martedì 29 agosto 2017

"NEANCHE UNA GOCCIA DI SANGUE": PIRANDELLO, O DELLA CATARSI VIETATA.



Ricorrono quest'anno centocinquant'anni dalla nascita di Luigi Pirandello.

Mi sarei aspettato, da parte del mondo della cultura e dalla Nazione tutta, una maggiore attenzione per quello che è senza alcun dubbio, uno dei quattro, cinque più grandi autori teatrali di sempre e del mondo, fatti salvi i tre sommi classici greci; pare invece che il Nostro sia messo in una sorta di angolo, come accomodato in un cantuccio al quale si pone scarsa attenzione, come un vaso di porcellana o una statuina in bronzo che ci abbia regalato un lontano parente, e per la quale non nutriamo particolare ammirazione. Sta lì, per una forma di cortesia verso chi ce l'ha donata, ma la sua presenza è per noi indifferente.
Se questo è il vostro sentimento nei confronti di Luigi Pirandello, è inutile che mi metta a tessere le sue lodi: far cambiare idea alle persone è complicatissimo, anzi difficilissimo, quasi impossibile; far cambiare le tendenze modaiole è praticamente battaglia persa, si può solo aspettare che passi, e la moda oggi dice che...

è bello bello bello Sciakkespì-re, e quando è estate è bella bella bella pure 'a tragggedia grreka, poi ce sta bene pure er monologo de impegno civile e ar massimo na commmedia che ce fa ride ma co la morale sotto, che ce parla de noi, che si gle vie' bbene poi dopo ce fanno 'n firmetto... il resto è tutta na noia.
Ma che vuole, allora, quer Pirandello lì, co tutto quell'arzigogolo intellettuale, 'no smucinamento che a me, sarò pure ngnorante, ma me rintrona, e poi quella lingua che non si può sentire, quei termini antichi, i verbi tutti strani che nun s'usa ppiù, andasse, direbbe, volessimo... nun s'usa ppiù! Ma te ce vo' uno bbravo, ma uno proprio bravo pe' curatte, perché mica stai messo a posto... E pure agli attori dice che tocca fà na fatica pe dillo... Eh, l'ha detto uno alla televisione, mo' er nome nun me lo ricordo, è quello che fa le finction, è forte.
Cioè, voglio dì: Luigi Pirandello... certamente è stato uno importante perché lo hanno messo pure nella antologia di scuola... Oh, e io me lo ricordo, l'ho studiato, c'ho pure preso 7: "Chi fu Mattia o Pasquale", "Uno, nessuno ha diecimila" "Sei personaggi in cerca d'amore" (che poi co' quel libbro lì è stato praticamente er maestro di Moccia, che me piace 'n sacco. Gennniale!)...
È così, inutile che ce state a girà intorno: Alfieri, Goldoni?... Si se studiano a scola, saranno na roba come I promessi sposi: 'mportante, tocca leggelli, se no poi te pigli er debbito, e io 'st'estate c'ho da fà co' na pischella a Nettuno, mica posso perde' er tempo co' Mattia e Pasquale che 'n' ze capiva chi era morto... Oh, così è, ve piace o nun ve piace! come diceva proprio Pirandello! 
Però, tu voj mette' con 'no Sciakkespì-re? Così fresco, così agile, mo-der-no! Ma guarda che bei film che ce fanno... e sempre diversi... Oh, prendi er film de quando s'era 'nammorato de quella nobbile che nun se la poteva sposà... Ma na commedia proprio bella, me ce so' pure commosso... nfatti se chiamava Sciakkespì-re en love_e. Proprio forte 'sto Sciakkespì-re! E poi gli stranieri sì, gli stranieri davvero sanno fà le cose, mica come noi italiani, che, diciamo la verità, diciamoci la verità na vorta pe' tutte: semo pallooooosi, semo pallooooosi! Sempre rintorcinati, probblematici... mai che te facessero ride' o piagne'... Na Magnani nun c'è ppiù, c'è poco da fà... ma quella mica era italiana, era romana, ro-ma-na! I Taliani ar massimo possiamo fa' la commedia ma la capiamo solo noi perché è la lingua che ci frega. ce manca la lingua! 
Sciakkespì-re, 'nvece, ch'era 'n dritto, scriveva in inglese! 
Che poi, mo' s'è scoperto ch'era de Messina... 
Eh, l'ho letto su internet: era de Messina! 
Quinni siciliani tutt'e ddue: ma Sciakkespì-re, penzace bbene,  scriveva in inglese! 
E l'inglese lo capischeno tutti! Pe' quello c'ha fatto er botto! Ma proprio er botto, ma da subbito!
Un successo che... guarda: c'ha sistemato la famiglia pe sette generazioni! Un grandissimo!


Non sto polemizzando, giuro! Mi guardo soltanto intorno. E pare sia sempre stato così. Ci raccontava Giuseppe Patroni Griffi un esilarante episodio cui aveva assistito a teatro quando era giovane. Erano i primi anni di Pirandello, al teatro Diana, su al Vomero, rappresentazione di una sua commedia. A un certo punto, parte, inesorabile, il classico monologo pirandelliano: "perché io, come sono per me, e non per voi, che mi vedete per quello che io sono per voi, ma non come lo sento io, che ognuno è per sé quello che non è per gli altri e per ciascuno di noi che per noi e per me e per io e per voi e per...", una voce possente arriva dal fondo della platea urlando: "Ooooooooh, ccà ce fa male 'a capa!" (tipico modo napoletano per dire che io già ho i pensieri miei e tu contribuisci a ingarbugliarmeli...).

Ma passiamo oltre.

Rileggendo Enrico IV (di Luigi Pirandello, non di Shakespeare), trovo a un certo punto questo passaggio (atti I):

Belcredi Ma fin da principio! Si figuri che, quando avvenne la disgrazia dopo che cadde da cavallo... Dottore Battè la nuca, è vero?
D. Matilde Ah, che orrore! Era accanto a me! Lo vidi tra le zampe del cavallo che s'era impennato... Belcredi Ma noi non credemmo affatto dapprima, che si fosse fatto un gran male. Sì, ci fu un arresto, un po' di scompiglio nella cavalcata; si voleva vedere che cosa fosse accaduto; ma già era stato raccolto e trasportato nella villa.
D. Matilde Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!

La caduta da cavallo, per coloro che non lo sapessero, avviene durante una mascherata organizzata per un carnevale. Il carnevale è in fondo una festa dionisiaca, o comunque sia un rito di conclusione per una rigenerazione, il caos, la babele che ricondurrà all'ordine, a un nuovo ciclo vitale. Forse la confusione che regna nei nostri tempi deriva anche dall'avere cominciato a preferire quella scemata di Halloween al nostro Carnevale... ma anche qui passiamo oltre.

Un grande autore non scrive mai nulla per caso, nemmeno il più piccolo respiro. Che egli ne sia consapevole o no, cosciente o no, tutto è riconducibile a un senso che perfettamente si incastra con tutti gli altri pezzi che compongono la sua creatura, la sua opera.
Enrico è, tra le tante altre cose, la negazione evidente della tragedia, la rappresentazione del mondo post freudiano, dove, divenuto impossibile compiere la tragedia (Gabbiano checoviano docet, lì dove il protagonista, Kostja, non riuscendo a uccidere la figura paterna, rivolge l'arma contro se stesso), non ci resta che il grottesco del dramma, non ci resta che il violento dissidio interiore che viene a scatenarsi tra il nostro bisogno di purificazione e le regole, le nuove regole sociali, sulle quali, implacabilmente, si innestano anche le convenzioni.
Il "vecchio mondo", il mondo antico per meglio dire, in cui la rinascita passava per il sangue, per il lavacro di sangue, è ormai definitivamente perduto. Può più, in questo nostro mondo, essere mandato assolto Oreste per avere assassinato la madre? No, perché comunque sia l'omicidio non è più il nostro modo per risolvere socialmente le questioni.
Certamente un bel passo in avanti, importante. Ma il dissidio resta dentro e ci macera, che ne siamo coscienti o no. L'invocazione di "Giustizia Giustizia Giustizia" che regolarmente sentiamo da parte dei familiari delle vittime di crimini violenti va proprio nella direzione di una richiesta di purificazione secondo le moderne modalità. Non rispondere a queste invocazioni è compiere un ulteriore delitto: negare all'interiorità del familiare quella purificazione necessaria per continuare dignitosamente a vivere, forse solo a sopravvivere.
Ma in Enrico IV, Pirandello chiaramente ci mostra un modo terribile per ritrovare l'antico lavacro di sangue, un modo crudele e pericolosissimo: la pazzia.
Solo chi è fuori dallo schema che la società si è data può ricorrere a modalità che tale schema negano. L'omicidio che Enrico commette viene giustificato dalla sua pazzia.
Questo, però, agli occhi del mondo in cui egli vive; non agli occhi di noi spettatori, che ben chiaramente sappiamo che l'ignoto chiamato Enrico non è pazzo.
In un gesto d'impeto, l'ignoto compie l'omicidio. Il carcere o il manicomio criminale, possiamo immaginarli come sua futura destinazione; oppure, essendo egli considerato pazzo, rimarrà chiuso nel suo castello per sempre. La scelta della pazzia perenne, agli occhi del mondo, è essa stessa un carcere dal quale Enrico non potrà mai uscire, rimanendo inchiodato all'immagine del grande ritratto che è nella sala del trono, e forse perennemente ripetendo a se stesso quella che è la battuta più straziante del dramma, detta malinconicamente proprio alla donna amata: "Non si possono avere sempre ventisei anni, madonna".
La soluzione, dunque, non c'è. La tragedia è negata. Con la piena e feroce consapevolezza, però, che questa tragedia negata farà esplodere ancor più violentemente il dolore nel corpo e nell'anima del personaggio, impedendogli qualsiasi forma di liberazione.
Scrive Giovanni Macchia nel suo splendido saggio "Pirandello o la stanza della tortura":
"Dov'è la catarsi in Pirandello? Dov'è la liberazione? In qualche colpo di rivoltella ben piazzato? In qualche suicidio? Nell'omicidio di Enrico IV che lo costringerà risibilmente a fare il pazzo per tutta la vita? La crudeltà pirandelliana è nel vietare ai personaggi la tragedia, la via della tragedia, contro il fato o contro gli uomini, e in questo rifiuto è uno dei segni della sua modernità. Così, d'altra parte, una diversa manifestazione di crudeltà era quella di far decadere le sue creature a oggetti di riso e di commiserazione. L'umorismo, visto in questa luce, è una delle forme patenti di una diabolica, dongiovannesca voluttà d'abiezione. Servirsi dell'umorismo per negare all'uomo qualsiasi illusione. Anche l'umorismo, come strumento critico, rientra in questo teatro della tortura." 
La storia, in questo capolavoro di Pirandello, racconta tutto, o esplicitamente, o in maniera subliminale, e tutti i tasselli, a ben vedere, vanno a cadere, leggeri, al loro preciso posto nel puzzle.
Anche la piccola battuta della Marchesa Matilde: "Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!", che pare essere solo un dettaglio che arricchisce il racconto, una nota di colore, si sistema precisa nella simbolica negazione della catarsi, una negazione preannunciata come la battuta è pronunciata ancor prima che l'ignoto/Enrico appaia sulla scena.
Nel racconto finale del ferimento del rivale Tito Belcredi, concluso, classicamente, con la morte di questi fuori scena, la parola sangue, non appare, mai. Noi spettatori, certo possiamo immaginarlo. Come possiamo immaginare quale sarà da lì in poi l'esistenza di quell'ignoto sequestrato dalla sua stessa vita.  

lunedì 28 agosto 2017

LE DIECI REGOLE DELLA SILVIA (L'INSEGNAMENTO DELLA RECITAZIONE AL GIORNO D'OGGI)

La mia cara amica Silvia Nati, bravissima attrice, compagna di Accademia (Silvio D'Amico, perché l'Accademia è una!), dice, da tempi immemorabili che: "Puoi fare il tipo di teatro che vuoi, tradizionale, sperimentale, avanguardia, ricerca... e tutte le 'mbecillità che ti pare - la Silvia è fiorentina purosangue - ma ci so' dieci regole su come stare 'n palcoscenico che valgono pe' tutti, e quelle LE DEVI SAPERE!".
La Silvia ha ragione. Punto.
Saranno dieci, le regole, o sette, o venti, non mi voglio ora interrogare su questo, ma quelle sono uguali per qualsiasi genere tu faccia, e le devi conoscere. Del tipo: portare la voce (o più banalmente "farsi sentire fino all'ultima fila di poltrone"), sapersi muovere, sapere come si sta fermi, battere le finali di parola, conoscere la differenza nella dizione tra una vocale aperta o chiusa (poi aprile e chiudile come ti pare, ma la differenza la devi gestire come bere l'acqua), impara a respirare, ecc. ecc. ecc.
Mario Ferrero è stato un bravissimo regista, ma ancor più è stato un magnifico insegnate. Entrato in Accademia nel 1979, c'è rimasto fino alla sua scomparsa a 90 anni. Oltre trent'anni di insegnamento. Gli attori che oggi vedete, usciti dalla "Silvio D'Amico", da Castellitto a Gifuni a Lo Cascio, alla Mandracchia, alla Silvia, alla Marinoni, ecc. sono tutti passati sotto di lui. Poi, magari, ciascuno di questi avrà amato un qualche altro Maestro, sebbene in molti continuino a portare il ricordo di Mario ben vivo nel cuore - compreso il sottoscritto - ma i primi insegnamenti, nella scuola di Teatro per eccellenza, li hanno avuti da Ferrero.
Ebbene, Ferrero in questo era un mago, perché ti chiedeva di eseguire e basta, perché a forza di urla o frasi molto colorite, ti piantava nell'animo, nel cervello, nel corpo, "le aste" del mestiere, i fondamenti dai quali non avresti più potuto prescidere, anche se poi finivi a fa "er teatro de ricerca" ("Ricerca de che? - si chiedeva Paolo Lorimer - dei sordi 'n fondo a la saccoccia...")
Ovviamente il lavoro di Mario non si fermava qui, e in fasi successive entrava in dinamiche di più alto livello. Ma dopo un anno con lui avevi "le basi", quelle che oggi ci stiamo mortalmente giocando in molti campi, non solo recitativo: LE BASI!

Nelle mie ultime esperienze di insegnamento, noto con profonda amarezza, vedendomi i ragazzi andare e tornare, che passano da un insegnante all'altro (per loro scelta, io mica li posso legare, sono liberi, per me, di fare, sbagliare o migliorare nel percorso che preferiscono e che sentono più consono alle loro capacità), sto notando una singolare tendenza: moltissimi docenti operano sempre come se fossero in un super corso di perfezionamento, anche se hanno davanti a loro ragazzi completamente acerbi. Sento ventenni fare discorsi da attori con lunga esperienza, e senza nemmeno - mi è ben chiaro - che capiscano cosa stiano dicendo e il perché lo stiano dicendo.
In un post su Facebook parlai un giorno della necessità per i novizi di farsi poche domande e eseguire l'esercizio che il maestro affidava loro, come un pianista la mattina fa le scale o il cantante i vocalizzi: eseguire e basta.
Ebbene, la pratica della esecuzione guidata, mirata a inchiavardare nel bagaglio dell'attore in erba quelle dieci regole invocate dalla Silvia, pare non usi più.
C'è oggi un'altra tendenza, a mio vedere pericolosa e comunque poco fruttuosa, poiché alla fin fine non forma un lavoratore-attore, un soggetto, cioè, che è messo, prima di ogni altra cosa, nelle condizioni di cavarsela nelle più disparate situazioni e riuscire, bene o male, a risolvere. 
Mi pare che ciascun docente sia convinto che "il metodo recitativo" che egli persegue, o ha imparato, o ha praticato nella sua carriera, sia il migliore, e quindi l'unico. E quello, implacabilmente, vuole insegnare all'allievo! Tutti gli altri metodi vengono presentati al ragazzo come sbagliati e basta: "la recitazione è questo, il resto è m...". E nella volontà di creare quello che in realtà è solo il nuovo adepto di una specie di setta, si perde di vista l'insegnamento dei fondamentali, anzi NON SI INSEGNANO I FONDAMENTALI, spesso convincendo l'allievo che "con la giusta concentrazione, col sentimento giusto, con l'energia giusta... tutto si risolve da solo".
I risultati? Non serve che ve li descriva - e so che i miei colleghi (veri!) hanno già capito.
Non meravigliatevi, dunque, se in una fiction non capite le parole, o in teatro non vedete improvvisamente più bene un attore sul palco, o non capite come e perché sta compiendo un gesto... Il tutto è dettato dallo sbiadirsi delle "dieci regole della Silvia", a favore de: "'a concentrazione, l'energia, il ricordo de la situazione, l'intenzitàà, 'a ricostruzione de la vita, lo smembramento de la frase, 'a poesia nun se recita, er verso lo devi da rompe...".
Il risultato è che la sola cosa che si rompe sono i coglioni. Ma questo poco conta, basta che siamo stati INTEEEENZIII!
Eppure, io noto, i giovani sono maledettamente alla ricerca di maestri, ma di maestri che facciano in modo che essi siano autonomi, lo diventino, crescano autonomi, e non che dipendano sempre dal proprio insegnante; di maestri che li mettano nelle condizioni di districarsi nelle più diverse situazioni, e di cercare così, dati gli strumenti di base, la strada che preferiscono e sentono più vicina al loro animo.
C'è invece molta cialtroneria, anzi sempre più cialtroneria nel mio mestiere e nel suo insegnamento. con il risultato che la professione sta andando letteralmente a puttane, a tutto vantaggio dei dilettanti puri, o di dilettanti spacciati dal main stream come professionisti (chi sono? dove sono? cosa fanno? Ne parliamo un'altra volta).
Cosa rende un insegnate un buon insegnante, mi sono chiesto in questi anni, e credo che la risposta sia in quello strano sentimento che ti senti strisciare nell'animo dopo un giusto periodo di lezioni, sentimento che insistentemente, guardando il ragazzo ripete: "Ti ho passato gli strumenti che a me sono stati passati: quand'è che cominci a camminare da solo e ti levi dai coglioni!".

giovedì 10 agosto 2017

CACCIA AL NUOVO NOTEBOOK, L'INUTILE BATTAGLIA (PERSA!)

Il mio computer è morto. O quasi. Nel senso che non recepisce più alcun aggiornamento e dunque è da considerarsi fuori gioco come un nuotatore che voglia scendere in gara con uno scafandro da palombaro, roba impossibile.
Così è partita la caccia al nuovo notebook! Perché in queste ricerche la quantità di termini che devi imparare è pari solo ai cinque anni di lezioni di chimica della compianta prof Tramontano compendiate in un mese, e se non si fosse capito io, la chimica, la fisica e la matematica non siamo mai andati troppo d'accordo, fin dalle elementari. In conseguenza, coerente con la mia capacità di complicarmi l'esistenza, per paura del greco, di cui i miei cugini più grandi, tutti al classico, mi parlavano con terrore, scelsi lo scientifico. Praticamente cinque anni a lottare per un sei! Finito il Liceo non ebbi dubbi: Lettere! Ovviamente Moderne, e basta con i numeri.
Oggi, di fronte a processori, RAM, HDD, SSD e compagnia cantante, praticamente sbarello!
Ma il nuovo computer portatile ci vuole e quindi tuffiamoci nell'impresa, non sia mai che la rifiuti.
Il risultato è che mi trovo di fronte a un mondo completamente folle del quale, più esamino, più capisco letteralmente nulla, scoprendo ogni giorno, oltretutto, una magagna. E siccome non sopporto l'imbroglio e l'ingiustizia, faccio ancora maggiore resistenza, e finché questo vecchio (si fa per dire) Mac funziona, tiro avanti.
Il delirio maggiore è dato dalle sigle. Credo di avere capito che il successo di Apple è dovuto, oltre alla vulgata corrente che: "non prende i virus", anche al fatto di avere in realtà pochi modelli e dai nomi facili da ricordare.
Le altre case, invece, HP, o Acer, o Asus, o Lenovo, o Dell... producono una quantità di prodotti da fare invidia a tutte le fabbriche cinesi, dalle quali, per colme di ironia, tutti 'sti computer in qualche modo arrivano.
Lettere e numeri incastrati in nomi che diviene impossibile ricordare o distinguere per un confronto.
Poi ci sono i prezzi, talmente variabili da far venire letteralmente il mal di capo.
Poi ci sono le offerte, e i tassi e le rateizzazioni e i piccoli negozi e la grande distribuzione e l'addetto che oggi ti consiglia il contrario di ciò che un suo collega nello stesso megastore ti ha consigliato ieri.
Insomma, pare una battaglia, alla ricerca del miglior rapporto qualità/prezzo, o quanto meno dell'evitare la fregatura e farsi un'altra scarsa decina d'anni tranquillo.
"Resta su Apple", mi dice qualcuno. Follia, rispondo io, visti i prezzi e visto il fatto che, il giorno in cui, agosto 2008, comprai il mio Mac pensai di fare un grande investimento proprio perché doveva durare. Ma il mercato è il mercato, e anche la casa di Steve Jobs si è adattata, per cui, dopo un certo numero di anni, sempre più ristretto, cominci ad essere vecchio e non più supportato. Non è un mondo per vecchi, quello del mercato.
E allora necessita fare opposizione. Niente Apple!
Già, ma allora cosa?
Un AV 110X7Q, o un EX 15 SS82, oppure un EX 15 SS83 da confrontare con un AV 111X71Q?...
Una scheda HDD, o SSD, o la novità scoperta in questi giorni dell'eMMC che te la segnano come un SSD nei cartellini ma non lo è, e ha pure capacità ridotta perché i Giga e poi la RAM e non consideri la scheda grafica? "Mortacci vostri!", è la sola cosa che pensi mentre l'impiegato ti spiega cose che non capisci.
"Ma lei cosa ci deve fare?", "Io?... internet e scrivere...", "Perché questo per i giochi non è adatto", e chi se ne frega dei giochi, mica te l'ho nominati. "e se poi sente la musica mentre va su internet e sta scrivendo.... il consumo e la ram che gira...". Ma io che ne so? Ma ti pare che scrivo mentre ascolto la musica e giro sui siti mentre scrivo? Non so in che mondo vivete. E se gli addetti alle vendite fanno queste affermazioni, dev'essere questo il mondo in cui vive la gente.
Ho scoperto che c'è gente che spende € 1.800,00 per avere un portatile con cui giocare. Non avete proprio un cazzo da fare nella vita!
Al che, a questo punto, mi domando se sono più folli i fabbricanti di computer o la gente che se li compra. Non ho risposta e resto sempre alla solita certezza: Non è un mondo per vecchi, o comunque non è un mondo per gente semplice.
Ma ne esiste più di gente semplice? I vegani ce li hanno tutti questi problemi con il computer? (perché mi vengono in mente i vegani?).
Forse alla fine ha ragione il mio amico Alberto, che di computer si occupa: "So' tutti uguali, stabilisci la cifra e comprane uno, so' tutti uguali. Tra tre anni si scassa, è vecchio e te ne devi prendere un altro".
Deve essere questo il vero trucco cui non mi rassegno: fottere il mercato adattandosi al mercato.
Non te li do 800 leuri, te ne do al massimo 300, tra tre anni altri 300... e alla fine non ti ci faccio guadagnare come speri perché tanto è sempre un fregatura.
Il credito al consumo, del quale dovrò per forza di cose usufruire innalzando ancora il debito privato del mio Paese, ti dà l'illusione che, poco alla volta, puoi fare un acquisto che ti metta al sicuro per un tempo ragionevole di utilizzo, che almeno per dieci anni non ci penserò più. Illusione!
Devo convinvermi: prendi una roba, Liguori, usala e poi gettala; dagli meno che puoi dei tuoi soldi e... fanculo al mondo, tanto non è per vecchi.

martedì 8 agosto 2017

POMPIERI PIROMANI, STARE DALLA LORO PARTE.

Io non voglio giustificare. Voglio capire. E che credo che questo sia il dovere di ogni cittadino coscienzioso. L'indignazione un tanto al chilo, combinata con il moralismo un tanto al chilo di cui è figlia, serve a poco. Anzi a nulla. "La crisi - scrive Eduardo De Filippo ne "L'arte della commedia" - è una cartella di rendita nelle mani dei confusionari". Ecco perché voglio, tento, provo a capire.
La storia dei pompieri di Ragusa che appiccavano incendi per prendere le indennità fa sicuramente scalpore. Ma lo sdegno non è sufficiente.
Innanzi tutto si fa presto a dire "i pompieri, i vigili del fuoco". Le informazioni ci dicono che si tratta di volontari. Allora cominciamo, per favore, a non mescolare l'onesto lavoratore con chi dà occasionalmente una mano.
Prenderei poi in considerazione l'ipotesi che anche quei quindici volontari non abbiano svolto unicamente la loro attività andando ad appiccare roghi per poi spegnerli; probabile che nel corso del tempo si siano anche prodigati in attività regolari. Questo conta meno, poiché davanti a una vita di onestà, se metti un piedi in fallo, per quel fallo vai giudicato. Il resto può far parte del quadro generale in cui il fattaccio viene a concretizzarsi, delle cosidette attenuanti che non eliminano la colpa ma devono essere prese in considerazione.
I volontari della storia prendevano un compenso. E questo già suona strano, per cui la prima cosa che viene da chiedersi è: ma se uno è volontario, perché viene pagato?
Una qualche risposta ce la dà il segretario del CONAPO, sindacato autonomo dei vigili del fuoco, Antonio Brizzi, sul sito della organizzazione: "Il vero volontariato è gratuito - ma và?! - Questo è precariato mascherato". E già qui, c'è qualcosa che non quadra.
In realtà ci sono molte cose che non quadrano, e se vi fate un giro sul web trovate decine di video o articoli nei quali si denuncia il degrado da cui il prezioso corpo è ormai investito. Questo è uno, preso veramente a caso.



La denuncia, come potete ascoltare, è forte, e non dissimile da quelle di tanti altri lavoratori di questo Paese. Stipendi bassissimi, mezzi che mancano, strutture fatiscenti, precariato interminabile...

È stata una estate terribile, nella quale i nostri vigili del fuoco sono stati impegnati oltre qualsiasi immaginazione e in condizioni che più volte hanno fatto gridare allo scandalo, suscitando anche un profondo moto di riconoscenza per la la loro abnegazione.
Le segnalazioni e proteste di questi lavoratori giungono, come sempre dal web si può facilmente verificare, da ogni parte di Italia. Un esempio qui e un altro qui...
Basta questo a giustificare? Ma evidente che no. Ma forse aiuta a capire, che la situazione in cui operano i nostri pompieri è davvero indecente, al punto che i volontari vengono minimamente retribuiti forse per supplire almeno alle carenze di organico, visto che le carenze di mezzi non possono essere risolte che gli esseri umani.
Aggiungiamo un altro tassello: quanto guadagna un vigile del fuoco? Troviamo l'informazione anche in questo caso facilmente sul web in questo sito che spiega come entrare nel corpo. Si parte da 16.700 Leuri lordi l'anno! Se vi pare adeguato, allora nulla di ciò che accade deve indignarvi.

Al loro fianco ci sono i volontari, come abbiamo detto e compreso. Quali sono i loro compensi? E ci sono?
Ci sono! E a quanto si legge sempre sul sito del CONAPO, pure per loro ci sono ritardi e ritardi nei pagamenti.  
Allora dobbiamo prendere sul serio la denuncia di Antonio Brizzi secondo il quale il volontariato è un precariato mascherato?
Mi riservo la risposta.

Ma tutto questo, giustifica? Ancora no e mai giustificherà l'atto malsano e spregevole.
Ci presenta, però, un piccolo interessante quadro, quello di un degrado che mette in difficoltà il lavoro nonché la vita delle persone. E non è difficile immaginare che nel degrado si possa giungere a immaginare il peggio pur di sfangarla.

Avete presente i film americani, i film di quella america bella, felice, ricca e terra di opportunità?
Quante volte, in quei film, vi è capitato di vedere un onesto padre di famiglia, un serio impiegato, una segretaria zelante, un compito addetto alla sicurezza i quali, di fronte alla possibilità di un forte guadagno che può cambiare la loro vita, grama, trista, ordinaria e difficoltosa, decidono di assecondare un rapinatore, di entrare in un brutto giro d'affari, di lanciarsi in una speculazione pericolosa?
E quante volte, questa volta nella nostra Italia, avete sentito di un impiegato comunale che mette a rischio il proprio posto di lavoro, nonché la propria onorabilità, per una mazzetta di mille, duemila euro? Quante mazzette prenderà all'anno quell'impiegato, dieci, quindici? Di certo non sono soldi con cui scappa alle Bahamas per non tornare più, lui e la sua famiglia. Così come difficilmente la zelante segretaria statunitense immagina di girare il mondo in Yacht per il resto dei suoi giorni.
Qual è dunque la questione?
La questione è che abbiamo destrutturato un mondo basato sul concetto di socialità e di Stato forte che si occupa dei propri cittadini, poiché i cittadini stessi sono lo Stato, e abbiamo... messo il denaro davanti a tutto. Abbiamo cercato e realizzato la competitività, il libero mercato, il mondo delle opportunità ma solo per quelli "che ce la fanno", gli altri si arrangino, il darwinismo eletto a sistema... abbiamo ucciso la solidarietà, e continuiamo a ucciderla ogni volta che un lavoratore sciopera per difendere i suoi diritti e un altro lavoratore si lamenta dei disagi che lo scioperante gli provoca.

Il Denaro, la dea Mammona, è più importante di tutto perché è la sola cosa che può risolvere qualsiasi problema: curarsi bene, educare i propri figli al meglio, vivere momenti senza pensieri, fare vacanze di buon livello, soddisfare i propri più strampalati bisogni, assicurarsi una vecchiaia serena...
"Ma anche prima era così!".
Mi spiace NO.
Il Paese che dal dopoguerra si era cominciato a costruire, e che viaggiava su binari efficienti, prevedeva una solidarietà sociale che garantiva vita dignitosa all'operaio come al piccolo e medio industriale. E questo lo abbiamo distrutto.

A questo punto, fermatevi un attimo a riflettere e chiedetevi: è possibile che un gruppo di quindici persone, con le proprie difficoltà di vita, abbia architettato un piano malefico che gli consentisse di arrotondare lo stipendio, come l'impiegato del film americano decide di partecipare alla mega truffa per mandare i figli all'Università?
Lasciate per un attimo il moralismo un tanto al chilo, vuoto e inutile se non servisse solo a farvi sentire a posto con la coscienza, e pensateci: quante volte avete detto, un po' per celia e un po' per non morir, "Eh, ma vabbè!... ma magari se me li trovavo davanti io quei soldi, me li prendevo..."?
Mai? Sicuri che la morale che applicate agli altri non può investire in alcun momento della vostra vita anche voi? Nemmeno per il pensiero? Sicuri che non avete mai pensato che l'immigrato vi ha stufato quando vi vuol vendere le borse false sulla spiaggia, che avete sempre pagato perfettamente il parcheggio, che non avete mai buttato un piatto di plastica nel contenitore della carta?

Quanto avranno preso per questo loro giochino perverso e schifoso quei quindici volontari alla fine? Duemila euro a testa? Millecinquecento? Tremila?
Meno male che li hanno scovati e fermati perché il danno recato a noi, alla nostra terra e alla natura era enorme, forse dieci, forse cinquanta volte tanto, ma siamo proprio sicuri che nessuno di noi possa mettersi nei loro panni?

Non sto dalla loro parte come scritto nel titolo (provocatorio, altrimenti non leggevate nemmeno le prime due righe...), ma forse un quadro di comprensione del fenomeno possiamo tirarlo giù.
Ricordandoci - last but not least - che il tutto avveniva al Sud.
Qualcuno ricorda qual è il tasso di disoccupazione da quelle parti?

Mai per giustificare, ma solo per comprendere.

sabato 5 agosto 2017

AGOSTO, LA QUARESIMA DELL'ATTORE

Esercizio di autosuggestione:
non fa caldo
non fa caldo
non fa caldo
non fa caldo
non fa caldo
...

Niente da fare, non funziona. È un agosto infuocato e fuori dal normale quello che stiamo attraversando. Ieri ho ceduto le armi, e sono andato verso un centro commerciale. Me ne vergogno profondamente, ma c'era davvero poco altro da fare.
Le ferie le ho già fatte: memore di mesi di luglio torridi e agosto miti, abbiamo scelto con mia moglie di andare al mare a inizio dello scorso mese. E c'è andata male, perché tutto ci potevamo aspettare tranne che questo signor lucifero che sta letteralmente devastandoci le membra e il cervello.
Dovrei lavorare e non ne ho la forza. Dagli amici di FB scopro di non essere il solo. Ma il mal comune, nel mio modo di vedere, certo sempre un po' pessimista, non è mezzo gaudio, è solo mal comune.
Così, tutto si appesantisce in un mese che per noi attori, lì dove non si lavori (ma chi avrebbe il coraggio, con questo clima, di andare in giro per autostrade e siti marini dove la gente fa il bagno mentre tu soffochi in un costume certamente pesante?...), lì dove non si lavori, è una vera e propria Quaresima.
La conoscete tutti la storiella del perché il viola è considerato in teatro un colore nefasto: nel periodo della Quaresima la Chiesa vietava le rappresentazioni teatrali, il crocifisso veniva coperto con un panno viola, e da qui l'associazione tra il colore e l'impossibilità di fare incasso e quindi nutrirsi. I tempi sono cambiati, e non è certo per la Quaresima che si rischia di rimanere senza piatto in tavola.
Gli attori, però (e quando dico "attori" mi riferisco sempre a quelli veri), hanno sempre saputo volgere gli impedimenti a loro favore. Così, il periodo del crocifisso in viola diventava quello delle nuove scritture, degli spostamenti da una compagnia all'altra, delle prove per la nuova stagione. Altro che ferie. E chi le voleva le ferie. Nella mente di un attore, le ferie sono stare in teatro e andare in scena. Niente retorica, solo percezione di un piacevole stato d'animo determinato dalla propria profonda passione. È così, punto!
Torrido o non torrido, l'agosto, però si presenta ormai da anni come la nostra nuova Quaresima.
Perché? Perché tutto si blocca, uffici chiusi, assessori in vacanza, impiegati in organico ridotto, telefoni staccati, impresari irraggiungibili... non si sa con chi parlare per un progetto, nessuno che abbia voglia di darti cinque minuti di attenzione, e tutte le menti, spesso anche quelle dei tuoi colleghi, sono altrove. Il Crocifisso, insomma, si rimette, che noi lo si voglia o no, che la Chiesa lo abbia ordinato o no, il panno viola. E tu puoi solo stare fermo e aspettare.
Aspettare. E l'ansia cresce. E sì, perché per chi fa un lavoro come il nostro l'attesa non ha nulla di piacevole, alla faccia della pubblicità. La nostra inclinazione è al "fare", al fare e basta. Toglieteci il "fare", ci avrete rimandato in Quaresima.
E allora... nulla, aspettiamo pazientemente che passi, respirando profondo e cercando di controllare l'ansia. Leggiamo dei testi, scriviamo minchiate come questa, cerchiamo di far finta di essere normali, di convincerci che le ferie ci piacciano, e che il riposo ce lo siamo meritati... ma chi diavolo lo voleva 'sto riposo?!
Io no. E sono certo, nemmeno decine e decine di miei colleghi.
Adesso mi sparo un bel Peppino Gagliardi... e aspetto.
Buone ferie, a voi, mentre...
Settembre tornerà ma senza sole... 



mercoledì 2 agosto 2017

SANT'ALFONSO, L'ONOMASTICO CHE... NUN S'È CAPITO

Io, da buon meridionale, all'onomastico ci tengo.
Mi piace che mi facciano gli auguri.
Il mio onomastico, però, ha un problema: si festeggiava il giorno 2 di agosto, parecchi anni fa, almeno quaranta, in una revisione del proprio calendario, la Chiesa lo ha spostato al 1° dello stesso mese.
Da qui, una tenace opposizione soprattutto da parte degli anziani: ricordo perfettamente mio nonno che si ostinava a fare festa iil 2 con invitati in casa, paste e bibite.
La mia era "nuova generazione" e quindi prese a festeggiare secondo i nuovi dettami della Chiesa.
Anche perché, da bambini, la diatriba diveniva vantaggiosa, in quanto ti sparavi due giorni di festeggiamenti, con tutti i piccoli piaceri che ne derivavano.
Oggi, legge di natura, nonno non c'è più e io resto serenamente attaccato alla MIA abitudine e non alla sua.
Dunque, per me, sant'Alfonso Maria de' Liguori si festeggia il 1° di agosto.
Ora, accade che tantissimi amici mi chiamano da giù o mi mandano messaggi sempre con il dubbio: "ma tu festeggi l'1 o il 2?", oppure "non sapevo se farteli oggi o domani - oggi o ieri"... nessun problema. Solo il fatto che tu mi abbia pensato e abbia fatto un gesto per me, ti farebbe perdonare pure se mi mandassi gli auguri il 14 aprile, giorno di Sant'Alfonso di Siviglia, o il 31 ottobre, Sant'Alfonso Rodriguez.
Ma c'è un gruppo che mi diverte profondamente e al quale va tutta la mia più sfrenata simpatia, è quello che inserisce nei suoi auguri la frase: "ancora nun s'è capito si è oggi o dimane...". Io questi davvero li adoro! Perché il "Non si è capito" è sublime nel suo essere il retaggio di una opposizione inconscia al cambiamento ecclesiastico, un po' come uno che se ne stia ancora sui monti a combattere contro i Savoia, come il giapponese che persiste nella sua difesa dell'atollo...
Il gioco su "è oggi o domani" è per me bello. Ma l' "ancora non si è capito" è fantastico. Perché si è capito benissimo, sono più di quarant'anni che la Chiesa ha detto senza tema di smentita "è il 1° agosto".
Ho amici, miei coetanei, che rifiutano gli auguri il giorno 1 per un legame familiare dato che da noi moltissimi portano il nome dei nonni, ma questi lo sanno che vanno contro le disposizioni della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Quelli del "nun s'è capito" non stanno né al governo né all'opposizione, e sono quelli che amo di più. Dal prossimo anno sarò io che farò gli auguri a loro. Di cuore.