domenica 28 gennaio 2024

DIALETTO E LINGUA ITALIANA, LA CESURA NECESSARIA - un esercizio da attori e non solo

Un giovane Vittorio Gassman
Il grande attore catanese Angelo Musco











Da anni ormai, assisto a un nuovo e sconcertante fenomeno: la nostra bella gioventù non sa più parlare il dialetto, non lo sa più leggere e lasciamo perdere lo scrivere. 

Parlo per esperienza diretta, nella mia regione, la Campania, ma lo stesso fenomeno ho rilevato negli ultimi anni girando per i vari territori italiani, dal Piemonte alla Puglia al Lazio alla Sicilia...
La gioventù di oggi, virilmente impegnata ad apprendere l'inglese (ma non ci son colpe da attribuire alle lingue straniere, visto che tanto, alla fine, non sanno nemmeno l'inglese), non conosce più il proprio dialetto e generalmente parla un italiano con forte cadenza regionale, e un dialetto improbabile che nulla ha a che vedere con la lingua dei padri; questo quando lo parlano il dialetto, perché spesso non lo conoscono proprio, fino al punto che un ragazzo torinese mi chiese un giorno cosa volesse dire: "Cerea". Mi cascarono le braccia: cerea, il saluto torinese per eccellenza, noto a tutta l'Italia, che pure Totò usava nelle sue boutade, era sconosciuto a un figlio della Mole. Bene, andiamo oltre. 
Non parliamo del dialetto scritto! Il napoletano, per esempio, è massacrato sui social da una bufala divenuta regola, anche col sostegno di un noto film con Alessandro Siani e Claudio Bisio, secondo la quale le vocali finali in dialetto napoletano non ci sono e non si scrivono. E a nulla vale il mostrare a queste "capre sociali" i testi di Scarpetta, Di Giacomo, Viviani, Eduardo, Patroni Griffi, Moscato, fino a Pino Daniele, mostrargli che quelle benedette vocali ci sono, sono scritte e chiaramente leggibili! Niente: per loro non esistono, sia fatta 'a voluntà d' 'o cielo! 

Questa stupidità collettiva è costruita sul più clamoroso degli inganni di questi tempi: la possibilità della oggettività. Quella convinzione, figlia del politicamente corretto, secondo la quale una parola, ad esempio, non ha espressioni, sfumature, non si accompagna all'intenzione, per cui se la usi o sei nel giusto o sei da condannare, quella oscena idea, insomma, per cui si vanno riscrivendo i classici "per non offendere" non si sa chi; nel nostro caso, l'idea è che il segno scritto abbia un unico ed universale significato. Dunque: per far comprendere alle capre sociali che non è vero, tocca ricorrere proprio a quella lingua che credono di parlare ma nella quale al massimo comunicano - perché c'è un solo modo di parlare davvero una lingua, ed è esserci nati dentro, poiché non puoi mai disgiungere lingua da corpo e corpo da lingua, ma per ora lasciamo stare, magari ci torniamo in un altro post - dicevo che per fargli comprendere l'inganno si deve ricorrere all'inglese e chieder loro molto nettamente: "questo segno grafico che qui vedete 





 


si pronuncia in inglese come in italiano?
E quest'altro segno grafico - perché una lettera scritta è soltanto, e soltanto, e soltanto, un segno grafico cui per convenzione corrisponde un suono, nulla più - quest'altro segno grafico si pronuncia allo stesso modo nelle due lingue? 







Ecco che magicamente alle nostre caprette si illumina lo sguardo e cominciano a capire: in dialetto, nel nostro caso in dialetto napoletano, e in italiano quel tal segno grafico non ha la stessa corrispondenza sonora, per cui la "e" di perdere, in italiano!, non ha la stessa pronuncia della "e" in perdere, in napoletano!
E se gli fai ben ascoltare proprio la pronuncia si accorgono che alla fine di quel perder un suono c'è, che quella "e" che loro troncano in realtà ha un suono corrispondete che esiste nettamente, altrimenti "la dominante" sonora della parola sarebbe una durissima "r". E qui, un primo passo è fatto!

Chiariamo ancora una volta un punto, per chi non lo avesse ancora compreso: quando parlo di "parlare italiano" o "parlare dialetto", mi sto riferendo specificamente alla pronuncia, a quella cosa nota come "dizione". Dizione che offre un interessante risvolto socio-culturale: quando dici che sei un attore, in tanti ti guardano ammirati e prima poi ti chiedono quella simpatica cosuccia: "ma dunque tu parli con la dizione? Che bello, che cosa interessante deve essere". Beh, decisamente interessante, dato che dopo, quando minimamente provi con modalità scherzosa a correggere la dizione di una parola al tuo interlocutore, quello fa spallucce, ti guarda a volte anche offeso e magari ti spegne ogni entusiasmo dicendoti che tanto lui mica deve fare l'attore! E va bene, e anche qui andiamo avanti. 

L'aspetto interessante, per quella che è ad oggi la mia esperienza sia come attore che come docente di attori in erba, è che, oltre al valore culturale che ovviamente ogni dialetto porta con sé indipendentemente dal fatto che abbia o no una sua letteratura, è che una buona conoscenza del dialetto, del proprio dialetto, e magari, ove ce ne sia la possibilità, di più dialetti, rafforza, anzi migliora la pronuncia dell'italiano. È come se nella nostra mente si tracciasse una linea netta, un confine che separa i due mondi, prendendo coscienza dell'essere pienamente da una parte o dall'altra, senza mescolare questi due "Stati". "Stati" che si vedono, si riconoscono, interagiscono, si scambiano informazioni preziose, che possiamo anche decidere di mescolare, ma sarà sempre, una volta appreso il processo di separazione, una commistione o divisione frutto della nostra volontà. 

Nel caso della letteratura campana, o per meglio dire napoletana, è ben nota la sua vastità, il valore elevato degli autori, nonché il ricco patrimonio musicale che è forse il primo e più importante veicolo di trasmissione di quel dialetto. Perché questo è un altro aspetto fondamentale che non dobbiamo ignorare: separare e imparare a utilizzare dialetto e italiano è questione di suoni, è questione di orecchio, di "elasticità uditiva" e dunque espressiva; più ricco sarà il nostro dialetto, più ricco il nostro italiano, maggior quantità di suoni avremo a disposizione, e questo, per chi vorrebbe esprimersi oltre che col corpo anche con i suoni, è un aspetto quasi di vitale importanza. 
Assistiamo, infatti, oggi, anche ad un impoverimento, oltre che lessicale, anche espressivo delle nuove generazioni, in questo non aiutati per nulla dal tipo di musica che li bombarda, il rap e tutte le sue derivazioni (sulle quali sospendo il giudizio), che certamente si basano su una elementarissima (voglio essere gentile) escursione sonora. I giovani aspiranti attori, scoprono con meraviglia la quantità enorme di sfumature sonore che hanno a disposizione. Il mio consiglio a loro è prima di tutto quello di ascoltare tanta buona musica, a cominciare dalla classica, onde allenare l'orecchio, e la mente, alla infinita gamma sonora che possono adoperare e, a seguire, all'allenamento con i dialetti, con il proprio e con le altre cadenze regionali, con le quali possono giocare - e in questo caso sì, giocare - per ritrovare il maggior numero di suoni possibili. Più cadenze sapremo riprodurre, migliore sarà la nostra dizione italiana, sempre per i motivi di cui sopra. 

In conclusione: Ave Ninchi non studiava le lingue straniere, studiava i dialetti, studiava nel vero senso della parola, con esercizi e quadernino; non so quanti ne parlasse alla perfezione, pare almeno una decina, tanto da essere scritturata per commedie in romanesco, in catanese, in fiorentino, in veneziano... Lei che era marchigiana d nascita e triestina di adozione. Oggi magari questo sarebbe troppo, ma la grande Ave sapeva che quella conoscenza era, oltre che un personale piacere, una opportunità di lavoro. Forse questo, degli attori in erba, dovrebbero tenerlo presente, poiché la cosa più importante per un attore è il lavoro. 

E chiudiamo davvero con una obiezione che so mi verrà fatta: "il napoletano non è un dialetto, è una lingua", "il veneziano non è un dialetto, è una lingua", "il siciliano non è un...", e via dicendo. Questa frase ha certamente l'amoroso intento di dar senso di nobiltà a tutta la nostra cultura popolare, ed io l'apprezzo anche se sono stanco di sentirmela ripetere. Allora forse va chiarito: qual è la lingua di un popolo? 
Ebbi la fortuna, durante un piccolo convegno, di parlarne con Edoardo Sanguineti, e la sua soluzione mi pare ancora oggi la più interessante: la lingua è quella in cui un popolo scrive le sue leggi, poiché si presume che tutti possano accedervi, leggerle e capirle; ma è anche il frutto di un sentire comune, di un sentimento condiviso, di una intenzione a volta inspiegabile proprio a parole che però ciascuno riconosce come propria e quale segno della propria appartenenza. 
Possiamo dire lo stesso per i dialetti? Sì e no. Sì, in quanto abitanti di un territorio e facenti parte di una comunità; no, in quanto quel nostro dialetto non è condiviso da altri di regioni diversi ma appartenenti alla stessa nazione. E questo non mi pare proprio difficile da comprendere. 
Ma fatta salva la netta cesura che può e deve esistere tra dialetto e lingua, quel che conta è che il dialetto è le nostre radici, è la nostra terra, il nostro stesso corpo che proprio come un albero è radicato al terreno in cui cresce, o in cui è cresciuto; perdere il dialetto è perdere radici, è indebolire l'albero, è lasciarci in balia di qualsiasi vento; è la forza della tradizione, che è sempre uguale, ma sempre cambia nei giorni, perché tradizione e tradire hanno la stessa radice, e ogni tradizione resta viva solo se diviene nostra, di ciascuno di noi, e divenendo nostra, del singolo prima ancora che della comunità, cambia sempre quel poco che la farà perpetuamente viva.
Il tradimento è la reale forza di questo continuo passaggio che tiene vivo ciò che siamo stati, che siamo e che diversi e immutabili sempre saremo.   

giovedì 4 gennaio 2024

"NON TI PAGO" LA PASTA E FAGIOLI!


Ho visto i primi 20' di questo "Non ti pago" di Castellitto e De Angelis su Raiplay.
Inizio leggendo "tratto da..." e già respiro profondamente. 
Poi: "soggetto di Eduardo De Filippo, Sceneggiatura di tizio e caio...", e qui respiro ancor più profondamente e per due volte!
Poi inizia il film. Nessun problema con Ferdinando vestito da marinaio con un pappagallo sulla spalla. Vabbè è un'idea come un'altra, respiro ancora profondamente ma vediamo dove vanno a parare.
Quindi si entra in casa e qui c'è il vero e proprio inizio della commedia. Come si può leggere nel testo o vedere nella edizione televisiva, ci sono la padrona di casa, Concetta, moglie di don Ferdinando, e la cameriera intente a pulire una verdura, tipo fagiolini o broccoletti. E la prima battuta è della cameriera: "Signo', una volta dobbiamo fare PASTA E PISELLI, è tanto che non la facciamo".
Bene, nel film le due donne stanno sgranando i piselli e la cameriera dice: "SIgno', una volta dobbiamo fare PASTA E FAGIOLI, è tanto che non la facciamo".
Domanda: ma quale caxxo è la necessità di questo cambio, quale mistero interpretativo si nasconde sotto questa inutile variazione, perché?
Io, che penso sempre male e sono un dannato complottista, ho immaginato che gli sceneggiatori abbiano ipotizzato che, siccome gli addetti della SIAE pare siano usi leggere solo le prime pagine per verificare l'originalità del soggetto, questa bella variazione proprio a prima battuta già indirizzava l'esaminatore verso un pieno placet al "nuovo soggetto"; in questo modo i diritti d'autore degli sceneggiatori possono considerarsi assicurati. 
Capisco - e ribadisco - sono un dannato complottista malato e incurabile, ma francamente, rispetto al trasformare i fratelli Frungillo in due donne, a mostrare il professore che dorme invece di interloquire con il protagonista, e tutte le altre assurdità che ho visto in venti minuti venti!, tutte cose che posso comprendere nella esasperante voglia contemporanea di fare per forza tutto "strano" , questa, perdonate, stronzata di una innocua pasta e piselli che diventa pasta e fagioli proprio non si capisce se non facendo l'ipotesi maligna che ho fatto. 

Devo invece dire che sono stato a vedere il Natale in casa Cupiello di Vincenzo Salemme, e ne sono rimasto favorevolmente colpito proprio perché Salemme, così come è accaduto in altri casi, penso alla Moriconi, alla Isa Danieli, a Patroni Griffi, a Geppy Glaijeses, ha fatto il suo Eduardo, con la sua netta impronta, senza fare stranezze con Eduardo. 
Dunque, si può fare. Certo che si può fare, basta essere capaci di fare una corretta analisi del testo e da lì partire per la propria interpretazione. Non dimenticherò mai la Filumena di Valeria Moriconi, per la regia di Egisto Marcucci, con un bravissimo Massimo De Francovich nel ruolo che fu di Eduardo. Lo scontro tra di sessi era profondo e intenso, pareva di assistere a uno Strinberg, Eduardo ne usciva splendidamente esaltato. 

Poi ci son quelli che "'o famo strano" e allora... venti minuti, ho smesso! C'è un limite a tutto. Anche alla quantità di bicarbonato che posso ingerire.