martedì 22 dicembre 2020

MENU' DI NATALE (ovvero delle Tre cime di Lavaredo)

Su richiesta di un simpatico amico di Twitter, espongo menù di massima delle tre giornate natalizie. 
Al termine del post capirete perché queste vengono soprannominate Tre cime di Lavaredo, ricordando le mitiche e faticose scalate dei grandi campioni del ciclismo: questa è roba da campioni. 

24 sera, la vigilia (orario inizio cena, non prima delle h 20,00) 
Cima 1: La Grande

- nzalata 'e pesce e/o frutti 'e mare (crude e a sotè!)
- vermicielli a vongole ('e spaghette mangiatille tu!)
- baccalà: fritto ('o mussillo), a' nzalata e a' spagnola
- nzalata 'e riforzo
- vruoccole 'e natale
- furmagge (tuoste e musce)
- frutta fresca
- frutta secca
- dolci di natale (roccocò, mustacciuole, susamielle, struffoli, fiche a cioccolato e cu 'a noce mmiezo, pandoro e panettone)
- vini a preferenza, spumati secco e dolce, grappe e/o amari a piacere
... - cafè amaro (per digerire!) 

commento finale d'obbligo, con aria di sufficienza: "E che ce simme mangiato..."


25 Natale: IL PRANZO (orario di inizio non prima delle 13,30) 
Cima 2: Cima Ovest

- antipasto... se salta! jate direttamente a...
- Menesta ammaretata, e po' 
- Lasagna
Oppure: 
- Tortellino o tagliuline c''o brodo ('e carne: manzo e pullastro) 
- Arruosto 'e carne, oppure
- Crapetto, oppure 
- Cuniglio (No 'a carne d"o brodo, nu' sbagliate!)
- patane (fritte, ma meglio a' fforno), e poi sempre...
- nzalata 'e riforzo
- vruoccole 'e natale
- furmagge (tuoste e musce) +
- avanzi vari della sera prima
- frutta fresca
- frutta secca
- dolci di natale (roccocò, mustacciuole, susamielle, struffoli, fiche a cioccolato e cu 'a noce mmiezo, pandoro e panettone)
- vini a preferenza, spumati secco e dolce, grappe e/o amari a piacere
... - cafè amaro (per digerire!) 

commento finale d'obbligo, con aria di sufficienza: "E che ce simme mangiato..."

 26, Santo Stefano: pranzo (orario di inizio, non prima delle 13,00)
Cima 3: Cima Piccola

(e qui serve l'italiano se no non ci capirete una mazza!)
Prendete il manzo con cui avete fatto il brodo (solo il manzo), mettetelo in una grande pentola, aggiungete una quantità quasi uguale di: cipolle rosse, patate a tocchi, pomodori pelati, olio, sale, pizzico di pepe, aggiungete un po' di acqua e mettete tutto sul fuoco, coperchio e fiamma bassa, come voleste fare un ragù. 
Meglio cominciare nel pomeriggio del 25, perché deve cuocere per ore, tutto deve sfaldarsi, restare morbido e formare, alla fine, una specie di crema. 
La mattina del 26, rimettete il tutto sul fuoco se non ha ancora finito di cuocere. Per nostra esperienza, dipenderà pure dalle quantità e dalla forza della fiamma, ma ci vogliono almeno cinque ore. 
Quando è il momento, mettete la vostra pentola d'acqua sul fuoco e cuocetevi dei meravigliosi paccheri (mi raccomando LISCI, LISCI, LISCI! LA PASTA RIGATA è UNA BESTEMMIA!!!), e conditeli con quella specie di crema (che sia abbondante!), il tutto deve "ruzzuliare", deve rotolare, "ruciuliare" in napoletano, rigirarsi morbidamente e intensamente, like a rolling stone, quindi abbondante formaggio grattuggiato... 
Questo è sua maestà IL RUZZULIONE. Piatto messinese entrato nella tradizione della mia famiglia per via del nonno che era della città sicula. 
Se ne consigliano due piatti. 
Avete così riciclato la carne del brodo. 
Ma non basta, prendete il pollo, fate una salsina verde e servite anche quello. 
Poi... tutti gli avanzi dei giorni precedenti
e ancora...
- frutta fresca
- frutta secca
- dolci di natale (roccocò, mustacciuole, susamielle, struffoli, fiche a cioccolato e cu 'a noce mmiezo, pandoro e panettone)
- vini a preferenza, spumati secco e dolce, grappe e/o amari a piacere
... - cafè amaro (per digerire!) 

commento finale d'obbligo, con aria di sufficienza: "E che ce simme mangiato..."

Ora vi sarà chiaro il soprannome Tre cime di Lavaredo, immagino. Sono tre colli da scalare, con la bici che si fa sempre più pesante e le gambe più dure, ma tranquilli, se sopravviverete, la interminabile montagna alla fine vi sembrerà solo una collina, per quello, passata la fatica, diciamo "scollinare", perché in fondo era tutto poco e nulla. 

Ora riposatevi, riposate lo stomaco, perché il 31 si ricomincia, esattamente allo stesso modo, lo stesso menù, con l'aggiunta di zampone e lenticchie alla mezzanotte del 31, e il sollievo che la terza cima questa volta vi sarà risparmiata. 

Quindi, FANCULO AL COVID, E BUONE FESTE!

mercoledì 9 dicembre 2020

ANTIGONE O CREONTE, CHI HA RAGIONE? (piccola riflessione per il parlamentare del 9 dicembre 2020)

Ma insomma, Antigone o Creonte, chi avrà ragione tra loro due? 
In questi giorni sto analizzando la tragedia con i miei allievi. Il comune lavoro consiste nell'insegnare e nell'apprendere un metodo di analisi del testo e di progettazione registica riutilizzabile con qualsiasi drammaturgia.
Per motivi storicistici, legati al procedere dei programmi scolastici (progressione storica che io apprezzo molto nell'insegnamento), la scelta è caduta su questa tragedia di Sofocle particolarmente gradita ai ragazzi per i temi che vi si dibattono.
Con mio sommo piacere, gli allievi scoprono, procedendo con l'analisi, che i temi non erano proprio quelli che generalmente e superficialmente si raccontano: la ragazza buona e giusta contro il tiranno brutto e cattivo, la donna che si ribella ai soprusi del maschio, la ribellione al potere da parte degli ultimi e degli indifesi e altre "provincialate" del genere. 
Ci sarebbe anche tutto questo, ma in realtà c'è molto molto di più. 

Prima di iniziare con loro la lettura, ovviamente ho ripreso in mano la tragedia, letto diverse traduzioni (io non conosco il greco), rivisto un po' di saggistica e ascoltato delle belle conferenze su YouTube.
Molto interessanti le prolusioni di Gustavo Zagrebelsky, di Eva Cantarella (del cui padre, Raffaele, ho scoperto la splendida traduzione), di Massimo Cacciari... tutto materiale che se vorrete cercarlo, troverete facilmente. 

Parentesi: "io non conosco il greco", "ma allora come fai a dire che è una bella traduzione?". Perché il "nostro metodo", di noi teatranti intendo, non è tanto basato sul fattore filologico, che potrebbe rendere poi, però, non-dicibile un testo sulla scena, ma sulla compatezza, sull'armonia, sulla linearità logica e artistica che il testo tradotto rimanda. In poche parole, l'esperienza teatrale ti dice se quella è o no una buona traduzione, poiché la senti "scorrere" e tenersi logicamente. Gabriele Lavia, tanti anni fa, mise in scena Edipo (sempre del sor Sofocle): ebbene, M° Lavia, che a differenza di me conosce il greco, ebbe a dire in un incontro con noi ragazzi dell'Accademia che aveva scelto la traduzione di Quasimodo perché "Quasimodo non conosceva il greco, ma conosceva il teatro". Gli studiosi rabbrividiranno, ma il problema non c'è, dato che noi teatranti rabbrividiamo spesso ad ascoltar gli studiosi. 

Torniamo a noi: capire Antigone, in verità, è più semplice di quanto non sembri!
Concordo con Zagrebelsky che la ragazza è un gran personaggio "ma io una così in casa non ce la vorrei", perché diciamocelo: la signorina è una gran rompicoglioni. Ma d'altronde, nel mondo della tragedia greca non è né sola né detentrice del primato; credo che nessuna possa usurpare il trono a Elettra, la regina delle rompicoglioni! 
Comunque, per quanto disturbante la signorina figlia di Edipo, nipote di Laio e tecnicamente figlia e nipote di Giocasta, è un gran personaggio; e non da meno è il suo antagonista, lo zio, er sor Creonte (perché questi, poi, so' sempre 'mpicci de famiglia). 

Alla fin fine, la ragazza si attiene alla legge naturale, alla legge tribale, della famiglia; Creonte alla legge della Polis. 
Da qui il dilemma: chi avrà ragione? Nessuno, tutti e due hanno ragione e hanno torto, accettando entrambi, fino in fondo, le conseguenze delle loro scelte e del loro attaccamento alla legge cui vogliono aderire.
 
Un punto importante è nel fatto che Antigone non ripudia le leggi della Polis. Chi pensa che la ragazza rifiuti la legge dello Stato sbaglia alla grande. La figlia di Edipo rispetta la legge, e nel momento in cui decide di seppellire il fratello Polinice sa perfettamente che sta violando un editto reale e che ne pagherà le conseguenze. Conseguenze che accetta in toto e fin da subito. 
Al contempo, Creonte non ripudia la legge della tradizione, dei padri, della famiglia, delle origini della sua gente e della Polis. Se infatti decide per l'editto "anti Polinice" è proprio rifacendosi alla più antica e sacra delle regole del loro mondo: non c'è peccato più grave che attaccare la Patria, che rivoltarsi contro la Patria, che tradire la Patria

Dunque, Antigone non è contro la nuova legge, e Creonte non è contro la legge antica. 
Su cosa, dunque, la tragedia ci invita a riflettere? Sul fatto che dal contrasto tra legge naturale e legge della Polis, nasce una frizione, un contrasto che dà vita alla rigenerazione del pensiero e della legge, e al suo adattamento alle nuove esigenze della vita cittadina. 
E resta un punto fermo: il preservare la tradizione è necessario all'evolversi di una società che non si evolve se non mette in costante discussione la tradizione

Nel contrasto tra i due mondi si spiega così il meraviglioso primo stasimo, il lievissimo racconto del irrefrenabile progresso dell'uomo che chiude con: 

Possedendo, di là da ogni speranza,
l'invettiva dell'arte, che è saggezza,
talora muove verso il male, talora verso il bene.
Se le leggi della terra v'inserisce 
e la giustizia giurata sugli dei,
eleva la sua patria; ma senza patria è colui 
che per temerità si congiunge al male:
non abiti il mio focolare
né pensi come me
chi agisce così. 

(traduzione R. Cantarella - Mondadori) 

Antigone non ha né ragione né torto. Creonte non ha né ragione né torto. Il loro scontro è necessario al progredire della società. 
Sbaglia profondamente chi crede che Antigone (sia pure riletta nel corso dei secoli come l'eroina ante-tirannia) sia nel giusto. Quel che conta è la propulsione che da questo scontro si genera ed è una propulsione positiva, necessaria.

E ci sono vari aspetti che oggi come oggi vanno considerati: per prima cosa che Antigone non pretende di "fare la rivoluzione con l'autorizzazione del re", ella si assume fin da subito la responsabilità dei suoi atti e ne accetta le conseguenze prima ancora di compierli. Non c'è coro di ben pensanti che si erge in sua difesa; il coro della tragedia osserva e riflette, e basta. NESSUNO CREDE CHE SICCOME L'ATTO DI ANTIGONE E' "UMANO" ELLA DEBBA ESSERE ASSOLTA A PRESCINDERE. Pur comprendendo il gesto, ciascuno al contempo comprende che la legge è legge. 
E poi, che ciascuno per l'attaccamento alle proprie scelte paga un prezzo, Antigone con la sua stessa vita, Creonte con la sua stessa carne nella figura del figlio Emone, promesso sposo della ragazza, che finirà suicida. 
E soprattutto, in fondo a tutto ma non meno importante, anzi elemento scatenante di tutta la tragedia un concetto semplice e chiaro: non vi è peggior delitto che il tradimento della Patria

Tutto questo ho voluto scrivere perché i parlamentari del Movimento 5 stelle, oggi, 9 dicembre 2020, lo sapessero. 
Non c'è peggior delitto che il tradimento della Patria. Lo sa anche Antigone
Ella sceglie volontariamente il fratello accettando tutte le conseguenze del suo gesto, ma lo sa perfettamente anche lei che Polinice ha sbagliato. 
L'amore per il fratello, non le fai mai dimenticare l'amore per la Patria. 
Cosa che quei parlamentari hanno dimenticato. 

(continua...)

sabato 21 novembre 2020

IL DESIDERIO DI LIBERTA': Attori Mercanti Corsari, cosa vogliamo essere domani?

Ho ripreso in mano un libro che amo molto e che penso tutti gli attori dovrebbero leggere: "Attori Mercanti Corsari" di Siro Ferroni, professore di Storia dello Spettacolo alla Università di Firenze. 

Il libro ricostruisce quella che possiamo considerare nascita e sviluppo della organizzazione del teatro contemporaneo per come noi ancora lo conosciamo. In buona sintesi, verso la fine del 1500 una fortissima crisi economica investe tutta Europa, le varie corti di principi, duchi e granduchi si vedono costretti a tagliare le spese, le compagnie di comici che vivevano e lavoravano a palazzo, furono improvvisamente cacciate fuori e costrette a reiventare tutto il loro lavoro. Da qui, la progettazione, costruzione e/o adattamento di sale per le rappresentazioni, i teatri aperti a tutto il pubblico, non solo quello della corte, le stagioni teatrali, lo sbigliettamento, i contratti delle Compagnie con i teatri, dei comici con le Compagnie, i viaggi, i periodi di prova, ecc. ecc. ecc. 

Riuscire a vedere, attraverso il bel lavoro di Ferroni, come sia nata la organizzazione in cui ancora oggi viviamo, rivedere i nostri antenati alle prese con la precarietà del lavoro, la vita nomade, imprecare alla volatilità del mestiere, alla qualità dell'osteria "dove per lo più si paga bene e stassi male", lamentarsi del padre che non l'ha messi a un altro mestiere "nel quale credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio", e vederli giungere alla conclusione che ciascuno di noi perfettamente conosce: "Pacienza, io ci sono entrato e basta in questa professione romperci un paio di scarpe, per non se ne levar mai più" (Domenico Bruni, attore del '600). Notare che l'espressione "romperci le scarpe" è sinonimo di "recitare", dunque una volta fatto non te ne libererai mai. 

Va detto che questa "rivoluzione" è quasi interamente italiana, e il periodo che Ferroni indica per questa riorganizzazione è 1580-1630.

Dello stesso periodo è la nascita di un altro fenomeno totalmente italiano: l'Opera lirica. La prima riunione di quella Camerata de' Bardi da cui tutto nacque, e di cui si ha notizia, è infatti gennaio 1573. 
Un gruppo di nobili si riunisce per discutere informalmente di arti, poi ad un certo punto decide di cercar di capire in quale modo gli antichi greci mettevano in scena le loro tragedie, e soprattutto come le declamavano. Nasce così quello che resterà nella Storia come "il recitar cantando".

Curiosamente, forse il più grande fenomeno musicale di sempre non nasce tanto per "far musica", quanto per "far teatro". Pensando a certe diatribe di oggi tra registi e direttori d'orchestra, a certe antipatie tra cantanti e attori, tra teatri di prosa e di lirica, viene francamente da sorridere. 

Dunque, in questa riorganizzazione, gli attori cominciano a muoversi, a viaggiare, a fare "il moto perpetuo" come scrive uno di loro, Flaminio Scala. Anzi a ri-muoversi, perché il nomadismo dei teatranti è ben più antico di quanto si possa immaginare. 
Ebbene, Ferroni si pone una giustissima domanda: s'è scritto e detto che gli attori si mossero per guadagnarsi da vivere, e questo è certamente vero, ma come argutamente l'autore osserva, è soltanto una parte della verità, perché se fosse solo per quel motivo, motivo economico, di lavoro, di ricerca di benessere, non si spiegherebbero tutte le storie, verificate, dei tanti attori, divenuti famosi, ricchi, importanti, proprietari di case e tenute, che non ostante questa raggiunta agiatezza continuavano a viaggiare, a fare "il moto perpetuo". 

La risposta di Ferroni è decisamente interessante e ve la riporto per come è scritta: 

"La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca di libertà. Altrimenti, come diceva Domenico Bruni, sarebbe stato preferibile "qualche altro mestiero" con il quale si sarebbe potuto cavare "miglior profitto, e senza travaglio". Essi cercano di godere "quella libertà che pare che conceda Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano sudditi". Non sappiamo se il viaggio degli attori abbia avuto inizio in una determinata epoca della civiltà come effetto di una crisi improvvisa o se invece, molto più probabilmente, sia sempre esistito come fattore endemico, all'interno e a fianco di altre migrazioni; tuttavia nell'epoca di cui ci occupiamo esso lascia intravvedere tracce di antiche motivazioni. Ebbe, ad esempio, caratteri stagionali, come molti altri viaggi che videro protagoniste le frange mobili delle sociètà contadine. Come il banditismo, ad esempio, o la milizia mercenaria. Ancor meglio delle guerre e delle rapine, che si svolgevano di preferenza in primavera ed estate, l'attività comica poteva integrarsi con il ritmo dell'agricoltura che regrediva proprio nella stagione culminante del carnevale (non a caso, le trattative per le stagioni seguenti si svolgevano in periodo di quaresima e potevano protrarsi fino all'estate, in coincidenza con le fasi più intense dell'attività agricola). In ogni caso la mobilità, anche temporanea, era il modo migliore per vincere la coercizione e l'autorità vessatoria che i padroni potevano esercitare sui modelli stanziali. La terra, i raccolti ciclici, incatenavano l'uomo al potere. Solo la decisione di partire e di vivere da nomade, almeno per lunghi periodi, poteva liberarlo. Il viaggio di questi "ribelli" non ha né uno scopo, né una destinazione, non ha né una fine né un principio: è - secondo le parole dei comici - un "andar in volta", un "moto perpetuo", un "andar attorno", una condizione di vita precaria e instabile assunta per vivere liberamente. Almeno nelle illusioni e nelle scelte di partenza."  

Rileggere questo passo mi ha fatto venire in mente una cosa che riguarda il nostro oggi, o meglio gli ultimi venti anni della nostra storia, quelli durante il quale si è proceduti allo smantellamento silenzioso, sotterraneo e sistematico della tradizione teatrale italiana. 
Quello che leggiamo in Ferroni - come in altri autori - deve innanzi tutto farci capire che il Teatro, in Occidente, che ce ne siamo resi conto o no, siamo noi!, e per tornare ad esserlo è necessario buttare a mare le intellettualizzazioni e gli ideologismi, e riprende tra le mani il mestiere, la professione (in questi giorni se n'è andato Gigi Proietti, forse dovremo ragionare sul serio sul perché ci piaceva Proietti, dire che "ci faceva ridere" è davvero poco e forse anche offensivo per quel magnifico attore, c'è qualcosa di più che DOBBIAMO DIRCI! Ne riparleremo).
Noi siamo quelli che hanno insegnato il Teatro al mondo, è indiscutibile, un vero e proprio assioma, che ci è per esempio confermato dal fatto che abbiamo pochissimi drammaturghi di caratura mondiale, ma tantissimi attori che sono andati a portare "il mestiere" in giro per il mondo. Quando Molière e la sua Compagnia approdano finalmente a Parigi, vi trovano "les Italiens" guidati dal grande Tiberio Fiorillo (Scaramouche); quando Goldoni scrive "Il servitore di due padroni" desidera avere come Arlecchino Antonio Sacco, il migliore del tempo, che in quel momento è impegnato in Russia su invito della Imperatrice Anna Ivanovna; il primo attore, vero, non del racconto, di vita reale, che Stanislavskji cita nel suo splendido "Il lavoro dell'attore su se stesso" è un italiano, è Tommaso Salvini, riportandone un basilare pensiero: "Il grande attore deve sentire veramente quello che immagina", sul quale svilupperà tutto il suo ragionamento e il suo metodo.

Ora, se noi non recuperiamo il senso profondo della nostra Storia e della nostra naturale evoluzione, se non riannodiamo il filo con il nostro passato, non saremo più in grado di proseguire il cammino, di evolverci, di tenere la barra ferma sulla nostra rotta. Se non recuperiamo il senso di ciò che siamo stati diverremo inevitabilmente (i-ne-vi-ta-bil-men-te!) una colonia.
Già per troppi versi lo siamo: la mania del "devi conoscere l'inglese altrimenti non lavori" ce lo certifica, perché conosceremo anche l'inglese ma troppi attori, ormai, non conoscono più la pronuncia italiana; l'insistenza stupida su teorie e tecniche di insegnamento cui nessuno vuol togliere importanza, ma che non ci appartengono, ne è un altro aspetto, ma mi chiedo dove si insegni più il Metodo mimico di Costa che il mondo così tanto apprezzava? Ecc. ecc. 
Chi perde il suo passato ha già perso il proprio futuro (ricordiamoci di Orwell).

In quest'ottica, Ferroni ci dice la cosa fondamentale: perché siamo un teatro girovago? Perché in ciascuno di noi, di noi attori (ma se osservate anche dei nostri tecnici) c'è un inconscio desiderio di libertà.
E questo desiderio di libertà si esprime in un modo in realtà semplice: il viaggio.
Il viaggio è la nostra dimensione naturale, e la sua espressione/organizzazione artistica, la tournée, è un pezzo fondamentale della nostra esistenza spirituale.
Noi viaggiamo per fuggire, per sfuggire, per sfuggirci. E per cercare e cercarci. 
Sfuggire a cosa non si sa, cercare cosa tanto meno, o meglio ciascuno di noi avrà i sui motivi, privati, privatissimi, che a volte nemmeno lui stesso conosce, ma i tanti anni di lavoro e i tanti colleghi che ho conosciuto, mi fanno capire, leggendo quelle pagine, che Ferroni ci ha visto giusto, per una volta un professore universitario ci ha visto giusto su un aspetto del teatro, forse perché leggendo lettere e documenti di quegli attori del passato si è fermato ad ascoltarli, cosa che la politica e i suoi tanti colleghi, sia pur bravi, non fanno mai. 
 
Ecco: nel tentativo tutto politico di questi ultimi anni, a partire dalla legge sulle "Residenze teatrali" di Veltroni nel '96, fino alla ossessione per le "alzate di sipario" con annesso innalzamento delle produzioni regalatoci da Franceschini, dalla cancellazione dell'ETI fino alle complicazioni burocratiche che le Compagnie private, quelle che vivono di tournée, incontrano per accedere a quelle sovvenzioni che son sempre più scarse, tutto pare chiaramente volto ad uccidere la nostra tradizione teatrale, a imporci "la stanzialità", ad impedire la tournée, la vita della Compagnia di giro, a castrare la nostra Storia che non può essere che quella e nessun'altra se lo è stata a dispetto di tutto attivamente fino ad almeno dieci anni fa ed ancora sgomita per esserlo.
 

Festival ed eventi, eventi e festival, teatri stabili e pluriproduzioni, alzate compulsive di sipario e teatri nazionali... tutto pare proprio fatto apposta per soffocare quel nostro inconscio desiderio, quell'atavico bisogno di libertà. Stanziali e non più girovaghi!
Bloccarci, costringerci, irregimentarci, legarci a un dettato artistico-culturale che, una volta perse le radici, non verrà più da noi ma ci sarà imposto, dall'esterno, dall'alto, non si sa da dove, nell'esercizio di una finta libertà di Stato, di un finto pensiero libero. Perché il nostro libero pensiero dovrà essere soffocato, soffocato partendo dalla rivoluzione che cancellerà pian piano, silenziosamente, subdolamente, le nostre radici. 

"Ma perché? Perché tutto questo, qual è il senso di questo progetto distruttivo?", qualcuno si starà chiedendo se avrà avuto la bontà di arrivare a questo punto. Lo scrive ancora Ferroni: "La terra, i raccolti ciclici, incatenavano l'uomo al potere. Solo la decisione di partire e di vivere da nomade, almeno per lunghi periodi, poteva liberarlo. Il viaggio di questi "ribelli" non ha né uno scopo, né una destinazione, non ha né una fine né un principio...". C'è qualcosa che può fare più paura al Potere di una rivendicazione che in realtà non ha alcuno scopo se non in se stessa? Come l'Amore. Nel romanzo di Orwell, gli uomini del Potere non si accontentano di stroncare la storia d'amore dei due protagonisti, che al di là dei loro aneliti di libertà è in se stessa pura, senza scopo, ma di reindirizzarla secondo la loro ideologia verso il culto dell'ideologia stessa.

Risolto dunque il problema del nostro inconscio desiderio di libertà, saremo perfette macchine della propaganda.

Noi siamo stati quelli che una volta "rotte le scarpe" non volevano più tornare indietro, cosa vogliamo essere domani?  

martedì 17 novembre 2020

NON VI LIBERERETE FACILMENTE DI NOI (17/11/1984 - 36 anni di Teatro)

Stavo pensando che il 17 novembre di 36 anni fa, precisamente Venerdì 17 novembre 1984, per la prima volta sono salito in palcoscenico. Ho fatto quello che con una meravigliosa espressione antica si chiama il mio "ingresso in arte", una espressione che andrebbe recuperata, ma il mondo di oggi cosa volete che capisca perso dietro gli alternativi intellettualizzati e gli ideologismi... 

Ma insomma, quel venerdì 17 novembre dopo che mi fu concessa una mezza prova in camerino e una in palcoscenico, fui catapultato sulla scena. 
SI trattava di "Filumena Marturano" di Eduardo, un classico delle compagnie amatoriali, anche se quella non era propriamente una compagnia amatoriale, dato che i due che ne erano a capo, Alessandro Nisivoccia e Regina Senatore, avevano in realtà una lunga esperienza professionale alle spalle, lui con Gassman, lei con Eduardo stesso e Mariano RIgillo. Ma constatato che la vita di tournèe non faceva per loro, si trovarono una bella "cantina" da cento posti che divenne fucina di giovani attori, la chiamarono "Teatro San Genesio" e il gruppo, in onore al TPI, Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman, TPS, Teatro Popolare Salernitano. 



In quel vicolo della vecchia Salerno, vico Guaiferio, tanti di noi sono partiti alla scoperta di quel meraviglioso mondo che fin da subito amammo e che mai ci ha lasciato anche quando qualcuno di noi ha cambiato strada. Non è retorica: il Teatro è così. Ami quello, vuoi fare quello e non ti interessa in realtà fare altro. Ho conosciuto attori importanti, molto importanti, che dovevano una grossa parte della loro popolarità al cinema e poi alla televisione, ma li ho visti rinunciare a un lavoro davanti la macchina da presa per poter fare la loro tournée teatrale. Perché questo è un altro concetto che si è perso: sarà che siamo italiani e il sangue non lo puoi smentire mai, ma il Teatro è la tournée. 
Non c'è stato niente di più bello nella mia vita, in questi 36 anni - forse perché non ho avuto figli - dei lunghi viaggi, della scoperta delle nuove città, del ritrovare quelle già viste, del rivedere facce amiche dopo anni, del conoscere nuovi teatri, sentire ogni sera pubblici diversi, del veder scaricare le scene, e montarle, e poi alla fine vederle smontare da lavoratori operosi e divertiti, non c'è stato nulla di più bello che stare insieme a un compagno che non sai quando più rivedrai e dividere con lui la cena, e magari il sonno, e le giornate a raccontarsi l'intimità e la vita, niente dell'ascoltare i vecchi parlarti di un altro mondo, e poi crescere e vedere altri giovani che arrivavano con le loro arroganze o timidezze, come eri stato tu alla loro età o come non avevi avuto il coraggio di essere. Nulla ho amato più del sipario, e del camerino che era casa, e gli stucchi, gli ori dei teatri, e quel silenzio sacro e magnifico, quel silenzio di bimbo che dorme sereno che è dentro a un teatro vuoto prima dello spettacolo, quando tutto è pronto, i tecnici si sono allontanati, non tutti gli attori sono ancora arrivati e le mascherine sono ancora nei loro spogliatoi. Quella mezz'ora, se sei fortunato un'ora, carica di pace è un sogno di quiete che si rinnova ogni sera. Niente è stato mai più bello di quello, di quel momento in cui senti che sei nel solo luogo al mondo in cui nulla e poi nulla di male potrà mai accaderti. 
Forse è per questo che ho amato e amo il Teatro, perché il Teatro, al fondo di tutto, senti che ti protegge. Potrai morire ogni sera e poi rialzarti e dire: "ho sbagliato, devo farlo meglio, domani ci riprovo".  

Oggi sono 36 anni, tanti ricordi nella mente, tanti volti e insegnamenti, tanta vita, e amore. Stamane facevo lezione a dei ragazzi che forse abbracceranno questa professione. Il tempo non è passato invano e io sono felice, e sereno per tutto quello che ho fatto e certo che ho ancora tanto da fare, e lo farò, con calma. Non vi libererete tanto facilmente di me. Non vi libererete tanto facilmente di noi: Noi siamo il Teatro. 

Ho almeno tremila anni,
ho visto la luce, giorno per giorno, sorgere e calare,
ho sentito la polis 
crescere intorno a me, 
mentre mi era assegnato l'arduo compito 
di tenerla per mano, compito 
cui non mi sentivo adatto, 
ma che mai e poi mai avrei rifiutato; porto nel sangue 
il coraggio 
la fatica e l'amore 
di tutti quelli che mi hanno preceduto, 
di tutti quelli che mi succederanno; 
a loro lascio 
incorrotto 
quel  testimone che mi fu consegnato, nella certezza 
che il mio impegno sarà perpetuamente rinnovato; 
ogni nostra singola fine 
scivolerà serena in quell'oblio 
che è nostro orgoglio. Noi siamo 
i senza nome e senza memoria 
che sono stati la storia dell'uomo. 
Noi siamo il Teatro. 

lunedì 12 ottobre 2020

QUELLA PARTICOLARE FIRENZE DI GOLDONI

In una delle prefazioni alle sue innumerevoli commedie, Carlo Goldoni scrive che si era dovuto necessariamente occupare della revisione dei testi prima delle loro pubblicazione onde evitare che questi fossero presentati al lettore carichi di strafalcioni, cosa che sarebbe stata una profonda offesa alla Patria e alle sue lettere. 
Va però notato che quando Goldoni parla di Patria, intende l’Italia e non Venezia. Altre volte, infatti, nomina chiaramente, e ancor più direttamente, “le patrie lettere”. 

Ne “La locandiera” la Firenze indicata nella didascalia iniziale non si vede mai, mai è presente, nominata, richiamata, non ne è indicata una via, un monumento, un ponte, una collina, nulla. 

Una sola particolare annotazione può colpirci: Goldoni ci informa nella presentazione della commedia che il personaggio di Fabrizio era in origine il solo in dialetto, e che egli ha poi deciso di trasportare anche quello in italiano, in lingua. 
È davvero una informazione così importante da meritare una specifica comunicazione? 
A ben pensarci, no: il testo va alle stampe tutto in italiano, e la questione sarebbe chiusa lì; il Maestro Goldoni può comunicare alla compagnia che rappresenta la commedia la sua volontà di “tutti in italiano” e la faccenda, anche in questo caso, si chiuderebbe lì (sebbene alcune “abitudini” siano certamente dure da far cadere, soprattutto se, per un qualche motivo, i comici le ritengono efficaci con il pubblico). 
C’è, invece, nell’autore – va rilevato – una qualche specifica volontà, Goldoni vuole, evidentemente, dirci qualcosa di più. 

La mia ipotesi è che per Goldoni quella Firenze indicata in didascalia non sia un luogo geografico, ma un luogo della lingua. 
Nel momento in cui porta a compimento il suo capolavoro deve aver probabilmente percepito di aver finalmente centrato anche il suo obiettivo originario, quello che ci racconta nelle sue “Memorie”: dare alla letteratura italiana, “alle patrie lettere”, appunto la sua “letteratura drammaturgica”, la sua scrittura drammatica. 

Se Dante aveva dato alla lingua italiana la sua scrittura poetica, se ha codificato i canoni della Poesia per la nostra lingua, se Manzoni codificherà la scrittura in Prosa ed i suoi canoni, Carlo Goldoni ha il merito di aver compiuto questa medesima operazione per la Drammaturgia. 

La critica letteraria italiana non lo ha ancora capito. 
La critica letteraria italiana non ha mai capito il Teatro.  

mercoledì 17 giugno 2020

TEATRO, BASTA BELLE PAROLE

Quello che maggiormente mi ha disgustato in questo periodo di chiusura forzata causa Covid è il profluvio inarrestabile di belle parole. Un circo della retorica che nei primi due giorni andava anche bene, era comprensibile soprattutto sul piano emotivo, poi ha cominciato a produrre diffidenza, repulsione, disgusto, nausea e infine vomito (in alcuni casi svenimento!).

Nel mio settore, il Teatro, un mondo che è basato sulla Parola, davvero non ci siamo fatti mancare niente: la retorica, e non in senso classico, ha trovato il suo brodo di coltura, coltura intensiva che in poco tempo ha sviluppato: i 
siamonecessaristi, gli inutilièbellisti, i conlaculturasimangisti, gli sempreapertiteatristi, gli occasionedanonperderisti, nonché i soliti tuttononsaràcomeprimisti e i tuttotorneràcomeprimisti. E credo di non aver dimenticato nessuno, nel caso me ne scuso fin da adesso.

Ora il 15 di giugno si sarebbero riaperti 'sti benedetti teatri, in un modo che non mi va nemmeno di parlarne.
non più di 200 in sala, distanziamenti, mascherine e tutte le solite cose. Il che offre spunti divertenti: lo immaginate un teatrone da 1200 posti come l'Alfieri di Torino, o l'Olimpico a Roma con solo 200 persone dentro? In tutta sincerità: ma non ci voglio stare sul palco davanti a una platea che è praticamente vuota vuota vuota. 


Un episodio per capirsi. I grandi fratelli Giuffrè, Aldo e Carlo, misero su la loro Compagnia e portarono in scena quello che è ricordato come uno dei più grandi successi di pubblico degli ultimi 50 anni, la Francesca da Rimini di Petito. 
All'inizio però, i Giuffré erano al Brancaccio di Roma, teatrone da appunto millemila posti, facendo una media di 300 persone a sera. La sala risultava dunque vuota. Sappiate che più la sala è vuota più il pubblico, anche se si diverte, ride poco, perché è come intimidito. Non chiedetemi il perché ma storia del teatro dice che è così (ed è una Storia che sui libri dei professoroni universitari non trovate perché queste cose del Teatro vero loro NON LE SANNO!). 
I Giuffré, abbastanza preoccupati, una sera incontrarono un grande organizzatore teatrale, Lello Vianello, ci parlarono e decisero di affidarsi a lui.
Lello da uomo del mestiere, fece una cosa semplice (e pure questa sui libri non la trovate): prese la Compagnia e dal Brancaccio la portò al Teatro delle Arti, QUATTROCENTO POSTI! Con la media di 300 spettatori a sera, la sala risultava improvvisamente piena, le risate si fecero finalmente intense, il passa parola cominciò a funzionare e da lì lo spettacolo è andato avanti per anni. Io lo vidi un paio di Stagioni dopo in un Quirino esaurito insieme a un mio parente che era la terza volta che lo vedeva. Dato il successo ne fu fatta anche una ripresa tv. Brutta, regia televisiva di Andrea Camilleri, sbagliata rispetto allo spettacolo. 


(scusate, spengo un attimo la tv, che pur se senza volume, mi sta proponendo la faccia di Prodi intervistato da non so chi, e francamente è una immagine che nemmeno nella coda dell'occhio. Ecco, andiamo avanti) 

Come sarà, quindi, una serata teatrale con un massimo di 200 spettatori in sala non lo voglio nemmeno sapere. E anche all'aperto, dove si potrà andare fino a un massimo di 1000 la cosa cambia di poco. Pensate al Teatro Greco di Siracusa che ha una media di cinquemila persone a spettacolo... 
Che fare allora? Secondo me c'era da fare una cosa semplice, ma ci voleva la volontà politica (che è chiaro non c'è!): sovvenzionare i teatranti tutti fino alla prossima stagione, segnando fin da ora la data di riapertura e consentendo di programmare e organizzare. 
Ma non si può fare, perché sennò come facciamo a spargere fin da adesso il terrore della seconda ondata, e perché se non c'era la volontà politica di darvi soldi adesso per due mesi figuriamoci fino ad ottobre!

La verità è che si è data questa data del 15 giugno per avere la scusa per sospendere le erogazioni di qualsiasi sostegno a fondo perduto, e per consentire agli amici degli amici di far ripartire i Festival estivi (che servono anche come attrazione turistica, anzi ormai soltanto) mettendo sul palco un po' di monologhi per i soliti quattro noti. I Media di regime suoneranno le grancasse, intervisteranno i soliti quattro fighetti e si darà al popolo l'impressione che tutto va bene madama la marchesa. Chest'è! 
E su questa linea è già cominciato, sia pure ancora con la sordina, il festival delle belle parole, sul teatro che riapre, che rinasce, sulla sua necessità, sulla importanza della cultura, sulla voglia di rivincita e ripresa e ripartenza e ritorno alla vita esticazzi esticazzi esticazzi... 

Io, con franchezza, di belle parole ne ho piene le palle. Ne sento da trent'anni, e so per certo che il Teatro di tutto ha bisogno tranne che di parole. Esso è il luogo della Parola, ma non delle parole. 
Il Teatro ha bisogno di lavoro, anzi di Lavoro, quotidiano, costante, silenzioso, soprattutto silenzioso, ha bisogno di fare, di fare per cercare e trovare. E di solitudini. 
Ogni buon teatrante sa che le prove non si fanno per fare bene, le prove si fanno per sbagliare, e togliere di mezzo tutto quello che non serve. Possiamo dire che la nostra regola è davvero il "provando e riprovando".

E allora gli articoli non li leggo più, i video non li guardo più, le chiacchiere non mi interessano. 
Quando ci sarà una cosa da fare la facciamo. Punto. 

E' tutto Vostr'Onore.  

lunedì 15 giugno 2020

ADDIO FACEBOOK, NON NE E' VALSA PROPRIO LA PENA.

Sto cancellando la stragrande maggioranza dei miei post su Facebook, quelli che conservo ancora è perché non ho deciso, o capito, come salvarli, gli altri vanno dritti dritti nel cestino, anzi nel dimenticatoio.
Facebook non mi piace più, da quando la censura e il politicamente corretto la fanno da padroni non è più un luogo frequentabile. Devi temere di dire qualsiasi cosa, perché degli stupidi algoritmi identificano una parola, la estrapolano dal contesto e la censurano. E te con essa.
Così ti capita di scherzare tra amici, come si fa al bar o nello spogliatoio del calcetto, e magari si usa qualche epiteto scurrile del quale nessuno dei partecipanti alla goliardata si offende, e ti ritrovi sospeso per tre giorni. O fai quella che è una tipica battuta nel tuo dialetto e ti ritrovi sospeso. Gli immigrati clandestini, ovviamente, non si possono toccare anche se lanci un motto di spirito. E non parliamo delle religioni in particolare quella mussulmana. Se solo sposti dal binario sei un razzista e tutto quel che ne consegue.
E allora non mi diverto più. Se non posso essere libero di parlare con i miei amici senza offendere nessuno, non mi diverto più.
Da quel che ho visto, però, Facebook sta pagando pegno a questa sua scelta "editoriale", perché è sempre meno frequentato e sempre più amici mi dicono che lo hanno lasciato perdere per i miei stessi motivi: non si divertono più, non si sentono più liberi.
La sospensione avuta per una vera battuta mi ha profondamente offeso. Perché ritengo di essere, sia pur nelle mie passionalità, una persona corretta. Così ho deciso di cancellare tutto, e prima o poi chiuderò l'account definitivamente. Perché non lo faccio adesso: perché non voglio lasciar loro nulla di mia, riuscirci almeno il più possibile, e perché ho ancora pochi amici con cui intendo restare in contatto. Ma considerate che avevo circa 500 amici, ora sono più o meno 100.
Ci sarebbero anche gli aspetti dell'interagire umano, per cui discutere sui social con certe persone è perfettamente inutile, ma a quello mi ci ero abituato.
No, il motivo per cui cancello è veramente la "linea editoriale" presa dal social che non ti consente più di sentirti libero. E dunque pian piano vado via.
Sono giunto, cancellando, al novembre del 2015. E ripassando le mie giornate all'indietro, mi sono reso conto di quanta informazione ho passato, di quanti spunti ho offerto alle persone per capire e informarsi, di quanto materiale ho girato che poteva interessare tutti indistintamente, indipendentemente dal proprio credo politico.
Ebbene, tornando indietro, ritrovo decine e decine di riflessioni che sei costretto a fare ancora oggi, decine di informazioni che dovrebbero essere acquisite e non lo sono, centinaia di articoli che potevano aiutare tanti a non trovarsi come si ritrovano... e invece, mi sto rendendo amaramente conto, siamo sempre al punto di partenza.
Perché? Incapacità di ricordare, apatie, nessuna voglia di fare analisi, bassa autostima, voglia di delegare e non pensare, radicamento ideologico pari a fede religiosa (questo sarebbe almeno un valido motivo), ingenuità, distrazione perpetua... La verità è che così come mi son stufato di passare dati e informazioni o di cercare di spiegare fatti, sono anche stanco di chiedermi perché la gente non voglia capire. E un dato l'ho acquisito: è inutile spiegargli, quando sbatteranno la testa al muro, e se la romperanno a sangue, allora si sveglieranno. E bene o male, ho potuto vedere, così accade. Salvo che anche dopo quei momenti, non avendo acquisito le giuste informazioni prima, si finisce per non farsi le domande giuste dopo. E' anche per questo che il Potere è sempre in sella, perché quando siamo spalle al muro le domande che ci facciamo sono sbagliate.
Farò un esempio semplice che molte volte mi è passato per la testa: penso a tanti operai che rischiano il posto di lavoro, e magari organizzano proteste sotto i ministeri, fanno battaglie di mesi e alla fine ottengono il nulla. Ma perché ottengono il nulla? Perché quel ministero (nel senso di sua guida politica) non può o non vuole fare nulla, e in genere non può. E allora, forse non dovresti andare a protestare sotto al ministero, e nemmeno sotto il Parlamento, ma magari davanti al Forum Ambrosetti, o davanti ai palazzi dove si riuscono quei gruppi tipo Bilderberg. Insomma, è come se tu continuassi a chiedere le chiavi della nuova casa che hai acquistato al portiere e non al vecchio padrone di casa che te l'ha venduta. Se il portiere le chiavi non le ha, inutile insistere, in casa non entri. O sbaglio?
Ecco, allora, alla fine di tutto questo, quando leggo lamentele sulla situazione attuale, e penso a tutte le informazioni che in quasi dieci anni vi ho postato e che non avete voluto vedere e che avrebbero potuto almeno cambiare la vostra visione del mondo, mi chiedo che senso abbia continuare a darvi la possibilità di una diversa visione delle cose. Dal canto mio, fate come ve pare, io cancello e vi saluto.
Buona notte, e buona fortuna.

martedì 19 maggio 2020

CARO DE MASI, LO SMART WORKING NON E' LA SOLUZIONE

Egr. prof. De Masi, mi rivolgo a lei in quanto uno dei più noti sostenitori del cosiddetto telelavoro, o smart working, o più banalmente lavoro da casa, ma comprenderà che per suo tramite mi rivolgerò a tutti coloro che inneggiano a questa innovazione. Che poi, come lei spesso racconta nei suoi interventi televisivi, tanto innovazione non è dato che se ne parla da decenni e in altri Paesi è da tempo attiva. 
Nello specifico, racconterò quel che accade a casa mia.

Vivo a Torino. Quest'anno la mia attività lavorativa si svolgeva a Salerno, mia città di nascita, e lì sono rimasto bloccato quando è arrivato il lockdown. Poco male, a Salerno ho ancora i genitori, anziani, ultraottantenni, esserci è stato un modo per aiutarli ad affrontare questa strana situazione.
Nel frattempo la mia compagna era a casa nostra, e dopo i primi giorni di incertezza, la ditta per cui lavora ha deciso di metterla in smart working. 
Per lavorare meglio, è andata a comprarsi (lei!) uno schermo adatto e una tastiera da poter collegare al portatile aziendale, altrimenti si sarebbe "cecata" (lei è campano come me) passando chissà quanti giorni sullo schermo del pc.
P. si è dunque organizzata, ha occupato la mia piccola scrivania, che teniamo in soggiorno, e ha strutturato la postazione lavorativa. 
P. è una impiegata di medio livello alla quale è dato solo il telefono aziendale da usare rigorosamente per comunicazioni di lavoro. I numeri che chiama, infatti, vengono controllati e le telefonate "extra" le vengono tolte direttamente dallo stipendio. Ma questo è un dettaglio da poco dato che P. è perfettamente abituata, da sempre, per nostra abitudine mentale, ad usare il proprio di telefono talvolta anche per le comunicazioni lavorative.
Siamo in due, e la nostra casa non è per niente grande, due camere, bagno, cucina. Mentre io ero a Salerno e lei a Torino, abbiamo ragionato e ci siam detti che in fondo nella disgrazia eravamo fortunati, io perché potevo assistere i miei, lei perché poteva lavorare senza problemi da casa che a quel punto diveniva un ufficio.
Si è posto, però, da subito, un piccolo problema: nell'economia di una casa accade che i coniugi si dividano compiti e spese, nella nostra le bollette toccano a me; ne avevo una arretrata di telefono, non potevo rischiare che lei, a 900 km di distanza rimanesse senza collegamento internet e dunque sono corso a pagarla. 
Ma anche per me si poneva un simile problema, perché lavoro a un progetto del MIUR e dovevo adattarmi come tutti i colleghi professori a fare lezione on line. A casa di mia madre non ho connessione internet, per quel poco che faccio nei giorni normali, uso il telefono come modem. Sarebbe bastato, avrebbe retto i collegamenti con la piattaforma scolastica? Dovevo forse anche io munirmi di una connessione internet casalinga con altre spese da affrontare? Ho fatto una prova e per fortuna mi è andata bene, il solo telefono ha retto.
Da questo primo passaggio però, una cosa saltava fuori evidente: telelavoro, va bene, ma la connessione è a carico di chi? 

Ma andiamo oltre. 

Quando già negli anni '80 sentivo parlare di lavoro da casa, ricordo che si intendeva che l'impiegato non andava in ufficio, gli si affidava un compito ed egli gestiva il proprio tempo liberamente sapendo soltanto che entro la tal data avrebbe dovuto consegnare il lavoro. Beh, pensavo, interessante, un meccanismo che libera il tuo tempo.
Scopro oggi, invece, anche da altri amici che sono a casa in smart working, che il sistema non soltanto rileva quando accendono e quando spengono il computer, ma anche se stanno effettivamente operando. Uno di loro mi ha detto di sentirsi meno controllato in ufficio. 

Dopo il 4 maggio sono tornato finalmente a casa e ho potuto constatare di persona: la mia compagna continua a fare il normale orario di ufficio, non gestisce minimamente il proprio tempo. E da quando sono qui mi sto rendendo conto, tristemente, di altre cose: casa nostra, non è più casa nostra. Sarà anche dovuto al fatto che son solo due camere e cucina, ma mentre lei lavora, e magari fa una conferenza telefonica, io devo starmene relegato in altra stanza, avessi una mezz'ora di tempo per vedere un notiziario o ascoltare un disco, o leggere un libro che mi piace, non potrei farlo, anzi non posso farlo! 
Ed anche quando io mi collego con i ragazzi per le lezioni on line, chiudo la porta della cucina, a questo punto occupata da me, e lei non vi può entrare finché non finisco.
Casa nostra non è più casa nostra, è un luogo... amorfo, una sorta di limbo, un ufficio-casa che pare non più appartenerci, nei suoi spazi, nei suoi orari, nei suoi ritmi di vita.


Ma non basta: perché ti arrivano tutti i nervosismi, le discussioni lavorative, i malumori, le tensioni, e ti restano dentro casa... 

Ma non basta: capita pure che la mia compagna debba chiudere un certo lavoro, e allora accende il computer di sabato o di domenica, tanto "per avvantaggiarsi" dice lei, ma in realtà è una sorta di pensiero che non smette mai di essere con te, la vita diviene il lavoro e il lavoro la vita senza più distinzioni, mentre quando esci dall'ufficio, se ne riparla domani senza dubbio.
E capita anche che qualche suo superiore le mandi un messaggio di sabato pomeriggio o di domenica mattina... e il meccanismo non si arresta mai. 


Ma non basta: perché magari per terminare un lavoro, interrompe solo per cenare e poi si rimette al computer... 

Particolarmente zelante lei? Può anche darsi, ma quel che è certo, senza alcun dubbio, senza tema di smentita, è che casa nostra non è più casa nostra. 
E badi, professore, che non lo era nemmeno quando io ero bloccato a Salerno, questo lo dico perché nessuno pensi che sia un mio fastidio da quando son tornato, poiché P. mi raccontava di questi ritmi anche allora. 

Veda, professore, suddividere gli spazi è suddividere il tempo di vita, e suddividere il tempo di vita è migliorare la qualità della vita. Sia io che P. stiamo sperando che tutto finisca presto e che lei possa tornare in ufficio. Perché un'altra cosa che P lamenta è non avere più contatto umano con i colleghi, e non aver con loro nemmeno un vero contatto professionale. Al di là dei dieci minuti di pausa caffè in cui ci si racconta le stupidate della vita, anche alzarsi per andare da un collega a chiedere una spiegazione o per risolvere insieme una questione è dare un senso alla propria giornata lavorativa.
Ora la casa è un ufficio, l'ufficio è una casa, i tempi di lavoro non sono più distinti da quelli di vita, e quando ti siedi sul divano per vedere un film hai sempre lo schermo del computer lì di lato nella stanza che ti guarda, non si cambia aria, non si cambia ambienti, non si cambia respiro. E il respiro è vita.

Sa cosa davvero mi preoccupa, che come al solito si inneggerà alla innovazione, se ne decanteranno le meraviglie per poi accorgersi che ci sono un mare di problemi.
Ecco, questo esperimento sta già mettendo in evidenza i problemi, come con la Didattica a distanza, che è una schifezza senza pari. Allora, per una volta, ci piacerebbe sentire che si parte a discutere dai problemi e che vi si trova una soluzione, sia pur perfettibile, prima di attuare i progetti.
Pensi che noi siamo in due soltanto, siam soli in casa: qualcuno immagina la situazione di chi ha anche i figli, magari piccoli, da gestire? 

Io le dico, parlando per suo tramite a tutti quelli che magnificano sempre le innovazioni tecnologiche senza ascoltare mai chi pone un dubbio: grazie, anche no.
E sa perché? Perché è già chiarissimo che non è quello né che si immagina, né che si racconta. Sarà solo l'ennesima fregatura per i lavoratori.
Lei vuol vedere come si smonta subito l'entusiasmo delle aziende per il telelavoro? Stabiliamo che la connessione internet di casa deve essere per il 50% a carico dell'azienda. Basterà questa stupidata per far sbollire gli entusiasmi. 

Perché alla fine è solo questione di soldi.

Lo spazio e il tempo sono coordinate fondamentali nella vita di un uomo, ci abbiamo messo anni di riflessioni, discussioni, lotte, anche guerre per dargli una certa definizione che migliorasse la vita delle persone, se volessimo evitare di tornare al medioevo sarebbe francamente cosa gradita.  
   

giovedì 14 maggio 2020

L'INTERPRETE VISIBILE (una piccola interpretazione nel senso profondo)











Nella bella pagina FaceBook, "Vadaviaattore!" creata da Totò Onnis, amico e bravo collega (l'ho più volte visto recitare!), gli attori che vi partecipano si scambiano opinioni e informazioni. 
Oggi Totò ci ha postato l'interessante iniziativa di "Attore Visibile", uno dei diversi e vivaci gruppi di lavoratori dello spettacolo auto-costituitisi da un po' di tempo a questa parte, onde portare avanti le sacrosante battaglie per i diritti della categoria. 
Già, la categoria!
A questa parola si apre un discreto baratro; perché qual è la categoria, da chi e come è costituita? Ancora non lo sappiamo non ostante le interminabili lotte per definire e risolvere il problema. La questione, come infatti alcuni sanno, è antica, basti pensare che ne parlava Eduardo in una famosa lettera al ministro dello Spettacolo già nel 1959, e nel 1964 lo stesso Eduardo ci scrisse su una bella commedia: "L'arte della commedia". Quindi è da un po' che se ne parla senza mai esser giunti a una soluzione. Una volta ci è andato vicino il decano dei sindacalisti degli attori italiani, Tonino Pavan, ma poi tutto naufrago in Commissione parlamentare per interessi particolari estranei alla categoria.
L'attuale situazione Covid19 offre, nella disgrazia generale, una interessante sponda per spingere su questa come su altre questioni. 
Dovendo ad esempio stabilire a chi dare il contributo a fondo perduto, il cosidetto Reddito di emergenza, ecco che spunta come un iceberg la questione: "chi sono i professionisti e come li distinguo dai dilettanti?". 
Nel settembre 2018, segnalai in un post colmo di rabbia lo scempio di un ministro della Repubblica, l'onorevole Fedeli, che, prima di lasciare l'incarico, stringeva un accordo per il Teatro nelle scuole con una associazione nazionale di dilettanti, il FITA.
Poco meno di un mese e non potei esimermi dal segnalare che, non ostante quella del Ministro Fedeli fosse una cosa mal fatta per i mille motivi esposti nel post, un problema c'era ed era quello di sempre: se lo Stato li cerca, dove sono i professionisti? 

Invitavo lì a pensare almeno a una associazione, come quella dei dilettanti, che autoregolandosi desse una minima indicazione sulle professionalità. 
L'interessante proposta, oggi, di "L'attore visibile", postataci dall'amico e bravo collega Onnis (che più volte ho visto recitare!), va proprio in tal senso e credo che mi iscriverò non facendo mancare, per quel che posso, la mia riflessione.
Anzi, ce n'è una che mi preme fare subito. Perché il post di L'Attore Visibile è ottimo, tranne, a mio parere in un un punto decisamente discutibile se non detestabile poiché pervaso da misera ideologia, oltretutto, in questo caso, penalizzante per i teatranti stessi che si vorrebbero rappresentare. 
Mi spiego.
A un certo punto si legge che è stato identificato come nome della Associazione, U.N.I.T.A. acronimo di UNIONE NAZIONALE INTERPRETI TEATRO E AUDIOVISIVO 
dopodiché viene specificato, quasi una excusatio non petita: 

Abbiamo scelto questo nome anche perché la parola INTERPRETE è l'unico sinonimo di ATTRICE/ATTORE che non abbia declinazioni di genere, (una interprete, un interprete) e la questione di genere è un tema sul quale non intendiamo glissare.

Ora: a prescindere dal fatto che il genere in lingua italiana viene declinato dall'articolo, come il loro stesso esempio dimostra, e non dalla finale della parola (altrimenti dovremmo decidere che il femminile di Farmacista dovrà essere Farmacistessa o roba del genere); a prescindere dal fatto che questa moda di voler indicare per forza il genere femminile quando si è difronte a un "neutro", per esempio nelle cariche istituzionali (ministro o sindaco, sono termini neutri, declinati in italiano al maschile per convenzione così come si dice "uomo" per "umanità"), si rivela in realtà ghettizzante per il genere femminile stesso e di rimbalzo per quello maschile; a prescindere dal fatto che non esistono solo i due generi femminili e maschili, ma anche quelli gay e/o trans e/o tutti quelli identificati da un semplicissimo Freud... dunque quante declinazioni dovremo avere?; a prescindere che limitarsi al maschile e femminile vuol dire escludere, ingiustamente, tutti quegli altri generi, ecc. ecc. ecc. 
qui, la questione è tutta un'altra e si muove su tre punti chiave.
1 (quello fondamentale) - La lingua italiana è la sola, con buona pace di tutti ed intendendo fuori concorso il koishan dell'Africa centro-meridionale, in cui la parola ATTORE e la parola TEATRO sono l'una l'anagramma dell'altra
Non è una simpatica bizzarria della lingua, ma la concretizzazione di un significato profondo che investe in concetto stesso di Teatro, concetto magistralmente sintetizzato da Antonin Artaud (c'è qualcuno che ancora lo legge?), quando egli afferma che 
"il teatro E' il corpo dell'attore". 
Puoi togliere dalla scena qualsiasi cosa, costumi, scenografia, luci... il teatro sarà sempre, ma se togli il corpo dell'attore il teatro non è più. La carne sul palcoscenico, viva, è l'atto blasfemo della ipostasi verbo-carne che perpetuandosi rende il teatro la rivendicazione da parte dell'uomo di una possibilità di eterno, il riflesso sfuggente ma visibile della Verità.
Ecco dunque che il termine ATTORE non è la declinazione maschile di una professione, ma il senso stesso del Teatro in quanto carne dell'uomo, della umanità, che si fa viva e possibile sul palcoscenico. 

Nella lingua italiana, come in nessun'altra, dire ATTORE è dire TEATRO, e dire TEATRO è dire ATTORE. Immaginare che nel termine esista una declinazione di genere discriminante è un atto di profonda ignoranza verso la propria professione. 

2 - La parola INTERPRETE è limitante della specificità professionale
L'attore, infatti, non è solo un interprete di un testo o di una idea registica, è al contempo creatore di un atto artistico, di un'opera artistica che si concretizza nel suo stesso corpo/voce in azione. 
Per questo banalissimo motivo si dice che andiamo a vedere (andavamo, sic) la Medea della Mariangela Melato o la Bisbetica di Valeria Moriconi.
Ed è molto probabile che una parte di pubblico andasse a vedere l'artista (maschile o femminile?) Melato o Moriconi indipendentemente dal personaggio che interpretava quella specifica sera, a godere dunque della distinta creazione artistica della signora Melato o Moriconi. 

Il termine interprete non comprende la parte creativa che ogni attore, in quanto unicum, porta irrimediabilmente con sé, esso è dunque limitante la visione professionale, e limitativo nella interpretazione giuridica che ci si propone di sottoporre alla Politica.
3 - L'ideologia, e la recinzione del pensiero unico, stanno uccidendo l'espressione libera dell'uomo e di conseguenza la sua libera espressione artistica.
Se si intende rinchiudere l'arte nella gabbia delle mode ideologiche (oggi sono queste, domani chissà quali), il rischio è quello di inibire la potenza stessa della trasgressione e della sperimentazione, della ricerca che ha sempre alimentato la progressione dell'arte, contro il conformismo, contro il potere, contro l'arte consolidata stessa. 

Quello che pericolosamente stiamo vivendo è un tempo di codificazione della trasgressione, di inquadramento della sperimentazione e dell'avanguardia che alla fine definiranno solo generi senza alcuna reale creatività, senza futuro, senza più Arte. 
Per liberare i generi vanno tolti i limiti, le differenze vanno cancellate non rimarcate, altrimenti si rientrerà in quei totalitarismi che ingabbiano il pensiero e soffocano la creatività e la vita dell'uomo. In questo tempo di politicamente corretto, siamo giunti al paradosso che la tradizione è divenuta la vera sola trasgressione. 
Questo perché abbiamo un serio problema con l'ignoranza. Altrimenti sapremmo che Tradizione e Tradire hanno etimologicamente la stessa radice. 
Il passato è lì a dirci chi siamo davvero, solo recuperandolo ci salveremo.  


PS - detto tutto questo, resto a confermare che intendo essere un sostenitore della iniziativa e spero di essere accolto nella associazione (dopo quanto detto...) che UNITA si chiama e così deve chiamarsi perché il nome ha anche un valore simbolico in questo difficile momento (oltre tutto è gentilmente declinato al femminile il che non guasta). Spero solo di lasciare in ciascuno un briciolo di riflessione per le battaglie odierne e future. Le parole sono vita, e la vita non la puoi costringere mai. 

PPS - non è che ora cambiano il nome delle pagine FB in L'inteprete visibile o vadaviainterprete! Per favore anche no. 

venerdì 8 maggio 2020

9 MAGGIO

Domani sarà ancora 9 maggio. Domani sarà ancora il giorno in cui ricordare quando e come cominciò a morire la nostra democrazia, la democrazia di questa nostra giovanissima repubblica. 
Non so quanti di voi c'erano. Io ero giovane, ma c'ero e quei giorni li ricordo bene, stranamente bene per la mente di un tredicenne. Ricordo l'aria pesante che si sentiva in giro, un senso profondo di paura, di spaesamento, una inquietudine che coglieva tutti, che sentivi nei discorsi di tutti perché davanti a un tredicenne ognuno parla senza bisogno di nascondere i propri pensieri. 
Ero come uno spettatore, esterno all'azione, colpito dalle emozioni che quel terribile spettacolo rimandava: la rabbia di mia madre quando sentì che il Papa aveva scritto "vi prego in ginocchio" ("Il Papa, il Papa, 'sti delinquenti!), le facce giovanissime e impaurite dei militari di guardia al casello autostradale di Roma, lo sconcerto della professoressa di matematica, una giovane supplente, che il 16 marzo venne in classe per far lezione e non poté trattenersi dal darci la notizia, notizia che non capimmo nella sua gravità, i silenzi di papà giornalista, il martellamento di giornali e tv, e tante cose ancora.
Ma tutto questo non conta. Conta uno strano dolore sordo che da allora tanti di noi si portano dentro. Alcuni lo avvertirono subito, altri, come me, nel corso degli anni, vedendo la nostra Repubblica sbriciolarsi man mano e cercando le ragioni di questo lento e impietoso declinare. E da quel dolore, nascere uno strano affetto per quell'uomo mai conosciuto ma che ti pare ancora oggi di conoscere come tuo padre, un padre che voleva proteggerti e vederti crescere adulto e sano, e che ci è stato sottratto. 

A volta penso semplicemente che avevamo la possibilità di divenire una Nazione, per la prima volta nella storia della nostra penisola, una Nazione vera, adulta, autonoma come sono autonomi un uomo o una donna cresciuti in modo sano, capaci di affrontare a testa alta la propria vita, e invece quella possibilità ci è stata tolta.
I motivi ormai sono chiari e sono stati anche ben scritti nei tanti libri di coloro che hanno continuato a cercare, non è nemmeno il caso di ripeterli. 

La nostra battaglia per veder crescere questa Nazione continua e sono certo che noi, che ci portiamo quel dolore sordo dentro, non ci arrenderemo tanto facilmente a dispetto di tutto e tutti anche se si è fatta maledettamente dura, anche se il nemico è potente e terribilmente accanito, ma continueremo, perché dobbiamo e vogliamo continuare, ciascuno con i propri mezzi, lo dobbiamo a quell'uomo. 
Domani è ancora 9 maggio. Ci portiamo un dolore sordo nel cuore e non possiamo voltarci indietro. Lo dobbiamo a quell'uomo. 

Dio ti benedica, Presidente. 


domenica 26 aprile 2020

SINFONIA DEGLI ADDII

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha esposto in una fumosa conferenza stampa il piano per la cosiddetta fase2 dell'emergenza da Covid19. 
Ho così sintetizzato su FB il mio stato d'animo e credo di non essere lontano dal vero. 
La sola cosa che posso dire a tutti i colleghi e a tutti i lavoratori dello Spettacolo è: conservate gelosamente e coltivate in qualsiasi modo potrete le vostre professionalità, non perdetele, non disperdetele qualsiasi cosa accade, è questo il solo tesoro che ci portiamo dietro, che dobbiamo portarci dietro e che sarà nostro compito consegnare alle generazioni future. 
A noi il Cielo ha posto questa tremanda sfida, traghettare la competenza dell'arte teatrale attraverso questo massacro. È tutto quello che dobbiamo fare. Tra due anni, tra tre, tra sette non importa, purché riusciamo a salvare la nostra "arca dell'alleanza", il nostro Graal.
La Cultura è il nostro saper fare tramandato nelle generazioni. 
Non dimentichiamolo. 
Buonanotte, e buona fortuna. 

domenica 5 aprile 2020

LA SFERA DI CRISTALLO

Siamo chiusi in casa. Dice: "Questo è un buon momento per scrivere". E invece non ne ho nessuna voglia. Vi lascio qui adesso poche righe tanto perché non ci si perda di vista, miei piccoli dodici lettori.
Non è che sia annoiato, svogliato, prossimo alla depressione. Tutt'altro, ho cose da fare non ostante la quarantena, e quando non ne ho me ne invento, compreso l'esercizio, apprezzabile a detta dei miei, della pasticceria.
Curiosamente, in questo momento ci sarebbero mille cose da dire, umane, politiche, economiche, ma mi sento preso come da un senso di rispetto: c'è tante di quelle cose più importanti di ciò che io posso raccontarvi che non mi sento all'altezza.
Il post precedente era una poesia di Alfonso Gatto, una poesia di fiducia nel futuro, e anche di una certezza profonda, certezza che anche in questo momento difficile alberga nel nostro profondo: che torneremo alla vita.
In molti si affannano a preannunciarci che "non sarà più quella di prima", ma pensateci: è una banalità.
La vita non è mai quella di prima, anche quando sembra essere sempre la stessa, non è mai quella che è stata il giorno prima, non fosse altro perché NOI abbiamo un giorno di più. E allora, cosa sarà?
Ecco: da quando le nostre situazioni sociali, economiche, politiche non hanno più conosciuto la serenità di un tempo, siamo tutti presi dall'ansia da sfera di cristallo: "come sarà?". E chi può saperlo! Nessuno. 

Ci aggrappiamo alla Scienza, ma la Scienza ammette serenamente che "ne sa meno di noi", per il semplice motivo che più sei specializzato più perdi certezze, ed è normale che sia così. Un medico generico vi dirà: "è questo!", uno specialista vi dirà: "potrebbe essere questo, però facciamo un esame perché potrebbe essere anche quest'altro". 
Più il campo si restringe e più le possibilità si allargano. Curioso, vero?
Dunque, attaccarci alla Scienza ha senso fino a un certo punto, per il semplice motivo che la Scienza, se è onesta, ci dice quello che sa, e va comunque ringraziata.
Quindi, come sarà il futuro? Come è sempre stato: una cosa nuova che diventerà subito vecchia.
Dal mio punto di vista, riguardo a tutto quello che è accaduto negli ultimi 25 anni e rilevo senza ombra di dubbio che man mano che si smontava lo Stato sociale cresceva l'ansia nelle persone, l'ansia per il futuro; quando lo Stato sociale era una sicurezza, la gente si occupava delle normali difficoltà della vita e temeva molto meno, spesso quasi per nulla, l'avvicinarsi del futuro.
Banale? Può darsi. Qui è tutto un festival delle banalità, inseriteci pure la mia.
Ma forse, se siamo così in ansia per il domani, chi per il lavoro, chi per gli studi da scegliere, chi per la pensione, chi per le malattie, è perché l'incertezza è nell'oggi, ed è in noi. Incerto è il presente.
Non siamo più nemmeno sul Titanic, siamo sulla zattera e non abbiamo "nemmeno una maniglia". 

sabato 14 marzo 2020

TORNERANNO LE SERE

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TORNERANNO LE SERE

Torneranno le sere a intepidire
nell’azzurro le piazze, ai bianchi muri
la luna in alto s’alzerà dal mare
e nella piena dei giardini il vento
fitto di case, d’alberi, di stelle
passerà per la grande aria serena.
Torneranno nel sogno anche le voci
delle famiglie illuminate a cena,
la rapida ebrietà del loro riso.
O finestrelle, pozzi, logge, vetri
affacciati alla vita, allo spiraglio
delle fresche delizie e dei rimpianti,
o luna nuova sulla mia memoria,
tornate ad albeggiare con quel canto
di parole perdute, con quei suoni
struggenti, con quei baci morsi al buio.
Siate la polpa rossa dell’anguria
spaccata in mezzo alla tovaglia bianca.


Alfonso Gatto