lunedì 23 ottobre 2017

LEONILDE CHE NACQUE QUAND’ERA GIÀ NATA

(Ho scritto questo post ieri, riesco a pubblicarlo soltanto oggi. Io sono stato un bimbo fortunato perché ho potuto ascoltare centinaia di storie)

Oggi, 22 ottobre, sarebbe stato il compleanno di mia nonna. Ma non lo era, e fin dalla più tenera età non lo è mai stato. Perché mia nonna venne al mondo dopo essere venuta al mondo.
Leonilde Grauso di Giuseppe, commerciante in profumi, e Lucia Brizzi, ballerina del Regio Teatro di San Carlo, vide la luce in Napoli, alla via dei Fiorentini, quartiere de “i guantai”, nel 1904.
Quando Leonilde emise il suo primo vagito, Giuseppe Verdi era morto da circa tre anni, e Giacomo Puccini era pienamente sulla cresta dell’onda. Al Maestro lucchese è legata la carriera teatrale di nonna Leonilde, cominciata e finita nello stesso giorno con un “protesto”.  Era infatti il 1910, così raccontava nonna, e al San Carlo si dava la prima partenopea di Madama Butterfly, occorreva, come testo richiede, il figlioletto di Pinkerton e Cio-Cio-San, e Leonilde, paffutella e dai bei riccioli biondi per via della sua ascendenza asburgica, venne scelta.
Fu condotta da mamma Lucia alla prova generale, e dopo avere ricevuto le semplicissime istruzioni per il ruolo, vestita e truccata di tutto punto, giuoco meraviglioso che a sei anni la rese ovviamente raggiante, svolse la sua parte con assoluta diligenza. Quando però durante la drammatica aria finale il soprano protagonista la prese in braccio… beh, il bimbo/bimba si rivelò decisamente paffutello. Pesava troppo: protestata! Così ebbe inizio e fine la carriera teatrale di Leonilde Grauso, che da quel momento fu condannata per tutta l’infanzia a vedere il teatro da dietro le quinte.
Nonna, infatti, amava la tombola, ed ogni natale ci costringeva, sia pur con elegante discrezione, a qualche giro di quel gioco che tutti noi trovavamo noiosissimo. Ma cedevamo con amore, perché dai suoi racconti sapevamo che da bambina, ogni benedetto venticinque di dicembre che nostro Signore mandava in terra, dopo il più classico dei pranzi natalizi, mentre gli altri familiari si apprestavano a giocare con cartelle e bussolotto, lei era obbligata ad accompagnare mamma Lucia in teatro perché aveva spettacolo. Come poteva non intenerirci l’immagine di quella bimba strappata a forza dal tavolo dei giochi per passare il pomeriggio tra le quinte di un polveroso palcoscenico, sia pur glorioso come quello del San Carlo?
Da allora, nei suoi ricordi, come in quelli di sua sorella Giovanna, per noi tutti zia Giovannina, rimasero impressi indelebilmente il Ballo Excelsior e tutte quelle Opere che contenevano un balletto, evidentemente perché in tali occasioni per Lucia era più facile ospitare i suoi familiari in teatro. La forza del destino, per esempio, sarà anche un’opera che gode ancor oggi di maligna fama, ma nonna Leonilde e zia Giovannina la canticchiavano con una leggerezza che poteva essere soltanto ricollegata al ricordo dell’infanzia.
Leonilde vide due guerre mondiali, ma di sicuro quella che maggiormente incise sulla sua esistenza fu la prima, che portò con sé, insieme con gli americani che venivano ad aiutarci, la terribile epidemia di influenza spagnola. Quella influenza si portò via mamma Lucia. Papà Giuseppe invece si salvò, forse perché, questa la teoria di zia e nonna, perse tanto sangue dal naso, e con quel sangue scaricò il feroce morbo.
Le due ragazzine, al contrario, dall’epidemia non furono nemmeno sfiorate. Anzi, per tutta la vita non conobbero il fastidio di una febbre o di un comune malanno. La sola volta che vidi nonna nel letto, fu quando, già avanti con l’età, cadde da un tavolo sul quale era salita, benedetta donna!, per spolverare un lampadario, e si ruppe un femore.
Quando le due sorelle si incontravano – per una serie di contorte circostanze, nonna era finita a vivere a Salerno, Giovannina a Roma - chiacchierando tornavano alla loro infanzia. Immancabile, in quelle occasioni, saltava prima o poi fuori l’attribuzione della loro incrollabile salute a “l’uomo della vacca”. Tutte le mattine, infatti, passava sotto la loro casa di Napoli, un contadino che conduceva una mucca, dalla quale per un soldo ti mungeva un bicchiere di latte. Mamma Lucia, dicevano, su quel bicchiere di latte era inflessibile, e doveva essere stato proprio quel latte “sporco”, altro che pastorizzazioni, a costruire la loro invalicabile barriera immunitaria.
Fatto sta, che la spagnola si portò via mamma Lucia nel fulgore degli anni e della carriera, e dopo poco tempo papà Giuseppe, detto ovviamente Peppino, volle risposarsi con una loro parente, che aveva solo due anni più di nonna, la diciottenne Costanza. La cosa era per Leonilde inaccettabile! Così decise, carattere mite ma inflessibile, di andarsene a Roma in casa della zia di cui portava il nome, la quale aveva sposato un nobile signore della capitale. Fu felicemente accolta e lì rimase. Il nobile zio acquisito, era proprietario di alcuni cinema a Roma. Le sere si passavano lì, tra film, chiacchiere, spumoni e risate, e in uno di quei cinema, ormai ventiduenne, Leonilde conobbe un giovane messinese di due anni più giovane di lei, Antonio, detto Totò. Anche Totò si era dovuto trasferito a Roma per una serie di vicissitudini familiari, sia pur di diversa natura, ed era diventato ufficiale della Milizia.
Contro l’iniziale volere della madre di lui, che non vedeva di buon occhio un matrimonio con una donna più grande, Leonilde e Antonio si sposarono, ebbero sei figli, di cui due morti prematuramente, affrontarono un’altra guerra, le mille traversie di ciascuna vita, e alla fine, tra gli altri nipoti, si ritrovarono sulle ginocchia… il sottoscritto.
Sottoscritto che bene di testa non è mai stato. Ero il solo, infatti, una volta scoperta la storia, a non farle gli auguri il 22 di ottobre per quel suo fasullo compleanno, arrabbiandomi e non capendo come tutti gli altri potessero partecipare – vilmente a mio parere – a quella farsa andata in scena fin dal suo primo anno di vita. Io gli auguri glie li facevo nel giorno giusto, e nonna ne rideva compiaciuta.
Sui documenti di Leonilde Grauso – in origine Kraus, poi cambiato sotto regime fascista – era scritto che aveva visto la luce del cielo di Napoli il giorno 22 ottobre. Ma l’aveva davvero vista quella splendida luce?
C’era all’epoca una norma – non credo esista ancora - per la quale se non andavi subito a dichiarare la nascita di un bimbo, pagavi una sanzione. Nonno Peppino, così narra la leggenda famigliare, non era un uomo di manica larga, anzi pare fosse abbastanza… tirchio.
Il giorno 20 di ottobre, quando in verità Leonilde Grauso venne al mondo, suo padre Giuseppe non poté uscire di casa, nessuno poté uscire di casa, perché il Vesuvio, in quei giorni, “pioveva cenere”. Il cielo, racconta la storia famigliare, era un unico tappeto grigio, e nonna venne alla luce… senza vedere la luce.
Come avrebbe fatto, dunque, nonno Peppino a registrare per tempo la nascita della sua prima figlia evitando la sanzione? Semplice: attese, finché la pioggia grigia si placò, poi corse all’ufficio comunale e senza colpo ferire dichiarò che la sua bambina, Leonilde Grauso, di Giuseppe e Lucia Brizzi era nata… due giorni dopo, il 22 ottobre.
Papà Vesuvio tenne quella bimba per due giorni al caldo sotto la sua coltre grigia, forse volendole insegnare fin da subito che: “la vita non è soltanto sole”. Leonilde, penso talvolta, evidentemente apprese subito la lezione, la sua vita fu dura, come quella di tanti altri, ma certamente, lo ricordo bene, non perse mai la leggerezza regalatale da quella pioggia di cenere che segnò la sua venuta al mondo, non perse mai il sorriso.   





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