giovedì 31 marzo 2016

GLI ITALIANI E L'AUTORAZZISMO

Ieri sera ero, come ogni mercoledì, all'Università Popolare di Torino per la consueta lezione di Inglese.
Ebbene sì, non ostante le mie precedenti dichiarazioni, anche io mi sono arreso alle necessità che dominano il mondo contemporaneo.
Con scarsi risultati, devo ammetterlo, e ho il sospetto che tale inconcludenza sia comunque il frutto di un inconscio e imperituro rifiuto, perché tanto, è una lingua che non riesco a comprendere. Non la capisco - che posso farci?! - non nelle frasi o nelle parole, questo è ovvio, ché quelle basta studiarle, memorizzarle e si va avanti, ma nel suo senso. Tanto per farvi sorridere e fare un esempio, non capirò mai perché nel verbo "Avere" (To Have), al cambio della terza persona singolare (I have, you have, he - she - it HAS), non corrisponde uno stesso cambio alla terza plurale (we have, you have, they HAVE). Vi sembrerò folle, ma memorizzarlo così, mi è decisamente più difficile.
Il luogo comune è: "L'inglese è facile". Mi rassicurano sempre tutte le insegnanti che ho incontrato: "L'inglese non è facile". E certo: nessuna lingua è facile, non esiste una lingua facile. Facile può essere solo il modo di comunicare "perché tanto ci si capisce", e allora questo vale per qualsiasi lingua.
Ma il luogo comune è un mostro durissimo da sconfiggere, una sorta di terremoto inarrestabile dal quale è quasi impossibile salvarsi, e se è vero - e io credo che sia vero - come dice il dott, Freccero che "tutti, cinque minuti al giorno siamo fascisti", è per me altrettanto vero che tutti, almeno tre minuti al giorno, siamo "luogocomunisti" (e si ringrazia Alberto Bagnai per la deliziosa definizione).
Il che mi porta anche a pensare che tra luogocomunisti e fascisti ci sia una relazione più stretta di quanto pensiamo.

Accade dunque che durante la lezione, la simpatica insegnante si sofferma qualche minuto a fare un po' do conversazione (o "conversation" come dicono loro), e ci parla di un suo viaggio pasquale a Francoforte, e ci invita a comporre delle domande, in inglese ovviamente.
Alla domanda su quali siano i luoghi culturali che ha visitato, io già penso che a Francoforte mi sa che c'è poco da vedere. E infatti ella risponde che la cosa interessante erano i tanti paesini antichi che sono poco distanti dalla città.
Tralasciamo che per "poco distanti" intendeva, come ha poi specificato, 140 - 190 km. Per me, che sono salernitano, un borgo interessante è Cava de' Tirreni, 5 chilometri da Salerno...
La cosa che l'aveva più colpita erano... le decorazioni pasquali. Ammazza quante antichità!
E le mura delle cittadine. XIV, XV, XVI secolo. Ammazza quanta arte!
E io che stavo ancora fermo alle chiese e ai dipinti.
E soprattutto, ha detto, era stupefatta perché c'erano per le strade tante uova dipinte a mano (non si è capito messe dove, o forse non l'ho capito io visto che lo diceva in english), e nessuna di queste uova era rotta! Ammazza che annotazione!

Ed ovviamente, a questo punto, con il supporto della platea, è partito il solito panegirico sulla civiltà tedesca e la totale inciviltà italiana, che ha i suoi corposi riflessi anche nella nordica Torino, dove al tempo delle Olimpiadi avevano messo delle fioriere lungo il LungoPo e dopo qualche giorno le avevano trovate rotte o non le avevano trovate proprio più. E poi come erano carini questi paesini, che le porte avevano chiavi semplici perché non c'erano ladri, e che tutto era ordinato e pulito e...
Ammazza, ho pensato, Torino è come Napoli; o come Napoli viene raccontata, perché io, nei giorni del G7 partenopeo, non ho visto un solo spillo sparire e il capoluogo campano pareva... la solita Svizzera.
Ma a questo punto la platea degli allievi si è scatenata: altra civiltà, peccato per il clima altrimenti sarebbe un paradiso, da noi sarebbe impossibile, il chiosco dei giornali senza edicolante dove tutti lasciano i soldi, da noi non si può fare, la fortuna è che lì ci sono i tedeschi...

Su "la fortuna è che lì ci sono i tedeschi", ho sentito di intervenire, ma qualcosa mi ha frenato.
Avrei voluto chiedergli se li hanno mai osservati per bene i Sàssoni in vacanza, quando vengono da noi, quando pensano che in questo Paese si possa fare quello che si vuole, e fanno quello che vogliono anche se i vigili urbani li richiamano all'ordine, quando si siedono fuori ai bar con le camicie aperte e loro pance orrende gonfie di birra a tracannare boccali di "pane liquido" anche da 1 litro; quando fanno foto dove gli viene chiaramente detto che non è consentito, e via dicendo... e facendo.
Ma, francamente, non era e non è la denigrazione del popolo tedesco ad interessarmi.
Quello che mi colpiva profondamente era il peggior sentimento da cui un popolo possa essere attraversato, sentimento del quale, essendo meridionale, mi sento un valente esperto: l'autorazzismo!

La facilità con cui quegli italiani intorno a me parlavano male degli italiani era sconcertante, senza nessun appello, senza alcuna scusante, senza un briciolo di motivazioni o comprensioni.
Noi siamo una razza inferiore e per questo dobbiamo soffrire!
La civiltà è al Nord.

Ora, sentire dei polentoni che parlano così di loro stessi, da meridionale che per anni ha sentito queste cose, avrebbe dovuto farmi gongolare, ma siccome voglio bene al mio Paese, soprattutto nelle sue mille diversità, che spero siano sempre sostenute ed evidenziate, poiché sono la sua vera ricchezza, ero incazzato nero! Ho chiuso il quaderno e ho cortesemente e silenziosamente salutato.

Questa nostra Italia, io credo, è una fantastica nazione con un fantastico popolo. Popolo però malato di due mali quasi incurabili: il concetto del "Io mi faccio i fatti miei" e, appunto, l'autorazzismo.
Autorazzismo che, badate bene, non si rivolge a noi italiani nel complesso, ma sempre da italiano che è sicuro di essere civile, ad altri italiani che lui è sicuro siano incivili.
Certo, perché una delle meravigliose nostre caratteristiche è sempre quella di puntare il dito verso gli altri, io che parlo sono sempre escluso dal discorso, quasi che "io sono italiano, ma gli incivili sono gli italiani, non io", e dunque il gioco è perfetto: io posso sempre parlare.
Se poco poco qualcuno di quegli allievi italiani si fosse reso conto che parlando "degli italiani" parlava di se stesso, sarebbe scattato, automatico, l' "io no, io sono civile!".
E se gli avessi fatto notare che tra cinquanta allievi nessuno diceva di sé di essere incivile, allora chi erano gli incivili, ovviamente avrebbero risposto: quelli al di fuori di quel contesto, gli altri.
Ché alla fine, tradotto, "gli altri" significava comunque "gli italiani".

Insomma, un circolo vizioso dal quale non si esce. Ecco perché poi ho preferito non parlare e andarmene, per non alimentare una inutile discussione, che, così come quelle menti erano pienamente invase dal luogocomunismo, so bene si sarebbe spostata, a poco a poco, su altri luogocomunismi.

Ieri sera, ho toccato con mano quanto il potere dei media che parlano sempre di noi come di un popolo inetto, sia potente e abbia devastato le nostre menti e le nostre anime. Inutile dimostrare con numeri e fatti che non è così, che abbiamo i nostri meriti, indiscutibili, le nostre qualità, lo sport nazionale preferito non è il calcio, ma l'autorazzismo.

È che io sono preoccupato, questa storia dell'autorazzismo l'ho già vista, l'ho vista nella mia terra e sentita tante volte quando da bambino sentivo parlare della civiltà del Nord come di una chimera inafferrabile, di un mito da emulare. E so come è andata a finire.
La Storia si ripete, perché se ne vogliono ignorare i meccanismi. E come un main-stream asservito ci raccontò la favola del Nord Italia bello ed efficiente, così oggi ci racconta quella del nord europa bello ed efficiente. E noi, supinamente, cosa facciamo? Ripetiamo il racconto che ci fanno, credendoci, credendoci a più non posso. Ripetiamo le parole che ascoltiamo, allo stesso modo in cui un bambino pronuncia la parola "mamma" automaticamente nella lingua che sente dal momento della sua venuta al mondo. Noi parliamo la lingua che ascoltiamo. E ormai ripetiamo il racconto che ascoltiamo, senza porci il minimo dubbio.
Ma senza dubbi, non si va da nessuna parte. O meglio, si va lì dove il "potere" ha deciso di mandarci: nella notte più nera.

martedì 29 marzo 2016

LA DIFFERENZA TRA IL DILETTANTE E IL PROFESSIONISTA

Capita che gli allievi mi facciano questa semplice domanda: "Prof, ma qual è la differenza tra un professionista e un dilettante?".
Sembra ovvia domanda e invece non lo è, soprattutto in questi tempi che il professionismo, data la costante deflazione salariale, vive un momento di possente annacquamento.
C'è ancora, in conseguenza della domanda e della considerazione sui tempi, la possibilità di distinguere tra un professionista e un amatoriale?
A mio parere c'è, ed è anche abbastanza semplice, semplice al punto che avendola sempre data per scontata, nessuno si è mai preso la briga di metterla "nero su bianco", cosa che non basterà, ma per lo meno ci fa da direttrice.

La differenza tra un dilettante ed un professionista è nella costante ricerca della precisione. 

Semplice, vero? E non solo è semplice, ma adesso che questa definizione ve la trovate sotto gli occhi, scommetto che state pensando che è applicabile a qualsiasi lavoro: vale per il dentista quanto per il gommista, per il giornalista e l'avvocato, come per il muratore e lo stagnino. Giusto, vi dico, è proprio così! Pare poco, ma è tutto lì.

Attenzione solo a una cosa: costante ricerca della precisione.
E sì, perché il vero professionista non può che tendere natural-mente e costante-mente alla precisione ben sapendo che essa, come la Verità, è in realtà inafferrabile.

Eppure egli vi tende, la ricerca giorno dopo giorno, ora dopo ora, perché non può fare altrimenti: è il suo piacere e la sua condanna.
Credere di potere essere assoluta-mente precisi è delirio di onnipotenza.
Nelle pieghe, invece, della costante ricerca/sconfitta c'è l'umanità, con i suoi aneliti e le sue cadute, e la sua voglia di rialzarsi o di continuare ad alzare il tiro, la capacità di capire quando insistere e anche quando bisogna lasciare andare.
Chi non ricerca la precisione, non è un professionista.

È tutto qui, credetemi, non c'è altro.

venerdì 25 marzo 2016

DAL SUD UNA RICETTA (forse piccola) ANTI-RADICALISMO

Provate a passeggiare per Spaccanapoli nella pausa pranzo. Vedrete decine di ragazzi che escono dall'Università, che sia la Federico II o L'Orientale, i quali girano con una fumante pizza tra le mani, o un sacchetto di "panzarotti", una frittatina di maccheroni, o una pizza fritta.
È il cibo da strada di Napoli, quello di praticamente sempre, quello della tradizione.
Kebab in giro non se ne vedono.
Nessuna guerra etnico religiosa. Semplicemente i ragazzi napoletani preferiscono le cose di casa loro. Stessa scena potrete osservare per le vie di Palermo o di Catania, tra "pane e panelle" e arancini/e.

Per motivi lavorativi mi è capitato di vivere a Napoli per mesi interi. Non ricordo di aver visto un ristorante giapponese. Ce ne saranno, ma non con la stessa densità di Milano o Torino, e i cinesi sono in penoso disuso.
Il kebabbaro al Sud non attacca, e all'egiziano conviene imparare a fare la pizza piuttosto che provare a vendere falafel. E se poi frequentate i social, vi sarà certo capitato di vedere quei video dove vispi bambini di colore cantano e ballano al ritmo di antiche canzoni napoletane, chiedendo l'elemosina, mentre il papà suona spericolatamente il bongo.

In questa faccenda del radicalismo e del terrorismo islamico ci sono molte cose da dire, tante considerazioni e riflessioni da fare, ma forse il Sud può insegnarci qualcosa di pratico e diretto.
Avere radici estremamente forti ti evita di essere assorbito dalle "abitudini" altrui; tende anzi a costringere l'altro ad adattarsi alle tue abitudini.
Ai giovani di Napoli o di Palermo piace il kebab, ma se devono scegliere tra una pizza "piegata a libretto" e un kebab, scelgono la cara vecchia pizza.
Certo, nel nostro Sud le condizioni economiche non invogliano il migrante a fermarsi, e la condivisione di povertà crea situazioni di coesistenza meno cruente, ma a questo si affianca di sicuro una forza delle tradizioni che non ti fa avere paura del diverso. Se sono, insomma, sicuro di me stesso, della mia storia, della mia terra, delle mie tradizioni, da un lato non provo attrazione per il diverso, dall'altro è il diverso che è costretto ad adattarsi a me, evitando di creare comunità parallele.

In tal senso possiamo rilevare che il nascere, crescere e prosperare di quartieri ghetto, o di comunità che quasi si autogestiscono, ha di sicuro un punto di contatto con la perdita della propria cultura e della propria identità. Chi ha radici più forti resiste meglio all'impatto con la tempesta, chi non le ha... beh, comincia a vivere nella costante paura anche perché non sa più quali siano i suoi punti di riferimento.

E a questo punto sorge la domanda: l'Europa è - o era - un posto fantastico proprio perché ricco di migliaia di diversità fortemente radicate nei loro territori, siamo proprio sicuri che la perdita delle radici in nome di un sogno di unificazione costruito sulla perdita delle radici ci porti nella giusta direzione?
Fino ad oggi ci hanno indicato come modelli di integrazione i grandi processi inclusivi del Nord: Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio... e ad oggi appare evidente che questi modelli si siano rivelati tutti fallimentari.
E se dessimo una occhiatina al Sud?









venerdì 18 marzo 2016

CIRINNÀ: AMORE NON È FEDELTÀ (in quanto amore non la contiene)

Se ne parla, se ne parla, e poi... il silenzio.
La cronaca procede come una valanga, come... a rolling stones.
Prendiamoci tre minuti per pensare e torniamo un momento indietro. Alla legge Cirinnà, anzi al prosieguo della Cirinnà, della quale si è accennato, lasciando poi morire (chissà quanto volutamente) la discussione.
La Sen. Cirinnà di questo nuovo ddl è solo una delle firmatarie. La nuova proposta di legge porta il nome della Sen. Cantini. E riguarda l'obbligo di fedeltà nel matrimonio.
La faccenda si liquida con: "una roba superata...".
Se la si prende alla leggera, è una roba superata da sempre, la storia del mondo è abbuffata di corna e controcorna.
Lo si potrebbe pensare come un retaggio cattolico, ma in realtà se provate ad andare a un tribunale ecclesiastico chiedendo l'annullamento per il vostro lui o la vostra lei vi sono stati infedeli, la richiesta verrà respinta. Il caso, non è contemplato.
È il Codice Civile, invece, a farne materia di separazione. E qui, come spesso accade, si potrebbe facilmente commentare che i preti stanno più avanti di noi.

Qual è, dunque, questo effettivo valore della parola fedeltà, possibile che essa sia limitata solo a una questione sessuale?
Nel 1967, Giuseppe Patroni Griffi, dava alle scene la sua più importante commedia, "Metti, una sera a cena". In essa, il protagonista diceva che "amore non è fedeltà, in quanto amore non la contiene", sembrava un concetto, all'epoca, rivoluzionario, che scandalizzava, ma in realtà vecchio come il mondo.
In un meraviglioso romanzo del 1985, forse il più importante romanzo del secondo '900, o quanto meno il più importante sull'argomento "Amore", "Natura morta con picchio", lo scrittore americano Tom Robbins, ribadisce un concetto di cui forse ci siamo dimenticati: "In principio era la parola, e la parola era: scelta". "Scelta", non "fedeltà", e anche se qualcuno potrà obiettare che le due cose sono una dentro l'altra, non è propriamente così. Ce lo insegna la vita.

Allora qual è questo valore di "fedeltà" che si vuole cancellare, possibile che sia solo quello sessuale? Francamente è un po' pochino.
Probabile che quando parliamo di Fedeltà, parliamo di condivisione di un "progetto", di adesione a un percorso comune, di accettazione di mutuo sostegno, di idea comune sul come educare i figli, o come condursi nella vita? Parliamo, insomma, di concorde adesione a una "filosofia" di conduzione della vita sulla quale basare quella nostra primaria cellula sociale che è la famiglia?
Famiglia come base della società, per la costruzione e conduzione della quale si condividono sentimenti e concetti di base.
Se la guardiamo così, sarà più grave un caso di corna, o, ad esempio, la decisione di uno dei due coniugi di abbandonare il concordato progetto di educazione dei figli? Farli o non farli battezzare, mandarli o non all'università, mettere o non mettere a disposizione i risparmi per aiutarli a comprare casa, assisterli o non assisterli nella malattia...
Le corna passano, nel dolore o nell'indifferenza sono sempre passate, è la storia dell'uomo a dircelo; il tradimento del sentire comune, del progetto di piccola società comune, è una ferità che difficilmente si rimargina. Anche questo ce lo dice la storia del mondo, e nostra, di singoli, quando - ancora un esempio - vi sentite rinfacciare, magari dopo dieci anni, che "quella volta tu non hai voluto...".

A questo punto, andiamo a concludere, e rifacciamoci la domanda: possibile che quel valore di fedeltà che si vuole cancellare riguardi solo la sfera sessuale?
Io farei attenzione. Perché se si cancella questo valore - come se poi si potesse farlo, per legge, di cancellare un valore di una comunità, e questo è un altro punto che dovrebbe mettervi in sospetto - si instilla una idea che dalla famiglia, nucleo fondante della nostra società, tracima e investe certamente spazi molto più ampi.
Una famiglia è una piccola società. Uno Stato è una grande famiglia. Se cade il concetto di fedeltà (ribadisco, non quella sessuale) all'interno del nucleo fondante la nostra società, cade il concetto di fedeltà all'interno di uno Stato? Se svanisce il vincolo di fedeltà al progetto famiglia tra due coniugi, avrà poi senso il vincolo di fedeltà ad uno Stato tra gli stessi cittadini, visto che, lo dimentichiamo troppo spesso, sono loro, siamo noi lo Stato?

È palesemente in atto un attacco allo Stato Sociale costruito con fatica negli ultimi secoli, e in Italia sopra tutto dopo la II guerra mondiale. È pensabile, ipotizzabile, considerabile che la cancellazione del vincolo di fedeltà faccia, molto più nel profondo di quanto crediamo, parte di questo attacco, che sia una cancellazione che agisca nell'inconscio collettivo?
Famiglia: nucleo fondante della Società. Società e Sociale, mi pare abbiano etimologicamente la stessa radice.  

giovedì 17 marzo 2016

STACCARSI AFFETTIVAMENTE, LA SFIDA DEL FUTURO

Abbiamo maledettamente bisogno di ragionare. Ma sopra tutto abbiamo maledettamente bisogno di coraggio, coraggio di abbandonare le nostre idee lì dove ci sia palesemente la riprova che esse non hanno più valore. O che sono sbagliate, o che ci porteranno al disastro.
E credo abbia ragione il giornalista Marcello Foa quando dice che chi in questi anni ha capito non è un genio, e non ha una qualità superiore che agli altri manca, ma semplicemente ha la capacità (propria degli adulti, aggiungo io) di staccarsi AFFETTIVAMENTE dal proprio gruppo di appartenenza.

Siamo in un periodo difficile, difficilissimo, complicato e dal quale, come bene o male avviene in ogni cambi di secolo, dipenderà il futuro.
Il nemico con il quale ci troviamo a combattere usa armi che non vediamo, agisce, prima che su ogni altra cosa, sulle nostre menti, ci racconta attraverso maledette pubblicità che è bello avere "la possibilità di non scegliere".
Ma l'uomo che non sceglie non è uomo, è una orrenda bestia che abdica a se stesso per non discernere più tra il Bene e il Male.

Ora la battaglia è qui, sotto i vostri occhi, il campo di battaglia lo vedete e non potete più dire di non vederlo, e in verità non si ha nemmeno più voglia di indicarvelo.
Non sarà un Paese civile quello dove si raccolgono la cacche dei cani, sarà civile il Paese che si occuperà della cura dei propri vecchi.
Non sarà civile quel Paese dove tutti pagano il biglietto del tram, sarà civile quel Paese dove a tutti saranno garantiti i tram.
Non sarà un Paese civile quello dove agiscono i volontari, ma sarà civile il Paese dove non ci sono volontari perché lo Stato fa quello che deve senza bisogno di volontari.
Non sarà civile il Paese che cura gli animali in pronto soccorso, ma quello che assicura la cura a tutti i suoi figli in pronto soccorso.
Non sarà civile il Paese dove tutti possono comprare un pane, ma quello che assicura pane di buona qualità a tutti.
Non sarà civile il Paese dove tutti possono "esprimersi", ma quello dove la parola di ognuno avrà chi la ascolta.
Non sarà civile il Paese dove si fa ben bene "il conto della serva", ma quello dove i conti si fanno solo per il bene di tutti.
... ... ...

Ora, è giunto il momento che ciascuno di voi scelga se divenire adulti lasciandosi alle spalle gli antichi legami affettivi, avendo il coraggio di virare, o rimanere ancorati a battaglie che non ci sono più e che solo l'illusione mediatica/virtuale vi pone sotto gli occhi.
Non è la verità della finzione quella che state guardando, è falsità. E nella falsità non c'è nessuna verità, mentre ce n'è, rifratta, nella finzione.

Staccare il cordone e prendere consapevolezza, o rimanere agganciati al passato?
Scegliere, prego.



mercoledì 16 marzo 2016

BOLDRINI, MIGRANTI, VENDOLA: LA COERENZA DELLA LOGICA POLITICA

Le cose che dico, qui per iscritto, sui social, ma più a voce, di persona, a molti miei amici non piacciono. Spesso mi accorgo che non le capiscono.
Ormai ci ho fatto il callo, ma insisto, approfittando forse troppo del loro affetto. Sta di fatto che di tanto in tanto, all'orizzonte, vedo qualcuno che mi fa capire di avere cambiato idea e di essere d'accordo con me. Deve essere anche per questo che mi sopportano. E probabilmente anche perché sentono nel mio modo di esprimersi una sincera passione e mai una convenienza.
È questione genetica: non riesco a dire cose per convenienza, e anche quando ci provo, come mi disse anni fa un bravo aiuto regista "si sente che friggi a venti km di distanza". In pratica sono negato.
Deve anche essere per questo se in questo mondo di leccaculi ho raccolto meno di quanto avrei potuto. Non parlo di ciò che meritavo, ma solo di quello che avrei potuto. Ma va bene così.

Ultimamente ha fatto parecchio discutere un tweet del Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, sulla questione migranti collegata alla questione demografica nel nostro Paese.
Scrive la Boldrini:
"Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di migranti ogni anno".
Che su questo messaggio si scatenasse il putiferio era facile prevederlo, e ovviamente ha cominciato la Lega salviniana, con osservazioni che come al solito sono anche giuste nell'ottica del buon senso comune, ma sempre come al solito, espresse in modi e toni che aggregheranno anche l'elettorato leghista, ma continuano ad allontanare il resto degli aventi diritto al voto, tranne che questi non siano giunti a un punto di esasperazione. Ma non voglio entrare in questo, problemi della Lega.
Certo mi faceva molto ridere, un paio di sere dopo, ascoltare dalla Gruber ad "Otto e mezzo" il Presidente della Camera dire esattamente le stesse cose, sulla gestione dei flussi, che dice Salvini, ovviamente davanti al sorriso compiaciuto della conduttrice che, se si fosse trovata davanti il segretario della Lega, avrebbe invece ringhiato come un mastino messo a guardia di una villa di notte.
Il perché lo sa solo Dio. Ma siccome credo che noi siamo a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che lo sappiamo anche noi. La differenza tra noi e Dio è che Lui è eternamente solo e non ha dunque bisogno di comunicarlo, gli basta pensarlo; noi, se non ce lo diciamo, non avremo la certezza di avere compreso.  È il nostro destino: avere perennemente bisogno di uno specchio per avere la certezza di esistere. E fondamentalmente il nostro specchio sono le nostre parole che altri possono ascoltare. In sostanza gli altri. In sostanza il Teatro. E questo deve essere stato uno dei basilari motivi per cui sentimmo la necessità di farlo.

La cosa però interessante di quel tweet è a mio avviso un'altra.
Ci si aspetterebbe, da un politico, che difronte a un problema così grave come la natalità zero, si interroghi sulle cause del problema e proponga risoluzioni.
Certo, il presidente della Camera dei Deputati, una soluzione ce la fornisce. E visto il partito in cui è stata eletta, SEL, non mi pare possa essere diverso da quello che propone.
Vi aspettereste che parli di politiche per la famiglia, di asili nido gratuiti, di assegni familiari raddoppiati o triplicati, di incentivare le nascite attraverso, insomma, tutte quelle cose che in quei Paesi che vengono definiti civili (sottintendendo sempre che noi non lo siamo), e definiti civili "da loro", da quella parte politica, che ha costruito la propria fortuna politica sulla denigrazione dell'Italia e degli Italiani (non l'ho certo inventata io la "questione morale"), che in quei Paesi definiti civili si fanno. Un semplicissimo esempio: la Francia. E invece no.
Gli asili nido gratuiti li propone la Lega. La Boldrini propone di importare soggetti che figlino al posto nostro.
Mi piacerebbe sapere il perché. Gli Italiani, forse non sono più in grado di farsi una sana trombata? Non mi pare. E allora?
È questione di filosofie, e come al solito "tutto si tiene".
E così mi è tornata in mente la storia spiacevole di Niki Vendola, quella del bambino avuto attraverso la pratica della "maternità surrogata".
Parrà strano, ma se osservate bene, in entrambi i casi la risoluzione è semplice: non si possono avere figli? Nessun problema, chiamiamo qualcuno che ce li faccia.

Se la famiglia è il nucleo base della nostra società, e quindi della nostra nazione, allora il salto mentale è possibile: una famiglia si fa fare il figlio da un'altra, una nazione si fa fare figli da altri.
Dov'è il problema?
Nessuno, ribadisco, salvo che non si giunga, per rimanere nella somatica nostrana, a selezionare i migranti che dovrebbero figliare per noi. Bene i sud americani, i magrebini (che in fondo possono essere scambiati per meridionali), i greci (che ormai sono alla disperazione più dei migranti che gli arrivano) pure loro vanno bene...
Certo, nei tratti diverremo un po' meridionalizzati, ma potremo passare tutti per italiani. D'altronde, siamo o non siamo il popolo delle mille e una invasioni?

Ecco, caro Presidente della Camera Laura Boldrini, cosa è, secondo me, che non va nella sua affermazione. Ma comprendo che è pienamente coerente con la politica del partito in cui è stata eletta e che l'ha portata alla Terza carica dello Stato.
Poteva, Lei, tradire i suoi sodali?

venerdì 11 marzo 2016

TRISTEZZA ED INCUBI DEI NOSTRI GIOVANI

Sono profondamente rattristato. Vivo molto, negli ultimi tempi, in mezzo ai giovani, anzi ai giovanissimi: 17, 18, 19 anni al massimo.
Me li ritrovo spesso, la mattina, con le facce stanche, segnate.
Quando gli chiedo cos'hai, mi rispondono mestamente: "Prof, sono preoccupato, non so so cosa fare all'Università. Vorrei scegliere la facoltà XXX, ma poi non capisco se troverò lavoro. E allora stavo pensando alla facoltà XXX... però non è che mi piaccia molto... però c'è più possibilità".
Oppure vengono da me e mi chiedono: "Voglio andare all'estero, lei dove crede sia meglio?".

Sono stato, giorni fa, da una brava dottoressa, un medico antroposofico, così mi ha detto che si chiama la loro corrente, un tipo di medicina legato alla nostra base, occidentale, ma che contempla l'uomo nella sua totalità: corpo e anima (spero di aver sintetizzato bene).
Oltre a visitarmi nel modo consueto, auscultazione, pressione, ecc. mi ha fatto un sacco di domande. Tra cui: "Cosa pensava a 18 anni?".
Ho potuto rispondere la sola cosa che veramente mi è venuta in mente, con un sorriso pieno: "Sognavo! Sognavo di diventare un attore, un cantante lirico. Amavo il teatro (e lo amo ancora, grazie a Dio), la letteratura, la musica, studiavo pianoforte... insomma, sognavo...".
Ma a quel punto, dopo il sorriso, un velo di tristezza ha attraversato il mio cuore, pensando ai miei ragazzi, ai miei ragazzi che a 17 anni non dormono la notte perché non sanno decidere quale università scegliere per avere la certezza di trovare un lavoro, o che già pensano che dovranno emigrare, e ho condiviso con lei il pensiero: "Ecco, vede dottoressa, trovo disumano, schifoso che un ragazzo, in quella stessa età in cui io "sognavo", debba essere costretto a pensare di regolare la propria vita sulla base di una futura sopravvivenza, che debba castrare i propri sogni, il proprio animo, i propri desideri per un bieco motivo economico. È indecente, indegno. A diciotto anni, si dovrebbe poter sognare, come abbiamo fatto io e lei, si dovrebbe poter immaginarsi la vita come una possibilità, non come una castrazione. La vita, poi, si rivelerà dura, difficile, piena di trappole; ma se non puoi sognarla a diciotto anni, quando lo vuoi fare? Come trovo orrendo che a trent'anni uno debba pensare alla pensione. Quando sei nel massimo delle tue potenzialità, fisiche e mentali, devi metterti lì a pensare alla pensione. Ma a trent'anni le tue energie dovrebbero essere tutte rivolte alla realizzazione piena dei tuoi sogni, a giocarti tutte le tue carte, a concretizzare i sogni che avevi da ragazzo, non stare lì a pensare alla pensione, e quindi alla vecchiaia, e quindi alla morte... È una cosa vergognosa".
La dottoressa ha annuito, molto seriamente, e ha detto solo un mesto: "È vero. È una vergogna".

Ripenso alla mia giovinezza, alla spensieratezza con cui inseguivo appassionatamente e tenacemente i miei sogni, al tempo in cui profondevo energie, sudore, fatica per realizzare i miei desideri, e mi accorgo che non dipendeva solo da me, dalla mia voglia e dalla mia tenacia: il mondo è troppo forte e troppo grande perché un uomo da solo possa vincere la propria battaglia contro tutta la potenza di un intero mondo. Dire ai giovani che realizzeranno le loro aspettative solo se si impegneranno, è una bastarda mistificazione delle cose e della realtà.
Gli obiettivi che ho raggiunto li ho toccati perché c'erano intorno a me anche delle condizioni pensate perché ognuno di noi potesse provarci, potesse dedicarsi anima e corpo alla propria realizzazione, il sistema sociale, nel frattempo, ti garantiva la dignità minima di sopravvivenza.
Distruggendo, colpo dopo colpo, il sistema sociale che i nostri padri avevano creato, abbiamo tra le altra cose, distrutto la capacità dei giovani di sognare.
E badate bene, quando dico "sognare", non voglio intendere "fantasticare", che è una attività fine a se stessa, ma "immaginare". È diverso. Perché l' immaginare è basato sulla "immagine", e l'immagine è strettamente legata alla realtà: ipotizzi un futuro, sulla base di una immagine, quindi di un qualcosa che già hai visto, che è già nei tuoi occhi.
Dunque quel sognare di cui parlo, non è una attività priva di concretezza, ma assolutamente legata al reale e alle sue prospettive di sviluppo.
Quello che abbiamo tolto dunque ai giovani, creando le crisi che ci stanno portando al disastro, è la possibilità di immaginare il nostro futuro concreto, reale, possibile, che si sviluppa su di una linea progressiva tangibile e fattibile.
Garantendo a tutti la possibilità di sognare il proprio futuro, avremo assicurato il futuro di tutti, e ci sarà sempre la possibilità che un singolo, un filino più visionario degli altri, riesca a immaginare quel qualcosa che in un piccolo scarto dal possibile spinga il futuro in un nuovo spazio non ancora immaginato.
Se costringiamo i giovani nella logica del "studia per lavorare", avremo castrato i noi stessi di domani.
Molti di questi giovani, moltissimi, ve l'ho detto, pensano già all'emigrazione (e non si sono nemmeno ancora diplomati). Il migrante forzato è persona in stato di necessità, difficilmente potrà immaginare quel "piccolo scarto".
E c'è una cosa che questi giovani non riescono a capire: perché NOI non siamo partiti.
Un giorno una ragazza mi ha chiesto: "Ma... prof, perché lei non è andato via?".
"Perché trenta e più anni fa, quando io ho cominciato, non ce n'era nessuna necessità. Le opportunità erano qui, non fuori. Qui c'erano i grandi registi, i grandi spettacoli, il cinema buono, il lavoro, la musica... qui c'erano le possibilità. Erano gli altri che venivano qui. Perché dovevo andarmene, se le opportunità erano in Italia?".
Guardandomi profondamente esterrefatta ha esclamato solo: "Ma davvero?!"

venerdì 4 marzo 2016

LA DISTRUZIONE DELLA MEMORIA TEATRALE: TEATRO DEL CONSUMATORE, TEATRO DEL CITTADINO. (i bandi degli stabili per indigeni)

Rilevo ci sono molti colleghi perplessi di fronte ad una serie di bandi di concorso emessi dai teatri stabili (se ancora si chiamano così...) italiani.
Nei bandi si legge praticamente sempre che sono rivolti ad attori residenti o nati in regione.
Tale regola aveva avuta una sua precedente sperimentazione con la istituzione delle Film Commission.
Qualcuno contento c'era subito stato, ed erano i "quasi amatoriali" o gli amatoriali/dilettanti puri, i quali potevano vedersi proiettati nella fiction televisiva standosene comodamente a casa e continuando a fare il loro lavoro vero, quello che gli dà il sostentamento ordinario. Certo che erano contenti: il passaggio televisivo, sia pure breve, gli consentiva di essere riconosciuti dalla dirimpettaia di pianerottolo come "attori", e allargando la loro piccola fama locale ampliava il loro mercato, sempre rimanendo comodamente a casa.
Gli attori veri sentirono subito puzza di bruciato.
Anche perché, da quello che possiamo comodamente rilevare tutti, agli indigeni erano destinati regolarmente i ruoli di contorno. I protagonisti, quelli grossi, veri, regolarmente arrivavano da fuori, erano scritturati su parte e molto spesso senza nemmeno passare da provino.
Qualcosa, capimmo subito, che non funzionava. La regola era fatta, immediatamente aggirata o scavalcata da relativo codicillo interno, e le opportunità di lavoro per i professionisti diminuivano.

La nuova normativa per i teatri sta creando le medesime condizioni lavorative.

Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di male. Ebbene, al di là delle opportunità che diminuiscono (ed è ovvio, perché l'offerta ti si restringe su base regionale), la cosa più grave è la concezione che si ha e si deve avere del Teatro.
Teatro che nella nostra secolare tradizione è sempre stato "di giro", composto di Compagnie che andavano di città in città, di provincia in provincia, di regione in regione. Noi (altro che Schengen, non avevamo alcun bisogno di Schengen, che fosse Italia o fosse estero) eravamo naturalmente senza confini, e la nostra casa, la nostra patria era solo il palcoscenico, tutto qui. Dove c'era un palco eravamo a casa. Perché, oltre tutto, avevano sempre saputo che per fare Il Teatro, avremmo dovuto lasciare casa, abbandonare le origini, dedicarci anima e corpo a quella tua scelta di vita: una sorta di vocazione missionaria.

Ora, è come se si cercasse di innestare nella nostra mente, nel nostro animo il concetto che il Teatro lo si fa sotto casa, che la "brutta vita girovaga" è finalmente finita, e che puoi essere uguale a un qualsiasi lavoratore, a un qualsiasi cassiere di banca.

"E che ci sarà di male?", chiederanno sempre quelli di prima.
In verità poco, se non fosse per il fatto che deve animarci un sospetto: quando una nazione vinceva una guerra condotta magari per decenni contro una rivale, quello che più gli premeva era cancellarne completamente la memoria, eliminare tutti i segni, i simboli che potessero ricondurre alla sua esistenza; possiamo noi dunque ipotizzare che in questa continua rivoluzione che la normativa teatrale (che è normativa culturale prima ancora che di spettacolo) sta subendo da anni (chi ricorda le "residenze teatrali" di Veltroni?) ci sia in realtà una volontà di cancellare una memoria, una tradizione un portato culturale, di cassare quelle differenze che fanno del teatro italiano un fenomeno diverso da quello tedesco o inglese?

A mio parere sì, se leggiamo la rivoluzione apportata in ottica decisamente più ampia, che non solo attraverso l'istituzione dei Teatri Nazionali con la loro azione specifica sul territorio tende a mettere sotto scacco il teatro privato di giro, ma sopra tutto se la inquadriamo nella complessa e costante modificazione che sottilmente si sta imponendo alla nostra società, al nostro sistema sociale e di vita, cancellandone i parametri faticosamente costruiti nei decenni, a forza di lotte e sangue, nella prospettiva del Nuovo Ordine Mondiale, quello che mira al TTIP, che mira a trasformarci tutti da cittadini a consumatori.
Se da un lato, a livello economico, si impongono azioni come il bail-in, dall'altro, a livello culturale, non si può che tendere alla cancellazione della memoria e delle radici. Le nostre sono quelle delle Compagnie di giro, e non mi pare strano che proprio quelle, e la loro abitudine, si vadano a colpire.

Trovo sempre curioso che in una prospettiva di allargamento del mercato, di liberalizzazioni, di privatizzazioni, si lavori invece a "chiudere la cultura", a costruire pochi "centri di potere". Da un lato "si apre", con gli effetti devastanti che sappiamo, dall'altro "si chiude", con effetti devastanti per i lavoratori che ai lavoratori stessi sono già noti sia pure nella mancanza di una acquisita consapevolezza delle ragioni.

Ce lo hanno insegnato le religioni che il Potere passa anche attraverso il controllo del sesso e della cultura. La sessualità è fintamente libera, è diventata "fluida", passando a un superamento delle morali, anche quelle minime, che aprono a nuovi consumatori e nuovi mercati. La cultura deve essere posta sotto controllo e dunque circoscritta nel suo raggio d'azione.

Il tutto si condisce con l'idea del "è facile": faccio sesso con chi voglio e come voglio, così come faccio teatro sotto casa "senza tanti sbattimenti".
Ed è quando sei convinto che "è facile", come collegarti ad internet, che sei fottuto, che sei diventato un consumatore e hai smesso di essere un cittadino.  








martedì 1 marzo 2016

LO SFREGIO SUL VOLTO DEL TEATRO.






















Stiamo, noi attori, generalmente al di là del sipario che vedete sullo sfondo della foto. E troppo spesso non ci rendiamo conto delle difficoltà che colpiscono gli spettatori.
Ad esempio, difficilmente noi pensiamo al fatto che un signore si è svegliato alle sei del mattino, è andato al lavoro affrontando un'ora o più di traffico, è tornato a casa, dopo avere litigato con colleghi, capo ufficio, utenti allo sportello, riaffrontando lo stesso biblico viaggio, si è cambiato, è arrivato a teatro, ha cercato un posto per l'auto e l'indomani mattina si risveglierà alle sei per un'altra giornata di lavoro.
Questo dovrebbe farci sentire profondamente responsabili, soprattutto se si aggiunge che, l'eroico spettatore ha speso mediamente sui € 25,00 a biglietto moltiplicato almeno per due (parlo di Prosa, per la Lirica la media si alza vertiginosamente).
Ma ci sono altre difficoltà che il povero spettatore incontra, e le trova all'interno del teatro stesso.
Da qualche anno, infatti, una balorda normativa sulla sicurezza ha imposto di piazzare nei palchi delle fastidiosissime sbarre che rendono difficoltosa la fruizione dello spettacolo.
In alcuni casi, molti, sono poste al di sopra del "parapettino" del palco, in altri, come in questo nella foto (Teatro Carignano), addirittura all'interno.
Il risultato è che, per chi è fronte palco, si è costretti all'interno dello stesso, avendo così un effetto di limitazione sonora (fate il semplice esperimento di lasciare la testa dentro e di sporgerla poi fuori un attimo, e vi accorgerete della enorme differenza); per coloro che finiscono in palchi laterali è ancora peggio poiché la visione viene ad essere fortemente limitata.
C'è poi il posticino nell'angolo, quello dove in genere noi, da bambini, coricavamo la testa, riuscendo così a vedere meglio senza impedire la vista agli adulti che erano allineati al bordo della balaustra.
Non a caso, quello, a Napoli, viene definito come "'o posto d''o guaglione".
Come si può facilmente notare dalla foto, tale possibilità viene a scomparire, e in generale, quello che del palco si vede, è all'incirca quello che vedete nella foto.
E dalla foto potete notare che lo spazio perso è decisamente tanto. Circa 25 cm.
Risultato: chi non ha i soldini per comprate un biglietto di platea o di un palco fronte scena, viene decisamente penalizzato. Anche in questo caso si può rilevare che la forbice tra chi ha i soldi e chi non li ha viene ad allargarsi. Se puoi comprare godi, altrimenti soffri. Solo simbolico, si dirà, ma... tout se tient.
Il fatto è che, mentre tali barriere esistevano da sempre per i posti di loggione, giustamente, oggi si ritrovano anche sui palchi di prima fila.
Ora, a parte il fatto che trovo difficile che qualcuno cerchi di suicidarsi buttandosi da un palco di primo ordine dal quale al massimo si può incrinare una costola, sopra tutto mi preme segnalare all'improvvido legislatore che, così come non c'è un solo teatro al mondo che sia mai andato a fuoco per una sigaretta, non c'è mai stato un solo caso di suicidio gettandosi da un palco, e non sarà certo un'asta di ottone ad impedire di compiere, a chi lo decida, l'improvvido gesto. Nè si hanno notizie, a memoria di teatrante (decisamente solida) di sfortunate cadute!
Ci fa piacere per i costruttori di barre di ottone che avranno incassato qualche soldino, ma questa come mille altre cose, è una norma contraria alla storia, alla tradizione, alla consuetudine.
Le sbarre nei palchi sono come uno sfregio sul volto del Teatro, pare assurdo che tutti lo abbiano trovato normale.
Non lo è.