lunedì 5 aprile 2021

IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta) - 1

OGGI, 5 APRILE 2021,MI VEDO COSTRETTO A RIPUBBLICARE LA PRIMA PARTE DI QUESTO MIO SCRITTO SU ALFONSO GATTO. NON SO PERCHÉ ERA SPARITA. VABBÈ, PAZIENZA. A TUTTO SI RIMEDIA. LE ALTRE PARTI PARE CI SIANO TUTTE, SIC



Comincio qui, come preannunciatovi un paio di post fa, la pubblicazione di un mio scritto del 2009 che riuscì mai a trovare un editore. Per un periodo provai chiedermi il perché, poi lasciai perdere. Il lavoro, che intitolai "Il poeta che ho cercato di essere (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)", è interamente dedicato ad Alfonso Gatto; più in generale, poi, è una personalissima riflessione sulla poesia. Alfonso Gatto, come potrete vedere nel link, nacque nella mia Salerno nel 1909; morì, causa un incidente stradale, nei pressi di Orbetello, nel 1976. Il testo, dunque, era legato al centenario della nascita. E' composto da una premessa e da quattro "giornate"Non è breve! Procederò dunque a puntate, come un vecchio romanzo d'appendice, fidando nel fatto che sarà comodo e semplice (almeno in questo la tecnologia ci aiuta) tornare alle puntate precedenti, che di volta in volta proverò a risegnalarvi. Vi auguro buona lettura. 


Le foto che pubblico - ma il web ne è pieno - sono state scattate dall'amico, e grande fotografo, Peppe Rampolla. 
Sono alcune delle ultime del poeta.

Tutte le poesie di A. Gatto sono pubblicate da Mondadori. 













Alfonso Liguori

Il poeta che ho cercato di essere
(Informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)



PREMESSA

Questa che vorrei definire “conversazione”, in realtà non lo è. È piuttosto una sorta di monologo, anche se non teatrale. Nasce da una serie di incontri avuti nel 2006 con gli studenti di alcuni Licei di Salerno e provincia, sulla poesia e l’attività giornalistica di Alfonso Gatto, nel trentennale della scomparsa.
Come dichiaro nella “conversazione”, non sono uno studioso, ma un appassionato dell’opera di Gatto, un lettore disordinato ma accanito (seppure lento), e per affrontare “le belve”, “la gioventù bruciata”, come affettuosamente chiamo gli alunni, ovviamente mi preparai. Non bastava la sola passione, dovevo dare ai miei pensieri una organicità, il senso di un discorso mirato e articolato.
Scrissi, quindi, delle note. Ma dato che amo, in questi incontri, chiacchierare con i ragazzi e raccogliere da loro stimoli o magari ulteriori informazioni, e possibilmente domande cui mi sarà difficile rispondere, appositamente lasciai dei vuoti. I loro quesiti hanno sostenuto, riempito e migliorato le mie idee su Gatto. Queste pagine, tre anni dopo, nel centenario della nascita, sono l’elaborazione, il frutto di quegli incontri.
E quei ragazzi, di cui non ricordo più non dico i nomi, ma i volti, confusi con quelli di tanti altri con i quali ho chiacchierato di Dante o Pirandello, sono, in un certo qual modo, co-autori di queste pagine. A loro sono grato, e non posso fare altro, oggi, che portarli tutti nel cuore con il generico nome di studenti, categoria verso la quale troppa disattenzione ha ormai questo nostro disgraziato Paese.















I giornata

11 aprile 2009
Aula Magna dell’Istituto Magistrale “Regina Margherita”
Piazza Malta, Salerno

… «Buongiorno.
Mi chiamo Alfonso Liguori. Sono un attore, professionista (oggi, purtroppo, va sottolineato), diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, dove un anno mi è stato anche concesso l’onore di insegnare “Metrica e principi di dizione poetica”, lavoro in teatro da più di vent’anni e posso dire con buoni risultati, mi sono laureato in Lettere presso l’Università di Salerno, ho studiato pianoforte e canto lirico, e sono diplomato in Teoria musicale e Solfeggio per strumentisti… Indegnamente, sono anche un giornalista.
Dico questo, non per impressionarvi, per vantarmi, per farmi bello ai vostri occhi, ma  perché desidero sappiate che tutto ciò che so, le esperienze che ho accumulato, “il mio bagaglio” come si dice, lo metto qui a vostra disposizione. Non sono un professore, non ho registri e non metto voti, quindi gradirei che la nostra discussione fosse libera e serena. Chiedete ciò che volete. Quello che so ve lo dico, e per quello che non so… beh, vedrò di organizzarmi per i prossimi incontri.
Sono qui per parlarvi della poesia di Alfonso Gatto, di cui quest’anno ricorre, come certamente saprete, il centenario della nascita. Gatto, infatti, nasce a Salerno nel 1909, per amor di  precisione il 17 luglio del 1909. Lo faccio con grandissimo piacere; ma è bene che vi dica ancora un’altra cosa: non sono uno studioso, un critico, un letterato, ma solo un appassionato.
La poesia mi piace, mi piace molto, è uno dei grandi piaceri della mia vita, insieme alla letteratura in genere, alla musica, al vino, allo sport - su tutti il ciclismo - e, ahimè, alle sigarette (ci sarebbero anche le donne, ma quella è un’altra storia). E ci sono tre, quattro poeti che amo in maniera speciale: Dante sopra tutti, poi Borges, Montale… e Gatto. Sappiate anche subito che detesto Leopardi! È una pecca? Non so che farci.
Ora, io vi pregherei di non prendere appunti, ma di seguirmi nel discorso, anche se vi parrà che salti di palo in frasca. Sono abbastanza certo (è la consuetudine a questi incontri a dirmelo) che alla fine riannoderemo tutti i fili.
Grazie.

“Ringrazio qui il signor sindaco, che porta il mio stesso nome (…) ho avuto la fortuna di avere, soprattutto al ginnasio, un grande maestro che era Alfonso Donati – si chiamava anche lui come noi – e che voglio qui ricordare (...)”.
Cominciamo subito con una citazione e, perdonerete, con una digressione molto personale. Le poche righe che ho letto sono tratte dal discorso tenuto da Gatto durante un incontro avuto il 15 marzo del 1965 (ero nato da poco più di due mesi) con gli alunni del Liceo “T. Tasso” di Salerno dove era stato studente. Su questo discorso torneremo.
…anche io mi chiamo Alfonso, ed in realtà, penso di aver cominciato a leggere Gatto… per l’omonimia. Cerco rapidamente di spiegarmi: mio padre Gino è un giornalista, oggi in pensione dopo trentatre anni a “Il Mattino”. Molti suoi amici, presidenti di circoli o associazioni culturali, sapendo che aveva un figlio attore, gli chiedevano se potevo andare a leggere delle poesie nelle varie manifestazioni che organizzavano. Spesso erano poesie di Gatto. E secondo me, oltre l’amicizia con mio padre, entravano inconsapevolmente in gioco l’omonimia ed il comune luogo di nascita. Magari è tutta una mia fantasia, ma cosa c’è di più divertente delle fantasie che ci costruiamo da soli?
Voglio svelarvi una cosa degli attori: spesso la loro cultura è determinata più dalla necessità che non dalla curiosità. “Cos’è la cultura?”, mi sono chiesto molte volte. Credo di poter dire che sia una forma della curiosità, combinata con un po’ di memoria e di capacità associativa. Per gli attori, invece, funziona molto il meccanismo del “si deve fare”. Non perché non siano “curiosi”, anzi, in genere più che “non curiosi” sono “pigri” (ma questa è un’altra storia… come dice Mustache), ma perché il piacere della conoscenza deve ineluttabilmente combinarsi con le esigenze lavorative, e dunque di quotidiana sopravvivenza. Quindi, la “necessità di fare” mette in moto sistemi esplorativi che ti portano ad assorbire le più svariate informazioni pur di portare a compimento il lavoro che ti viene assegnato.
Dunque, mi chiesero di leggere in pubblico Alfonso Gatto.
Ammetto: lo conoscevo poco. Il nome, il luogo di nascita, il fatto che fosse un poeta importante del nostro ‘900, che era stato per molti anni a Milano, ma oltre questo…
Tale combinazione di casi mi ha dunque condotto ad aprire per la prima volta nella vita, parlo di almeno una ventina di anni fa, un volume di sue poesie, per l’esattezza: “La forza degli occhi”, che mi fu regalato da mio padre.
“Ma cos’è il caso?”, si chiede Borges, “Forse ciò che chiamiamo caso è soltanto la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità”.
Un dato certo lo avevo: mio padre, Gatto lo aveva conosciuto, e talvolta ci aveva anche cenato assieme. Ovviamente al “Vicolo della neve”, la più antica trattoria di Salerno - questo certamente lo sapete – che il poeta amava profondamente e a cui ha dedicato anche una commovente poesia:

È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito, e limone.

… eccetera eccetera.

È bella. Magari poi la leggiamo.
Tornando a noi. Non sto dicendo che Gatto e mio padre fossero amici, ma solo che si sono conosciuti, ed io devo confessare che a volte, soprattutto nei periodi in cui ne analizzavo i brani per una qualche lettura, mi è capitato di scoprirmi a scrutare gli occhi di mio padre cercando quegli occhi che avevano visto un poeta. Un po’… scusate, mi viene da sorridere… come il protagonista de “Il grande Gatzby”, il romanzo di Fiztgerald. Avete letto “Il grande Gatzby”? No?! Beh, leggetelo, è un grande romanzo, una meravigliosa e straziante storia d’amore.
Il protagonista, Gatzby appunto, vive un profondo ed infelice amore. C’è un passaggio splendido, dove lui guarda i volti delle persone che passano, pensando che forse qualche volta quei volti hanno visto la pallida magia del viso di lei, di Daisy. È un passaggio veramente piccolissimo, ma straziante di tenerezza, e credo ci dica a quanto e a cosa può arrivare il desiderio e l’amore che possiamo provare per una persona.
Secondo me ha ragione Eliot, quando dice, nei suoi scritti su Dante, che i poeti hanno il compito di trovare le parole per cose o sentimenti che non sono stati ancora espressi. Voi siete giovani – ma certo non “inesperti”, sic! – e se ci riflettete, vi accorgerete che vi sarà già capitato di cercare la persona amata nelle cose più improbabili… così, tanto per sentirvi vicini a lei e sentirvela vicino.
E sto parlando di una donna (o di un uomo, ognuno fa come gli pare), ma il meccanismo credo non sia diverso rispetto a tutte quelle persone o situazioni che per ciascuno di noi sono vitali, anche un poeta. È il desiderio, credo, di concretizzare, materializzare il legame che la loro opera ha creato con noi, la voglia di vedere fisicamente uscire dallo specchio quella figura in cui ci vediamo perfettamente riflessi, e rivelati a noi stessi.
I poeti sono importanti, e rari! Aveva ragione Moravia quando al funerale di Pasolini urlò che avevamo soprattutto perso un poeta, e che non ne nascono molti in ogni secolo; di poeti veri, credo fermamente volesse intendere. Sono importanti perché guardano lì dove noi non guardiamo o non abbiamo il tempo di guardare, presi come siamo dal vortice della quotidianità, e perché spesso, in questo loro guardare, vedono prima di noi quello che accadrà, sentono, percepiscono gli umori nell’aria. E sopra tutto sono importanti, credo, perché ne abbiamo bisogno, bisogno come l’acqua e l’aria, bisogno perché è il canto dell’anima che si fa vivo in loro. E quel canto della loro anima è il canto della nostra stessa anima.
Il poeta è come una consapevole vittima sacrificale, è come uno che si dona alla poesia, che accetta in toto una vocazione, una chiamata, perché l’umanità, l’umanità di quello specifico tempo,  ha bisogno di qualcuno che ne intoni il canto, che svolga quel compito. Come si dice?: è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.
In questo senso, Gatto e proprio il nostro uomo.

E dunque...
…In tutte le mie letture dell’opera di Alfonso Gatto, fatte per piacere o come dicevo per lavoro, ci sono almeno un paio di espressioni che mi hanno ripetutamente colpito. Parlo di “espressioni” perché non sempre si tratta di versi e, francamente, adesso non so trovare un’altra  definizione.
La prima si trova in “La risposta di Alfonso Gatto”. Il testo è la trasposizione di un discorso che Gatto tenne in occasione della manifestazione, sollecitata dai giovani intellettuali del Circolo Democratico di Salerno, ed organizzata in suo onore il 10 marzo 1963 dall’allora sindaco Alfonso Menna nei saloni di Palazzo di Città.
Ad un certo punto, Gatto dice: “La poesia forse parla poco ai contemporanei; nasce essa stessa dal desiderio di sopravvivere, di parlare a quelli che verranno dopo, ma io so che tornando in quest’aria, sotto questo cielo, tra di voi, bevendo la nostra acqua, io sono nel sangue, alle radici, come voi, inspiegato anche sul come sono: altrimenti forse non sarei nemmeno quel piccolo, quel tanto di poeta che ho cercato di essere.” E più avanti: “E forse il sogno del piccolo e del povero poeta che io sono è che un giorno, tra molti anni, diciamo, un ragazzo come me, con la testa pesante, sul collo magro, passi per questa marina e pensi anche lui alle proprie parole che lo ricorderanno un giorno, pensi anche lui che per amare dovrà dare dolore a suo padre, a sua madre, alla sua città, partire.” Ancora: “Ora in conclusione, voglio dirvi che l’onore che mi avete dato non va tanto alla mia persona, ma va alla poesia, che io, con le mie forze, quali esse siano, rappresento”.
Fin dalla prima lettura non ho mai pensato che in queste parole ci fosse ipocrisia. Mi colpiva, e mi colpisce, quell’insistere sul piccolo, povero poeta, su quel tanto di “poeta che ho cercato di essere”, e sull’onore che va “alla poesia che rappresento”; ma ancor più bella è l’immagine sognata del ragazzo che pensa alle proprie parole. Non so dirvi perché, ma mi è sembrato subito chiaro che l’onestà intellettuale del poeta passava attraverso quel ragazzo.
Non è un’immagine nuova, appositamente coniata per quel discorso tenuto a cinquantaquattro anni. Nella poesia “La valigia” Gatto scrive:

Porto la mia valigia di segreti,
l’ebbi da un nome che al passarmi accanto
s’ebbe il mio nome e proseguì la strada.
(…)
Lascio la mia valigia di segreti
a un altro nome che al passarmi accanto
s’ebbe il mio nome e proseguì la strada.

E ne “Lo stellato”, poesia tenera e dolorosa al contempo, costruita su dolcissimi settenari, semplici e doppi:

Quale immagine vedo oltre di me che viva
in quest’ultimo sole,
quale giorno infinito?
(…)
Così per l’infinito della memoria il nome
mi resti in ogni passo che si ferma vicino
e s’allontana come salendo al mio ricordo.
Basta l’umile accordo di voci e di parole
che mi dica poeta, sarò di chi mi vuole
nel vento della chiara notte che va con lui.

C’è in questi versi quella splendida musicalità che fa di Gatto uno dei miei poeti preferiti. Ma lo è non solo per la musicalità, anche se voglio confessare che spesso, a prima lettura, capisco ben poco, a volte proprio nulla, ma il fascino di quei suoni mi è così caldo e avvolgente… Fascino, da fasciare, avvolgere… a volte basta il suono per farmi sentire “avvolto” in un caldo abbraccio. Cos’è abbracciarsi se non il desiderio di respirare insieme? Spero che alla fine di questa nostra chiacchierata possa fare scoprire anche a voi questa meravigliosa sensazione.
Ma andiamo avanti. Anzi, indietro. Torniamo al discorso agli alunni del Liceo Tasso, dove dice: “Ecco, voi avete davanti a voi un poeta, un piccolo poeta, senza modestia ve lo dico, ma basta esserlo, ed è già qualcosa essere un piccolo poeta, è già qualcosa, non per la vanità di esserlo, e nemmeno la responsabilità di esserlo, è qualche cosa perché la vita è nella presenza dei poeti, che non danno soltanto testi alle scuole, ma suggerimenti alla natura, suggerimenti alla storia, di cui la storia non tiene conto. I poeti sono dei potenziali di vita, sono immagini della vita, sono forze, energie della vita. In questa vita dove tutti vogliono avere, essi rappresentano l’essere. (…) Voglio aggiungere soltanto che io sono tornato con molta commozione in questa vostra e mia scuola. Ci sono tornato come un irregolare (i poeti da molto tempo sono considerati irregolari) che ha, però, la regola nella propria coscienza, ha la regola della consapevolezza di non aver mai chiesto alla poesia e alla cultura di essere mediana delle proprie ambizioni e delle proprie velleità, di averla vista come un documento, come una traccia, come la prova del nostro essere migliori persino degli ideali, per i quali ogni giorno combattiamo. (…) io vi ringrazio tutti, col cuore commosso, con l’animo modesto di un irregolare che riprende la sua strada.”
Il Liceo Tasso, in occasione del trentennale della morte, ha recuperato questo discorso, magicamente rimasto impresso in una vecchia bobina che chissà chi aveva registrato. Ne hanno fatto un cd, che ovviamente ha interessato pochi all’esterno della scuola, invece era una splendida operazione. Sentire la sua voce è molto affascinante e si ha la netta sensazione che queste parole, certamente improvvisate, siano comunque il frutto di una meditazione costante sulla poesia e sul suo senso. Non credo possa essere diversamente. Soprattutto se si estrapolano frasi come: “suggerimenti alla natura” (Oscar Wilde dice che è l’arte ad inventare la natura, ed in un certo qual senso è vero: pensate a chi ha effettivamente e diversamente guardato un tramonto prima che un poeta lo abbia cantato); “suggerimenti alla storia, di cui la storia non tiene conto” credo additi proprio la capacità dei poeti di sentire il futuro, e la incapacità degli uomini di ascoltare, magari per evitare disastri; o “i poeti sono potenziali di vita, sono immagini della vita, sono forze, energie della vita”: non è la vita ad appartenere all’uomo-poeta, ma lui ad appartenere alla vita, e in questo appartenere egli è un’energia potenziale che troppo spesso il consesso degli uomini si rifiuta di sfruttare, ecco perché – credo voglia dire - i poeti sono sempre più considerati degli irregolari. Essi danno fastidio. E chiude, poi, ancora una volta, con l’immagine del poeta che si rimette sul suo ineluttabile cammino. 
Ho citato principalmente, finora, del detto-trascritto, ma nella prefazione a Poesie d’amore, datata “luglio ‘72”, scrive: “per conto mio, riconosco che nei miei testi non c’è nulla d’immaginario e di casuale, che le persone chiamate, invocate, perdute, hanno un nome, e il merito di aver amato, ascoltato, protetto un uomo intrattabile, e insieme arreso alla pietà, quale il poeta è”. Dice quale il poeta è, non quale io sono. 

(continua...)