sabato 2 aprile 2022

LA PIU' BELLA SCONFITTA DELLA NOSTRA STORIA: SALERNITANA - TORINO, 17 APRILE 1948

     Se volete davvero comprendere cosa sia il calcio spettacolo, “ascoltate questa favola antica” che i veri salernitani conoscono a memoria, perché cento volte è stata loro raccontata, e loro stessi continuano a raccontarla a figli e i nipoti come il momento più bello della Storia del calcio, un momento esaltante, appassionato, di calore e conforto, d’esplosione di vita, anche se parla di sconfitta. Perché nessuna sconfitta fu mai così dolce per un salernitano, perché quella volta, quella sola volta non si era andati allo stadio per veder vincere la propria squadra, ma per guardare negli occhi la leggenda, poter dire “io c’ero, li ho visti”, per potersi dire, insieme a una nazione intera “siamo ancora vivi”, per potersi sentire parte di quella nazione. Non c’era nessuna partita quel giorno, ma solo lo Spettacolo. 

Torino e Salernitana schierate prima della gara

Fu il 17 aprile del 1948. In quel campionato, 1947/48, per la prima volta la Salernitana giocava in serie A, ed arrivava a Salerno il grande Torino.
Il giorno dopo ci sarebbero state le elezioni politiche, forse le più importanti e tese della storia della Repubblica, si sarebbe deciso il destino di una nazione per chissà quanti anni a venire.
Ma l’arrivo del grande Torino, del quale si leggeva nelle emozionanti cronache giornalistiche, che si vedeva al cinema negli spezzoni di partita che offriva la Settimana Incom, che si ascoltava alla radio nel racconto secco e preciso di Nicolò Carosio, era un evento troppo grande per la nostra piccola città. Vederli, finalmente vederli davvero, gli undici campioni con la maglia color del sangue più fiero, riscatto di una Patria in rovina tutta da ricostruire, baluardo di una dignità perduta da riconquistare. Le forze dell’ordine in città scarseggiavano, non si sarebbe potuto in contemporanea garantire il servizio alle urne e allo stadio, così, cosa eccezionale per quel tempo, si decise di anticipare la partita al sabato.

“Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola”. Così papà la ripete ancora oggi, e così io l’ho imparata. Perché papà quel giorno c’era, aveva dodici anni. A quel tempo le banche la mattina del sabato erano aperte, e mio nonno, commesso alla Banca Nazionale del Lavoro, alle 7,30 del mattino lasciò papà a un custode dello stadio suo amico.
Lo stadio, il Donato Vestuti, oggi è al centro della città, a quel tempo era solo una prima periferia già con dei palazzi attorno dai quali si vedeva il campo di gioco. La capienza era limitata, dodicimila posti, e quel giorno per accaparrarsi un posto ci sarebbe voluto un miracolo.
Il catino infatti si riempì prestissimo, papà ebbe la fortuna di essere fatto accomodare nel gabbioto dello speaker.

La gara di andata, a Torino, era già stata segnata da un curioso episodio: si era sul 6 – 1 per i sabaudi, l’arbitro fischiò la fine, ma mentre erano già nel tunnel, un assistente del direttore di gara fece notare a questi che aveva fischiato con qualche minuto d’anticipo; la giacchetta nera, resosi conto dell’errore, ordinò alle squadre di tornare in campo, pochi minuti, il tempo che il Torino segnasse il settimo gol.

Ora, sulla partita di ritorno, quel sabato 17 aprile 1948, il racconto dei salernitani veri dice questo: iniziò la partita, la Salernitana si batteva coriacemente, e dopo una decina di minuti circa passa addirittura in vantaggio con un gol di Merlin su cross di Onorato; ci si sarebbe aspettati un boato dei tifosi locali, invece il gelo scese sullo stadio, e dagli spalti iniziarono a volare una impressionante serie di improperi verso il grande Torino: “E questo sarebbe il Torino – Andate via – Vergogna – Tornatevene a casa – Scandalo…”, la folla non si quietava più.
Valentino Mazzola, il grande capitano granata, raccolse la palla in fondo al sacco, si portò a centrocampo, sistemo il pallone per la ripresa del gioco, poi alzò lo sguardo verso le tribune: col palmo della mano in aria fece chiaramente segno agli spettatori di aspettare, poi fece quel gesto che ne caratterizza ancora oggi la leggenda: si tirò su le maniche, sbatté più volte le mani e urlò ai suoi: “Andiamo, ragazzi!”.
In sette strepitosi minuti il Torino segnò tre gol! E a quel punto lo stadio esplose in un tripudio inarrestabile, uno scroscio di applausi senza fine, urla di gioia, canti, una festa infinita.

Ci fui poi un quarto gol, ma a quel punto poco importava; quel che contava era che il Grande Torino c’era, era lì, davanti a loro, esisteva sul serio, non era solo una sequela di parole nelle cronache. E se il Grande Torino c’era forse c’era ancora la speranza di casa, di vincere ancora, di ricostruire, di rinascere, di ripartire. Una vittoria che era solo una vita era ancora possibile.
Più passano gli anni e più mi convinco che in fu per questo il tripudio, la meraviglia, il bisogno della rassicurazione di essere ancora vivi, anche in una piccola cittadina di provincia. Ed è l’unico episodio di vero calcio-spettacolo che io conosca, dove anche i tifosi di casa erano andati allo stadio non per vincere ma per essere stupiti dalla leggenda.

Poi ci fu lo schianto di Superga. La nostra maglia, come quella di molte altre compagini italiane, divenne granata in omaggio a quei leggendari campioni, e anche un giornalista salernitano, Renato Casalbore, in quella tragedia trovò la morte. La piazza dove ancora oggi si trova il vecchio stadio Donato Vestuti fu intitolata a lui.

Stasera giocano al nuovo stadio, l’Arechi, Salernitana e Torino, ma non sono più i tempi delle favole; noi intanto continuiamo a raccontarci questa come la più bella sconfitta della nostra storia, essendone ancora felicemente fieri.
“Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigam…”