venerdì 24 gennaio 2020

RIGOLETTO, DIONISO, RINASCITA, RIVOLUZIONE!


“Il verso esige la declamazione (…)
il verso ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima che scritta,
il verso ricorda sempre di essere stato un canto”.
J. L. Borges

“Molte sono le forme degli esseri divini,
molte cose inaspettate fanno gli dei”
Euripide


“Il sogetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche”[1]. Poteva musicare tanti altri soggetti, Verdi, pare invece letteralmente eccitarsi per questo Triboulet. Crediamo sia doveroso e coscienzioso chiedersi ancora una volta: perché?
         È noto il valore rivoluzionario di “Rigoletto”, ed è evidente che per una profonda comprensione delle “ragioni verdiane” non si può prescindere dal testo di Hugo (di cui il libretto di Piave è ottima sintesi). Inutile, in questa sede, ripercorrere la storia di tutte le difficoltà di rappresentazione incontrate sia da Hugo che da Verdi; ma al di là dei moralismi dell’epoca, cosa c’era in questa trama da crearle così tanti impedimenti? Davvero bastano un sovrano libertino, un personaggio deforme, amori “amorali”, intrighi, sicari, un sacco, ecc. per creare tanto scompiglio? La storia del teatro è piena di libertini anche mitizzati, di deformi illustri anche re, di appassionanti passioni travolgenti… Dunque, bisogna andare oltre, oltre una lettura storicistica, oltre le evidenze, e dirigersi, come scrive Neumann, “all’ambito di una psicologia del profondo applicata alla cultura e ad una terapia della cultura”[2], entrare, cioè, nella sfera di quell’inconscio personale e collettivo perennemente animato da medesime lotte e medesime immagini, dirigersi verso la nostra occidentale “psicologia primaria”, verso il mito, ancora una volta verso l’antico teatro greco.

Tema del doppio, tema del travestimento, dell’illusione, della conoscenza, della follia e della follia amorosa, del sacrificio e dell’agnello sacrificale, vendetta, astuzia,  scontro tra dio e uomo, sostituzione… Sono qui votato alla sintesi (anche per la serenità dei miei dodici lettori, sic!), ma tutto questo porta inesorabilmente ai miti di Dioniso, e nello specifico alla grande tragedia di Euripide Le Baccanti. Chiariamo ulteriormente (ove ce ne fosse bisogno): non si tratta di un “ricalco” della trama, ma di una serie di immagini che alla trama stanno sottese, e che con imperscrutabile virulenza colpiscono e agiscono a livello subliminale, nell’inconscio, personale e collettivo.
Pochi e rapidi esempi: 1) Dioniso porta Penteo a spiare i riti delle Baccanti - il buffone porta la figlia a spiare le “abitudini” del sovrano; 2) Cadmo invita Penteo ad assecondare i riti del dio (“pronunciala la bella menzogna”[3]) - il buffone vive a corte in apparenti simbiotici intenti con il suo re; 3) il dio dona alle donne la follia (che è anche libertà sessuale e riappropriazione di una coscienza, “Impara ad apprezzare le tue forme divine”, dice il re a Maguelonne) - Bianca afferma: “A volte s’incontra un uomo che ci salva la vita o uno sposo che donandoci le sue ricchezze, ci fa invidiare da tutti. Ma questi non sono mai gli uomini di cui ci si innamora. È vero, lui mi ha fatto solo del male, eppure io lo amo e non so il perché.”; 4) Dioniso dice che Cadmo “ha reso inaccessibile questo suolo, questo santuario di sua figlia”, Sèmele, madre del dio, di cui entrambi, per differenti motivi, vogliono preservare l’onorabilità - Rigoletto tiene segregata la figlia; 5) Gilda, travestita, si offre quale agnello sacrificale - Penteo travestito è offerto al rito delle Baccanti; 6) il Duca passa dal libertinaggio sfrenato a intimi sentimenti amorosi - Dioniso è dio doppio, del cielo e degli inferi, del maschile e del femminile, perfettamente due nature convivono il lui; 7) …

Re, Duca, Bianca, Gilda, Triboulet, Rigoletto… i personaggi di sono confusi in questa mia necessariamente rapida esemplificazione, poiché Verdi e Hugo, uomini di un tempo comune, sono, nel profondo, vicinissimi. Si impuntò, Verdi, con la censura, per alcuni elementi: “Deve essere un sovrano assoluto; il sacco è un effetto che funzionerà; il buffone deve essere deforme…”, evidentemente sentendoli indispensabili; né accetterà di mettere la sua musica sotto differenti proposte di testo, perché alla fine di tutto il suo linguaggio non è quello delle parole (forse anche per questo insisterà con Piave per la sintesi), ma quello della musica. E nelle forme della musica si possono ritrovare gli stessi motivi di Hugo.
Attraverso differenti linguaggi i due artisti si pongono come spina nel fianco degli ordini costituiti, prospettano altre vie, propongono altre forme, perché così parla l’arte: principalmente per forme, meno per contenuti, e questo è evidente se si pensa che le storie che si raccontano sono, in fondo, bene o male sempre le stesse.
Il romanticismo è certamente una espressione del femminile, inteso in senso junghiano. “Tagliare la testa al re” è, simbolicamente, l’abbattimento del sistema maschilista-patriarcale. Alle rivoluzioni seguì la Restaurazione, ennesimo tentativo di soffocare gli aneliti di cambiamento e liberazione dagli assolutismi che poi si perpetueranno per buona parte dell’800. I grandi discorsi di Hugo in difesa delle donne, la violenta tirata di Triboulet contro i cortigiani pronti per il potere a far mercato delle proprie mogli, sono solo pochi dei tanti segnali che animano lo scrittore e tutta un’epoca. Il femminile è, tra le altre cose, la creatività, la fantasia, l’interiorità, l’immaginazione (bisognerà attendere il ’68, dopo due guerre mondiali, per risentire, proprio in Francia, un motto chiaro: “l’immaginazione al potere”). Il sistema maschile-patriarcale è tendente allo scontro, alla guerra, alla tirannia, e “Eros è sempre sospetto in un sistema tirannico” (Jan Kott). La liberazione, per essere attuata nel profondo, deve essere innanzi tutto liberazione sessuale. Se Verdi fu realmente quell’uomo del nostro romanticismo e del nostro Risorgimento che conosciamo, come poteva non fare propri questi aneliti trasportandoli nel proprio linguaggio? A ben riflettere su questo discorso del femminile, un sottile, robusto, preciso filo rosso lega Rigoletto a La Traviata
Su tutto ciò (ed anche su  altro) s'innesta il violento simbolo della maledizione: lanciata da un uomo, essa stacca nettamente il servo dal padrone. Rigoletto e il Duca vivono in una sorta di simbiosi orgiastica, è spesso il buffone a spingerlo “sulla via della perdizione” (o almeno questa è la sua illusione), ma la maledizione si pone come spartiacque tra le nature profonde dei due. Il sovrano assoluto, simbolicamente dio, non ne è minimamente toccato: cosa può l’invettiva di un uomo su di un dio? Per il buffone, invece, questa si trasforma in un’ossessione, in quella che in psicologia si definisce profezia che si autoavvera (praticamente “portarsi sfiga da soli”, sic!).

C’è sicuramente una punta di grottesco in ciò che diciamo, come ce n’è nel personaggio centrale dell’opera, in Rigoletto. Ma il grottesco è parte viva, integrante di tutto il teatro moderno, certamente da Shakespeare in poi, è quella qualità che Jan Kott definisce come “l’impossibilità di compiere la tragedia in un mondo tragico”[4]. E non deve meravigliare se Verdi vede proprio in questo personaggio grottesco, ambiguo, padre amoroso, servo crudele, uomo maltrattato dalla vita, gobbo, ciò che gli serve per scardinare gli schemi. E anche per il musicista, la novità espressiva passi proprio attraverso questo magmatico protagonista.
Sono state scritte centinaia di ottime pagine che illustrano la volontà del Maestro di Busseto. Non ripeteremo qui, noi, il discorso del volere un “Teatro in musica”, la voglia di “raccontare la vita”, la ricerca dei grigi, com’è stata definita. Magistralmente la descrive Gabriele Baldini[5]: “Mettersi nella situazione di Rigoletto e provare semplicemente a recitare le parole di Piave (…) la musica drammatica non era mai arrivata a tanta impudicizia nel rilevare l’espressione umana delle parole: anziché rivestite di musica, le parole apparvero come spogliate di essa (…) e apparvero in tutta la loro nudità”. Entra (o torna?) in gioco con Rigoletto proprio quel declamato, nato proprio negli antichi teatri greci, che accompagnerà Verdi fino alla fine, e riuscirà ad aprire alla musica operistica nuove, vigorose strade.
Ma anche qui credo si possa ancora “scavare”, in questa ricerca di rapporto con il mito, e quindi con il profondo, che propongo. Con le mie misere - davvero misere! - competenze musicali, provo a sgranare pochi, rapidi esempi: 1) il funesto presagio è già tutto nel preludio, con quel ritmo da marcia funebre, scandito su un secco do centrale che diviene leitmotiv della maledizione - Dioniso, nel prologo de Le Baccanti giunge già con volontà di vendetta: “È Tebe, la prima città di questa terra ellenica/ che io agito con le mie grida (…)”; 2) dal “Questa o quella” al corteggiamento della Contessa di Ceprano il cambio è totale, repentino, ma sempre su stessa tonalità - Dioniso, si è detto, è dio doppio, del cielo e degli inferi; 3) in Gilda la convenzionalità della prima aria va pian piano scomponendosi fino alla follia - Agave resa folle dal dio giunge fino all’omicidio del figlio; 4) il Duca si allontana, si perde nella notte: l’acuto che la consuetudine ha posto alla fine della “canzonaccia da taverna” è evidentemente erroneo, Verdi lo vuole quale ultima nota del sovrano, con una ricaduta sulla tonica che è chiusura del percorso - Dioniso, compiuta la vendetta e ottenuto il sacrificio rituale, riprende il suo cammino: “Poi rivolgerò il mio piede verso un’altra terra/ per rivelarmi ancora”[6]; 5) il coro del Rigoletto è “monosessuale”, come quello de Le Baccanti; 6)…
Un’ultima notazione: non c’è praticamente mai sole in questa trama, ma sopra tutto non c’è luna. Il sole è assente poiché al suo posto c’è il sovrano-dio intorno al quale tutto ruota. La luna è assente perché già morta, già predestinata, come Gilda, al sacrificio, e predestinata proprio da quel maschile (Rigoletto) che per paura di perdere potere, per paura di vedere mutato il suo ordine consolidato, e mascherandosi dietro una idea di protezione assoluta, la nasconde, segrega, tiranneggia, soffoca fino a costringerla alla fuga estrema e rovinosa. L’oscurità in cui è immersa tutta l’opera è l’oscurità del profondo, scena primaria della eterna lotta tra maschile e femminile.

Spero di avere reso, con queste mie poche righe, l'idea di una scelta, voluta ad ogni costo, l'idea di un'opera che è qualcosa di più per la storia del Teatro musicale di quanto forse tutti noi immaginiamo e di quanto fino ad oggi è stato immaginato: "attaccandosi" strenuamente a questa storia, Verdi sentì di sicuro che un sacrificio era necessario per la rigenerazione dell'Opera, per quella Rivoluzione nell'Opera ch'egli agognava sentendola fondamentale per la creazione del suo Teatro in musica.  
Nel momento in cui Rigoletto canta "Pari siamo", il dado è tratto, e l'Opera non è più l'Opera fino ad allora conosciuta, il concetto stesso di Aria è smontato, si entra in un mondo nuovo, si compie il Teatro in musica; ma perché la rinascita si adempia è necessario un sacrificio, è necessaria la vittima che accolga in sé, coscientemente, peso e senso di quel sacrificio. Gilda va alla morte consapevolmente.

Baccanti è certamente la più complessa, e misteriosa, delle tragedie giunte fino a noi; Le roi s'amuse di Hugo è anch'esso una possente scarica data nel profondo; Verdi accoglie tutto ciò che da questi precedenti gli deriva, lo fa proprio e lo rimanda sulla scena, compiutamente. 
Si consideri solo un curioso elemento: nella tenuta di Sant'Agata non sono presenti volumi contenenti tragedie greche; la potenza del Mito scavalca la conoscenza.

Scritto a Roma nel 2010, prima di iniziare l'avventura di "Rigoletto a Mantova"
Decisomi a pubblicare solo oggi, Salerno 2019



[1] Lettera di Verdi a Piave del 28 aprile 1850
[2] Erich Neumann, La psicologia del femminile, Astrolabio-Ubaldini Editore, 1975
[3] Le citazioni da Le Baccanti sono tratte dalla traduzione di Eduardo Sanguineti, SE, 2003
[4] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Feltrinelli, 1964
[5] il sempre splendido Abitare la battaglia, Garzanti, 1983

giovedì 16 gennaio 2020

SCUOLE IN VENDITA - La falsa indignazione sulla scuola del Trionfale di Roma

Sarò breve, e sul serio. 
Ho letto e sentito di tanta indignazione per quella scuola, pubblica, di Roma, zona Trionfale, che aveva nel suo POF, Piano Offerta Formativa, una sorta di catalogazione dei suoi plessi in scuola di serie A, per le classi medio-alte e per i figli di colf e badanti di quelle stesse famiglie agiate, e scuola di serie B, per extracomunitari, ceti bassi, e tutti gli altri sfigati della terra. 
L'istituto, abbiamo poi saputo dagli indignatissimi tg, ha poi corretto quanto scritto nel suo POF, e la preside, anzi, scusate, il Dirigente Scolastico, si è dovuto precipitare a spiegare e giustificare e scusarsi. 
Ecco: tutta questa indignazione è assolutamente fuori luogo, ma in linea con i tempi che viviamo. 
Fuori luogo perché coloro che si indignano sono esattamente coloro che hanno ridotto la nostra Scuola pubblica a un vero e proprio mercato, nel quale le singole scuole si vendono, si offrono come il paradiso dell’istruzione, l'avveniristico ginnasio nel quale i tuoi figli avranno il meglio del meglio, mettendo gli istituti uno contro l’altro e addirittura i docenti gli uni contro gli altri, perché se non si raggiunge un certo numero di iscritti rischiano di saltare le classi e in conseguenza le cattedre. 
Gli orrendi riti degli Open Day, o addirittura i Saloni d’orientamento, nei quali come in una feria si piantano gli stand, i banchetti delle singole scuole, tra i quali girano famiglie a caccia di informazioni per decidere del futuro dei propri rampolli. Un vero e proprio mercato. 
E allora parliamoci chiaro: quando devi vendere, anche perché al vendere è legata la tua sopravvivenza, cosa fai? Cerchi o no di assecondare interessi e gusti del tuo potenziale cliente, cerchi di attirarlo, gli proponi o no quel che a lui può piacere o interessare?  
E questo ha fatto la scuola del quartiere Trionfale di Roma: ha cercato di vendersi sulla base dei gusti dei suoi potenziali clienti; clienti che, non essendo nata da poco, conosce meglio che per una indagine di mercato. 
Si sbandiera indignazione,si urla allo scandalo, ma chi lavora nella scuola sa bene che negli istituti delle cosiddette “zone ztl” extracomunitari non ce ne sono o sono pochissimi, mentre abbondano, fino ad essere anche maggioranza, nei plessi delle periferie; e dalle inchieste di qualche giornale sappiamo pure che i "figli della ztl" quando si ritrovano in classi che hanno "presenze a loro sgradite” vengono dalle famiglie spostati in “situazioni preferibili”. 
Quello che la scuola del Trionfale aveva scritto era, guarda caso, proprio nella OFFERTA formativa. A questo è stata ridotta la Scuola, questo la Scuola deve fare per sopravvivere: OFFRIRE ai suoi potenziali clienti un luogo che risponda ai loro desiderata.
Dunque l’indignazione è fuori luogo. Ma pienamente in linea con la mistificazione costante dei tempi che viviamo, che vuole l’accoglienza ma non a casa propria, che chiede diritti civili ma dimentica quelli sociali, che fa collette per i terremotati, ma trova normale che sia impedito allo Stato di agire, che inneggia alla competizione ma blocca l’ascensore sociale, che propaganda la meritocrazia ma attua il peggior familismo… 
A che serve l’indignazione? A risciacquarsi la coscienza, soprattutto davanti a quel popolo bue che, insufflato dai Media compiacenti, continuerà a parlare dello scandalo della scuola del Trionfale di Roma mentre ai suoi figli sarà impedito di entrare nelle aule dei "figli della ztl".  

domenica 12 gennaio 2020

TORNARE INDIETRO! (SE AMATE IL TEATRO, BUTTATE NEL CESSO I LIBRI)

Qualche sera fa sono stato a teatro a vedere uno spettacolo che non vi dirò. Anche perché non ne vale la pena: oramai sono tutti uguali, sciapiti, insignificanti.
All’inizio della mia carriera c’era un importante organizzatore teatrale che guardavo da lontano per motivi di timidezza, io ultimo arrivato, ma gli sentivo ripetere, per dire che uno spettacolo non riusciva a colpire lo spettatore, che non era in qualche modo compiuto: “Non c’è coito, non c’è coito!”. Ecco, gli spettacoli degli ultimi anni paiono essere affetti da profonda prostatite. E per dirvela tutta, all’Opera è lo stesso. La stessa noia!
Il motivo di questo diffuso torpore? È presto detto: la crisi economica.
Ma i soldi, da soli, sparsi a pioggia come un tempo, basterebbero a rivitalizzare un teatro comatoso?
No. Perché la crisi è figlia e madre di quello stesso problema che ci ha lentamente succhiato il sangue fino alla attuale destabilizzazione. La crisi è di idee, di filosofia, di un modo di intendere il teatro, di intendere lo spettacolo (non sono la stessa cosa!), con un criterio che oggi, dopo almeno 40 anni di propaganda culturale, sta mostrando tutti i suoi limiti. Se l’economia è nella merda è perché la filosofia che ha condotto la politica era merda! Spero che così vi sia chiaro. E la Cultura, nelle sue varie espressione artistiche, è stato veicolo di questa merda. E se ora si ritrova nella merda è solo colpa di quella merda che voi non avete voluto vedere per quello che era: merda!

Entrando nello specifico, cercherò di essere chiaro e semplice: quello che ha ucciso il teatro italiano è l’intellettualismo. L’intellettualismo, se si vuole rinascere, va preso e buttato nel cesso. Senza mezzi termini.
L’intellettualismo è stato il veicolo attraverso il quale quelli che non sapevano, e non sanno, fare hanno giustificato, e si sono visti giustificare da critici compiacenti, il loro non saper fare, il tutto con l’intento di imporre una linea culturale e dunque politica. 

Non so se riuscirò in un solo post a dire tutto quel che penso sul problema. Che è molto più profondo e vitale di quanto crediate. Di sicuro c’è in giro un “non saper fare” che devasta l’attività teatrale.
In questi giorni mi sono tornati in mente due aneddoti: il primo riguarda Mario Ferrero, il quale aveva al suo attivo oltre 200 regie tra teatro, televisione, radio; non aveva mai fatto Amleto. Ebbene, Mario diceva che se gli fosse capitato, avrebbe buttato a mare tutti gli studi, le analisi, i libri di critica e avrebbe voluto raccontare “la storia di uno che sta su una terrazza a fare la guardia di notte, arriva un altro e gli urla ‘chi va là’, e poi arriva…”. Nella sua asciuttezza, Ferrero indicava, circa 30 anni fa, che ci si stava rintorcinando sullo psicologismo, sull’intellettualismo, sul cervellotico, e nessuno faceva una cosa semplice ma sempre necessaria: raccontare la storia.
Uno dei grandissimi problemi con molta regia contemporanea è l’idea che il cosiddetto regista si porta in corpo che tanto il pubblico conosce la trama. Non è vero, non è detto, lo spettatore ha il diritto di non conoscerla, e soprattutto abbiamo dimenticato che paga perché gli venga raccontata una storia e non per leggersela a casa, e ancor più ricordiamo che NON paga per vedere le elucubrazioni di un signor nessuno sul palcoscenico. 

Allo spettatore, di quel che tu pensi di Amleto, o di quali “sensi ti stimola” non gliene frega un emerito cazzo! 

Al massimo quel che ne pensi può passare attraverso il racconto, attraverso le battute, i movimenti, le scene, i costumi ecc. e se sei bravo, ma proprio bravo, gli arriva. Ma perché tu sia bravo e gli arrivi, ti servono GLI STRUMENTI DEL MESTIERE.

E qui veniamo al secondo aneddoto, che riguarda una nostra somma attrice, Anna Proclemer: faceva uno spettacolo con una giovane, in quel momento in voga per via di qualche film scollacciato, gliela avevano messa accanto… e pazienza, la grande Anna sopportava, anche perché a un "mostro" di tal genere non viene nemmeno in mente di mettersi in competizione con una tizia qualsiasi che poi, come era ovvio, è finita nel dimenticatoio.
Ebbene, la giovinetta tutte le sere andava due ore prima di spettacolo in palcoscenico a fare dei training, concentrazione, esercizi, riscaldamenti, intense meditazioni e immedesimazioni…
Una sera, Anna, a tavola con amici, con la calma serafica di chi può permettersi di guardare dall’alto in basso, tirò fuori una delle sue battute al vetriolo: “Stanno lì due ore, si concentrano, fanno gli esercizi, i riscaldamenti, le cose… poi vanno in scena… e non succede un cazzo!”.
Qualche sera fa, a teatro, da spettatore privilegiato che può andare dietro le quinte prima di spettacolo a salutare i colleghi, mi è accaduto di vedere proprio quel che diceva la Proclemer: giovanotti e/o giovanotte che si davano a intensi esercizi di preparazione, poi, aperto il sipario, non si capiva che cazzo dicessero, perché e come, anzi, un paio non si sentivano nemmeno non ostante il rinforzino di microfoni che c'era in proscenio.

Allora, ragazzi, qui il problema è serio e, o lo affrontiamo di petto e senza preconcetti, o qualsiasi cosa penserete di fare per il teatro del futuro sarà perfettamente inutile. Perché quello che si sta dissolvendo è IL MESTIERE nella sua essenza, nella sua semplicità, nel suo valore profondo e storico. Se lo volete capire, bene, altrimenti non so davvero più cosa farvi.
Qui si sono messe su scuole e scuolette di teatro da dove escono masse di NON ATTORI, gente che crede che “ ‘a concentrazione” sia più importante del semplice (“semplice” non è “facile”) saper dire una battuta “tutta, forte e chiara” come dicevano i nostri maestri. Abbiamo maltrattato e vilipeso per decenni “l’intonazione”, ebbene il risultato è che si è perso completamente l’orecchio al suono, al COME viene detta una frase: COME che poi è anche un PERCHÉ. Non si vedono più in giro registi capaci di dire a un attore che la battuta è detta male e come andrebbe detta (senza otto ore di spiegazione, ma facendo!), che non sanno correggere e indicare un movimento, che non sanno fare il lavoro delle persone che dirigono. Strehler diceva che “un regista nasce attore e muore attore”. Oggi siamo davanti a una serie di mezze seghe intellettuali incapaci di guidare i loro protagonisti. E infatti, i nostri teatri sempre più ricorrono a registi stranieri, che in realtà non fanno altro che fare quello che noi italiani, fino alla fine degli anni ’90, facevamo tranquillamente e molto meglio di costoro.
E così come  per i registi il problema investe i MAESTRI nelle scuole. Dove ciascuno pensa di insegnare UN METODO prima ancora che un mestiere, un artigianato. Nella illusione, dispensata quella sì a pioggia, che seguendo quel tal metodo si sarà attori. NON è COSì!

E anche questa tendenza fa parte della merdosa ideologia di cui sopra: perché ciascuno insegna con l’intento di imporre, indirettamente, una propria visione del teatro.
Per cui avremo gli allievucci di Ronconi che vorranno convincere gli allievi che ER TEATRO esiste solo in quel modo, e così gli allievucci delle avanguardie, e poi quelli che hanno fatto ER CORSO in amerika o a pariggi o nella russie ecc. ecc. ecc.
In un modo o nell’altro tiriamo fuori allievi che sanno pensare tanto, ma non hanno la grammatica di base per fare, e se un giorno si trovano difronte a qualcuno che gli chiede una cosa specifica, vanno in crisi.

Sbattetevi quanto volete, con la politica, con la cultura, con l’economia, ma se non torneremo dannatamente indietro, a quando un qualsiasi capocomico insegnava i fondamenti del mestiere al giovane attore (“dilla così, alza la voce, respira qua, girati di là, vieni a favore pubblico, usa l’altra mano, esci così…”), non ne verrete a capo.
Se davvero volete bene al teatro, buttate nel cesso tutti i libri, e tornate a insegnare il mestiere. Sarà un gesto di vera democrazia - in un mestiere che non è democratico, grazie al cielo! - perché lascerete liberi gli allievi di maturare da soli il proprio percorso, di avere tutti la stessa grammatica di base a disposizione, di poter crescere ciascuno secondo le proprie inclinazioni.
Date loro “le regole del gioco”, poi lasciateli giocare. Se davvero amate il teatro. Se davvero siete democratici. Se davvero siete di sinistra! 
Resta una sola domanda: SIETE ANCORA CAPACI DI INSEGNARE IL MESTIERE?


ps - COME AVRETE POTUTO NOTARE, IN QUESTO POST NON CI SONO LINK, SE VI INTERESSA SAPERE CHI SONO CERTE PERSONE, CERCATE. cerea