove...
Io arrivavo da Roma, in fondo, pensai, una passeggiata rispetto ai tanti occhi a mandorla che mi vedevo intorno; forse, un domani, avrei anche potuto ipotizzare di tornare nella capitale spagnola; ma quei compiti signori coreani o giapponesi o malaysiani, quali erano le loro speranze di un secondo viaggio?
Peccato, la Maya avrebbero continuato a vederla nelle ripoduzioni sui libri. Come poi fino a oggi ho fatto anch’io visto che da quel 2008/09 a Madrid non ci sono più tornato. 



Gli occhi a mandorla non so, ma io ero furente per quello che ho considerato un furto; anche altri quadri meno importanti erano stati prestati alla stessa mostra di non so cosa non so dove: un piccolo furto.
Ma siccome sono mostre, “interscambi culturali”, va tutto bene e nessuno si indigna.
A che servono tutte le mostre che si fanno ormai dovunque? Un tempo a fare attività culturale, ormai solo a far soldi muovendo il turismo.
Personalmente, detesto le mostre. Anche perché penso che oggi la gente si muove, dunque perché spostare i quadri quando sono le persone a spostarsi per andare da loro? La risposta è sempre la stessa: soldi.
Ma siccome il motivo è “culturale” che importanza può avere se io e altre migliaia di visitatori arriviamo fino a Madrid, al Prado, e non vi troviamo il suo dipinto più famoso? Nessuna.

Indignazione alle stelle, invece, perché i lavoratori del sito archeologico del Colosseo, chiudono per i paio di ore i cancelli, onde tenere una riunione sindacale regolarmente autorizzata.
Scandalo! Figuraccia internazionale! Deprecabile iniziativa!
Ci si dimentica però di dire che quei lavoratori erano riuniti per decidere quali azioni intraprendere per vedere riconosciuto un loro semplice diritto: pagateci gli straordinari!
Certo, questo per il pensiero comune, per quelli che sono sempre pronti a indicare come fannulloni-profittatori gli altri e mai loro stessi, è decisamente uno scandalo, una cosa vergognosa, schifosa... che è “indelicato” lasciate fuori il povero turista venuto dal Giappone... ma pare che per costoro non sia uno scandalo che una struttura, come ci ha informato a La7 una sindacalista (che poi è una archeologa, quindi del settore), che una struttura che arriva anche a trentamila (TRENTAMILA!) visitatori al giorno, non paghi gli straordinari ai suoi dipendenti, i quali percepiscono stipendi intorno ai 1.200 euro al mese, si sobbarcano turni i più disparati, mattina, pomeriggio, sera, domeniche, festivi, ecc. ecc. con personale sotto organico, con il più famoso monumento del mondo affidato ad appena sette, otto custodi a turno (contro una masse di trentamila visitatori)...
Costa 12 leurini un biglietto per entrare al Colosseo, e 9 leurini quello per fare la visita anche alla zona sotterranea, e poi riduzioni per i gruppi ma costi per prenotazione-gruppi, e le video guide costano 6 leurini, e il ticket on line ti fa saltare la fila ma ti costa anche 2 euro in più di prevendita, quindi 14 leurini tondi tondi...
Ecco, qualcuno mi dice come sia possibile che una struttura che incasserà mediamente intorno ai 200.000 euro al giorno (e mi tengo stretto) non abbia i soldi per pagare gli straordinari ai propri dipendenti? Abbia organico non sufficiente, non preveda nuove assunzioni, e per un restauro debba ricorrere ai soldi di un privato?
E secondo voi, secondo il moralismo idiota imperante, secondo un puritano pensiero per il quale i panni sporchi si lavano in famiglia, lo scandalo sarebbero i lavoratori che si riuniscono due ore in una assemblea assolutamente autorizzata, per decidere cosa fare visto che lavorano e non li pagano?
Ragazzi miei, se la pensate così, siete messi proprio maluccio.

Ho sentito un signore intervistato dire che gli scioperi sono sacrosanti ma andrebbero fatti fuori dall’orario di lavoro. Questo ci dice quanto gli italiani sappiano del loro Stato, dei loro diritti e di come funzionino le cose in una democrazia, perché solo un ignorante cronico può pensare che nella protesta, nella lotta per i diritti dei lavoratori, possa avere un qualche peso una azione che non crea disturbo.
Se l’avessimo pensata come quel signore staremmo ancora alle quattordici ore lavorativa al giorno, e la domenica sarebbe festa solo perché la Chiesa richiede un giorno per santificare il Signore.
A parte che non si trattava di uno sciopero, ma di una assemblea, qui dobbiamo rimetterci tutti in testa una cosa: gli scioperi DEVONO dare fastidio, se non danno fastidio sono inutili, e, soprattutto, lo sciopero di uno, oggi, per la difesa di un diritto, può essere il mio sciopero domani per la difesa dello stesso o di altro diritto.
Non capire che se su questi temi il popolo si divide fa il gioco del potere, gli interessi del potere, è il segno pesantissimo del degrado sociale e civile dei tempi che stiamo vivendo, dove ciascuno pensa, stoltamente, solo al proprio orticello, pensando si potersela cavare da solo, salvo poi, un giorno, ritrovarsi culo a terra e non capire il perché...
La figura di merda, per me, non è nel giapponese che resta fuori (per due ore!), ma nel mostrare, palesemente, di non essere capaci di gestire in modo più che redditizio una vera macchina da soldi e nel tradire i sacrosanti diritti dei lavoratori.
E allora la domanda, stando con Chomsky, resta sempre la stessa: a chi giova questa situazione? La creazione di questi caos e di questi rimbombi mediatici unidirezionali a chi giova?
Un pezzo della risposta è nel video.

Se non lo capite, siete ancora al punto di partenza, e quando domani vi licenzieranno, fatemi il piacere, non venite a rompermi i coglioni, ve lo sarete meritato!


martedì 15 settembre 2015

PURGATORIO DI DANTE, GROTTESCO... COME LA VITA


(ho scritto - per me! - queste poche righe nel novembre 2007. mi pare funzionino ancora)

L’estate scorsa mi sono lanciato in una impresa che ai più, al giorno d’oggi, apparirà folle: leggere il Purgatorio; per essere chiari, la seconda cantica della Commedia dantesca.
Folle perché nei nostri tempi si è un po’ persa l’abitudine di leggere poesia, e sopra tutto di leggere poesia narrativa, come in fondo, ha ragione Borges, è quella del Poema di Dante.
Proprio Borges, la lettura dei suoi Saggi danteschi, mi ha spinto in questa avventura.
Nei Saggi, il poeta argentino invita a leggere quello che definisce il “libro maximo” con l’ingenuo abbandono di un bambino, a leggerlo dimenticando la filosofia scolastica, le discordie tra guelfi e ghibellini o le allusioni mitologiche: “È bene, per lo meno all’inizio – dice – attenersi al racconto”, tutto il resto verrà dopo. 

E allora via, mi son detto, proviamo, proviamo a seguire il consiglio del grande poeta (che forse qualcosa ci capiva). La scelta è caduta sul Purgatorio, perché nella nostra scuola superiore - inutile negarselo - la seconda cantica è la più bistrattata. Gli alunni, e con essi la maggior parte dei professori, sono sistematicamente affascinati dall’Inferno, che sentono più vicino per svariate ragioni. L’Inferno è percepito come fortemente terreno, con le sue punizioni, la sua materialità, con i suoi racconti dolenti di scultorei protagonisti. Ci si sente più vicini all’Inferno perché appare più vicino alla quotidianità.
Il Paradiso è amato o non amato. C’è chi lo trova noioso, per tutte quelle sue schiere celesti e la ripetitività della glorificazione di Dio, o per la sua poesia “eccessivamente” trascendete.
La trascendenza produce sostenitori o oppositori. Così per gli stessi motivi, letti all’incontrario, ci sono gli amanti eternamente fedeli all’ultima cantica, stroncati dalla bellezza e dalla purezza assoluta, di cui Dante tenta (per sua ammissione, ma ci riesce benissimo) di farsi portatore.
Il Purgatorio resta, potremmo giocare a dire, in una sorta di Limbo. I suoi sostenitori sono talmente pochi che il loro numero, in un moderno sondaggio d’opinione, risulterebbe irrilevante.
Gli alunni – poiché di questi, non dei professori, fondamentalmente si parla, dei lettori di domani – non riescono, giustamente, a collocarlo, non vi trovano la violenta fascinazione delle bolge sataniche, né la pura sospensione delle celesti sfere. Forse, quando nel penultimo anno di Liceo ci troviamo di fronte al mistero del Purgatorio, siamo ancora veramente troppo giovani, non per capire, ma per attribuirgli, nell’economia generale, un senso e una collocazione.
Anche io, che pure ho amato La Commedia fin da subito, devo confessare di avere sempre sorvolato sul Purgatorio. Ritenevo, come molti, che la seconda cantica fosse la più noiosa (e, sotto sotto, inutile), e quasi non ricordo di averne mai studiato i canti.

Poi, Borges mi ha offerto una possibilità, indicato una via, e fidandomi di quell’uomo dolce, ho deciso di tentare mettendo in pratica il suo consiglio.
Dunque ho iniziato, e sono andato avanti a leggere nei luoghi più inusuali per una lettura dantesca, dal trenino alla metropolitana, dalla toilette a sotto l’ombrellone. Ho fatto, insomma, quello che avrei fatto con un qualsiasi romanzo: l’ho usato per il semplice piacere della lettura e dell’intrattenimento. Ed ho usato le note a margine solo di tanto in tanto, quando qualche antica parola mi rimaneva oscura, e spesso procedendo anche senza comprendere interi versi, ma fidando sul fatto che il racconto mi avrebbe alla fine “riportato a casa”. Così è stato: Borges aveva perfettamente ragione. E l’impressione è stata talmente soddisfacente da farmi esclamare: “Diamine, ma… il Purgatorio… è comico!”.
Ci sono parti di assoluta purezza poetica, splendide, commoventi, luminose: l’angelo che porta una stella nel volto, il “dolce color d’orïental zaffiro”, il tenero canto di Casella, i bassorilievi sulle balze sempre più strette, i prati e il fiumicello del Paradiso terrestre, la piccola donna al di là del fiume, il colpo al cuore che dà l’improvviso addio di Virgilio o il nome di Dante pronunciato per la prima volta dall’amata Beatrice. L’idea, però, che il Purgatorio sia comico, ha continuato ad abitarmi (come dicono quelli che parlano bene).
Ultimamente ho ripreso in mano la cantica e ho cominciato a rileggere. Inutile dire che a seconda lettura, il fascino ed il piacere crescono, come la panna montata. Ma dov’è la risposta a quella strana sensazione? Dopo circa un anno di pensieri (mentirei se vi dicessi “continuati”) credo di essere arrivato ad una accettabile conclusione.
Avanzando sulle balze della montagna, Dante e Virgilio, vengono regolarmente in contatto con frotte di penitenti che appena si accorgono che Dante è vivo, in carne ed ossa, lo assalgono implorandolo di pregare per loro quando tornerà sulla terra, così che la pena possa andare ad accorciarsi, o chiedendogli di ricordare a un familiare di pregare: ma attenzione, dice qualcuno, non a mia moglie, a quella fedifraga di mia moglie, ma a mia figlia che è una brava ragazza; non a mio fratello, che mi ha tradito, ma a quella santa donna di mia madre, ecc. ecc. Dante appare assillato da tale irruenza. D’improvviso arriva un celeste tutore dell’ordine a “sculacciare” e rimettere tutti sul giusto cammino. La ripetitività della situazione mostra, in fondo, una certa ironia.
L’incontro con Stazio, poi, è al contempo splendido ed esilarante. Il poeta latino, andando verso l’Eden, perché ormai pronto a passare in Paradiso, vede da lontano due ombre. Felice, e sicuro, di vedere altri che godranno della sua stessa sorte, gli corre incontro, ma arrivatogli vicino si blocca e rabbuia, pare divenire un vecchio burbero: chi sono questo due arrivati fin lì? Chi gli ha dato il permesso? Virgilio - che riconosce - non dovrebbe stare in tutt’altro luogo? E quel tipo in carne ed ossa cosa ci fa lì? Ci vuole tutta la pazienza di Virgilio per ripianare la faccenda e far sì che i tre possano continuare serenamente il viaggio insieme.
C’è, nel Purgatorio, una straordinaria ed evidente teatralità, nei cambi di ritmo, negli scambi di battute improvvisi, nei colpi di scena, nelle distese meditazioni, nel mutare della luce, nel corpo stesso dei protagonisti, anche nei silenzi, teatralità che non si rileva, a mio parere, nelle altre cantiche, che godono, invece, della costante ripetitività di un preciso schema narrativo: viaggio-incontro-racconto, viaggio-incontro-racconto… rivelazione finale. Il personaggio di Virgilio, nel Purgatorio, appare di una dolente tenerezza. Dante-autore sembra volerci mostrare quanto il poeta latino, consapevole della propria condizione, avvicinandosi a quella soglia per lui eternamente invalicabile, senta crescere dentro di sé una dolorosa lacerazione. E tuttavia Virgilio ha la fermezza dell’uomo che assolve al suo compito. Virgilio è forse il personaggio più bello del Purgatorio. 

Del Purgatorio, inteso come luogo, sappiamo che, giunti alla fine di tutto, quando tutte le anime saranno pronte per il Giudizio, scomparirà, si disintegrerà, poiché non avrà più ragione di essere. Questa, ho pensato un giorno, è una strana cosa: tutto nella Commedia - è risaputo - si muove ed è strutturato sulla “logica del tre”; ma se tale è il destino della montagna, alla fine (o all’inizio definitivo dell’eternità) sarà tutto ricondotto al due, alla gloria e alla punizione, al bene e al male. Perché? Come può Dante (autore) fare questa affermazione? Io credo che la risposta riguardi il mondo dell’arte, l’assoluto dell’arte e la compiutezza dell’opera in sé. “Dante – dice Borges – non si propone di stabilire la vera o verosimile topografia dell’altro mondo”. Ecco, conta ciò che l’opera ci racconta, non cosa sarà dopo il suo ultimo verso. La storia rientra nell’ambito della finzione, non della Storia. Sarebbe come chiedersi cosa ne sarà del regno di Danimarca dopo la morte di Amleto e dei suoi genitori, o dove finiranno il Signor Ponza e la Signora Frola dopo essere stati costretti ad un confronto per loro disumano, o se a Tara domani sarà davvero un altro giorno: sicuramente lo sarà, ma c’interessa la frase finale non cosa accadrà in seguito, poiché nella finzione non accadrà.  La struttura è sostegno, non fine dell’opera, e se un giorno crollerà, l’opera non ne subirà alcuna conseguenza.
Ancora. Nel Purgatorio, inteso come cantica, c’è un elemento che nelle altre due è assente: il tempo. Questo elemento, così terreno e lontano dall’assoluto presente dell’eternità, è parte fondamentale della vita delle anime che scontando anni ed anni di penitenza, contano i giorni, le ore, i minuti che li separano dalla beatitudine. Non è il tempo ad esistere nel Purgatorio, ma il Purgatorio ad esistere nel tempo. Senza tempo non ci sarebbe Purgatorio. 

Forse, pensando “comico”, in realtà sbagliavo la parola, con una confusione propria dei nostri tempi. Il Purgatorio è umano e terreno, molto più dell’Inferno; e in quanto umano e terreno è definibile, tra gli altri, con un termine che non può appartenere al Paradiso o all’Inferno: grottesco.
Jan Kott dice che “il grottesco è l’impossibilità di compiere la tragedia, in un mondo tragico”. La tragedia abita l’Inferno, la sua assenza, diciamo la beatidune, abita il Paradiso. Ma nel Purgatorio (mi pare evidente, ora) non c’è la dannazione eterna, né il senso antico del lavaggio delle colpe col sangue, né la pace della glorificazione ottenuta. Sappiamo che ci sarà il lieto fine, poiché questo è l’indiscutibile destino delle anime che abitano la montagna, ma quel lieto fine noi non lo vediamo, né mai lo vedremo, poiché l’opera è ferma nel suo assoluto, e questo, non scatenando la tragedia, delinea irrevocabilmente il Dramma.
Il Purgatorio è il dramma dell’Enrico IV pirandelliano (prima che egli stesso decida, contro tutte le regole sociali, di compiere la tragedia): impossibilitato a tornare alla vita normale, ed ancora incapace di segregarsi definitivamente nelle caverne della pazzia.
Per tutto questo, credo, la gioventù ha così tante difficoltà a riconoscersi in quella poesia. Quando ci troviamo di fronte al Purgatorio, siamo ancora troppo puri, inesperti della vita, per sentire tutto il grottesco, e il ridicolo, del dramma che ci circonda.      

(le poche immagini sono tratte dallo spettacolo "Poeta x Poeta - Borges legge Dante", tratto dai "Nove saggi danteschi di Borges", che misi in scena nel 2006, per la regia di Pasquale De Cristofaro, con Igor Canto e Cristina Recupito nel ruolo delle due anime)

lunedì 14 settembre 2015

RIMETTIAMO RADICI? (Due workshop per tornare a respirare)

Permetterete oggi, miei amati 22 lettori, che vi proponga questi due nostri seminari, o workshop, o stage (a voi la scelta del termine che preferite), tenuti da me e da Paolo Zaltron, e racchiusi sotto l'unico titolo "IN-VERSI", 












il primo sulla RECITAZIONE IN VERSI 
il secondo sulla ANALISI DEL TESTO
Due lavori articolati e complessi che si svilupperanno lungo tutto l'arco dell'anno accademico che va ad iniziare. 

E sì, perché oggi è il 14 settembre, le scuole riaprono, vacanze finite, il traffico torna improvvisamente caotico nelle nostre città... e tutti ne rimaniamo sorpresi; inspiegabilmente sorpresi, perché lo sapevamo benissimo che così sarebbe stato, ma avevamo coltivato nel petto la pia illusione (sempre la stessa pia illusione, quella di tutti gli anni) che qualcosa sarebbe cambiato. 
E' il "logorio della vita moderna", notava l'antica pubblicità del carciofone con un rassicurante Ernesto Calindri. Gli anni, anzi i decenni sono passati, e il logorio pare essere sempre il medesimo. E allora, che fare "contro il logorio della vita moderna" (oltre che continuare ad abboffarsi di amaro a base di carciofo)?
Se la situazione è sempre la stessa, probabile che nessuno abbia la risposta; ma forse una proposta, una piccola proposta, una propostina ve la possiamo fare: che ne direste di "RIMETTERE RADICI"? Che ne direste di fare non un tuffo, ma ripiantare decisamente i piedi nella Storia? Di vedere se la frase di Verdi (Giuseppe) "Torniamo all'antico e sarà un progresso" ha ancora un senso? 
Magari acquisire una po' di sicurezza, un minimo di stabilità può rendere più tranquilli. Non è questo che in fondo cerchiamo oggi - tempi disgraziati - tramite il danaro? E non è sempre questo che cercano, ad esempio, coloro che, attraverso la religione o la pratica delle filosofie orientali, tendono, per inverso, a distaccarsi dal danaro? 

Ho sentito spesso usare e interpretare in modo non corretto la frase di Verdi (ragioniamoci un momento così colgo anche occasione per spiegarvi qualche motivo della proposta), quasi che il Peppino volesse dire che il progresso stava nel tornare al piccione viaggiatore. 
Ovvio che non poteva essere così per chi ha cercato per tutta la vita il nuovo, aveva tentato esplorazioni quasi sempre felicemente riuscite, per chi come pochi aveva ed ha attuato innovazioni sovente ancora insuperate. Il Nostro credo intendesse che il nuovo doveva passare per una ricerca del senso profondo, e quindi profondo anche nel tempo. Egli stesso, per la sua rivoluzione, non è andato alla ricerca spasmodica del senso della Parola scenica? Era in qualche modo tornato alle origine, magari inconsapevolmente; e si potrebbe proprio affermare che Verdi era, o quanto meno divenne, più "greco" di quanto egli stesso abbia mai sospettato. 

Migranti, integrazione, globalizzazione... tutte parole che oggi sentiamo ossessivamente ripetere, e alle quali si accompagnano espressioni come "paura del diverso", "paura del nuovo". 
Ma può avere "paura del diverso", "paura del nuovo" chi ha solide radici, chi conosce davvero la propria Storia e la propria cultura, chi sa da dove arriva e perché, e come arrivato fin lì? Non credo. 

Credo che chi ha radici solide, forti, ben affondate nella terra, non ha timore di confrontarsi, anzi porta con sé un bagaglio culturale sempre pronto a confrontarsi, a selezionare e apprendere dall'altro, a offrire in cambio ciò che è nel proprio profondo senza timore alcuno. 

Stando al nostro campo, il Teatro, la situazione oggi è di evidente sbandamento: crisi economica, normative che cambiano di anno in anno, quando non di mese in mese, rivoluzione nel sistema, confronto implacabile con altre modalità e culture, ricerca spasmodica del successo e di quello che "piace al pubblico", necessità di sbarcare il lunario... 
Ancora una volta - e non potrebbe essere diversamente - il peso della transizione cade sulle fragile spalle dell'Attore, o del Cantante, del primo ed essenziale interprete insomma, quello senza il quale "nun se po' fà!". 

A noi, a noi Teatranti, nuovamente l'onere di traghettare il Teatro, nelle sue variegate forme, verso i nuovi tempi. Come affrontare questi cambiamenti? 

La nostra opinione è che qualunque sia la strada da intraprendere, o che intraprenderemo, o nella quale ci ritroveremo quasi senza accorgercene, resta e resterà fondamentale capire chi siamo e da dove veniamo, comprendere quale sarà l'evoluzione possibile in base alle forze a nostra disposizione. Nessun passaggio, nessuna evoluzione sarà mai traumatica se procederà "naturalmente", senza forzature. 
E allora, per affrontare il nuovo che implacabilmente avanza, pensiamo - e ne siamo convinti - che sia il momento di "RIAFFONDARE LE RADICI", e di non dare nulla per scontato credendo che tutti sappiano e siano consapevoli della nostra Storia. 
Un terreno in cui sono piantati alberi con radici forti, difficilmente frana. 

Sono un po' queste le ragioni dei nostri seminari, volti a recuperare, a spiegare, a diffondere ciò che siamo e da dove veniamo: la Recitazione in Versi per tornare a comprendere l'ormai sfuggente valore della Parola e il suo consustanziare nel Corpo e con il Corpo, nel Pensiero e con il Pensiero; l'Analisi del Testo per scendere nell'Inconscio del Testo testo, per "rubare" (come è d'uso in Teatro) ciò di cui il Testo stesso è inconsapevole al pari di una persona seduta sul lettino dello psicanalista. 
Darsi Metodo per affrontare le sfide che certamente ci attendono, liberarsi dagli affanni e tornare a respirare sereni, insieme. 

Non vi invito a partecipare, ma a riflettere. 
Se partecipare, poi, decidetelo voi. 

Tutte le informazioni qui . 

Grazie e... buon traffico a tutti. 





  


venerdì 4 settembre 2015

INVITO ALLA LETTURA

Vi invito alla lettura di questo post.
Credo sia illuminante, esplicativo di certe dinamiche che ci governano tutti.
Alessandro Greco ci racconta con chiarezza, ed anche con una certa verve, come funziona la comunicazione.
Un blog da seguire.
Buona lettura... e buona meditazione.

http://blog.ilgiornale.it/greco/2015/09/01/spin-frame-e-manipolazione/#