sabato 28 luglio 2018

IL FORTINO DELLA RECITAZIONE - LÌ DOVE IL TEATRO MUORE (3)

L'altra sera sono stato a vedere "Le rose di Atacama" tratto da Luis Sepulveda, interpretato da Mattia Mariani e Silvia Nati. 
Per la prima volta in vita mia ho pianto a calde lacrime: a fine spettacolo ho abbracciato Silvia e ho pianto.
Si può pensare che sia stato un segnale della vecchiaia, invece il motivo della commozione mi è stato perfettamente chiaro e l'ho comunicato ai due interpreti. 














Mattia Mariani è un bravo attore, figlio e nipote di attori. I suoi genitori sono stati fondatori e parte attivissima dello storico Gruppo della Rocca, suo zio è Giulio Brogi.
A "La Silvia" - per gli amici anche "La Nati", purché detto sempre con lieve strascicatura toscana perché "La Nati" è di  Bagno a Ripoli - avevo 
 già dedicato un post che ha avuto anche un buon numero di lettori. 
Il motivo delle lacrime ve lo espongo subito, devo soltanto ancora dirvi che, sebbene il discorso riguardi entrambi gli interpreti, per motivi affettivi mi riferirò esclusivamente a "La Silvia": ci conosciamo dai tempi dell'Accademia d'Arte Drammatica "S. D'Amico", dove io entrai nel 1986 e lei l'anno successivo, abbiamo dunque condiviso la goliardia della gioventù, siamo sempre rimasti legati da sincera amicizia, e soprattutto - quale cemento migliore per due attori - siamo stati scritturati insieme per due intere stagioni da Valeria Moriconi, per gli spettacoli "Trovarsi" di Pirandello (regia di Patroni Griffi) e "La nostra anima" da Savinio (regia di Egisto Marcucci). 

L'altra sera, come dicevo, la Nati mi ha commosso fino alle lacrime. 
Le rose di Acatama, è un bello spettacolo, dove si raccontano terribili e splendide storie della dittatura cilena, ma non sono stati i contenuti a commuovermi. 
A un certo punto, il personaggio di un professore esule in Germania dice mentre stringe un libro di poesie cilene al cuore che "La nostra lingua è la nostra patria". 
Improvvisamente mi è tornata in mente la splendida asserzione di Pessoa: "La mia patria è la lingua portoghese", e poi che c'è un'altra frase, di Leopardi, che però non sono riuscito a ricordare esattamente, ma che dice praticamente la stessa cosa. 
Da quel momento il mio ascolto, non so perché, si è fatto ancora più intenso, e arrivato all'ultimo racconto, quello in cui La Silvia ci dice cosa sono le rose di Acatama (un pezzo che fa in una maniera assolutamente sublime), ho compreso: stavo assistendo, stavo ascoltando una cosa che è diventato ormai quasi raro ascoltare, la vera, grande recitazione italiana, la recitazione della lingua e nella lingua italiana, fatta di musica pura e di colori meravigliosi, di linee sinuose e di ritmi, ascoltavo la nostra lingua morbida e dolce, dura e terribile... e soprattutto, capivo ogni cosa, e non perché capissi le parole in quanto semplicemente (e stupidamente) ero di fronte a una bellissima dizione, no: io spettatore capivo ogni cosa perché non dovevo fare alcuno sforzo per ricostruire nella mia testa le frasi che venivano dette, né cercare di capire il perché venissero dette: tutto era chiaro, il senso era chiaro, e mi è sembrato di essere stato dolcemente condotto sotto la cascata di acqua calda in una piscina termale. Quella - io mi vi riconoscevo - era la mia lingua, la mia patria, il mondo teatrale in cui sono nato e cresciuto e che quotidianamente e normalmente era intorno a tutti noi.  



Di sicuro qualcuno si starà chiedendo chi sia questo genio di attrice e se io, complice l'affetto, non stia esagerando.
No, non esagero. Per il semplice motivo che conosco la Silvia da quando teatralmente è nata, come lei conosce me. Tra noi, come con altri, ci siamo visti crescere e maturare nel tempo, giorno dopo giorno nell'apprendimento del mestiere e oggi siamo alla maturità. Maturità che dovrebbe garantirci una occupazione continuata, e invece, come tanti altri colleghi, dignitosamente combattiamo strenuamente per mettere insieme la necessità della sopravvivenza quotidiana con la necessità dell'espressione quotidiana. 
Ne conosco tanti altri come la Silvia, che sanno davvero fare il proprio lavoro, che hanno davvero appreso il mestiere e ai quali capita pure che ogni tanto "sfuggano di mano" cose straordinarie. Perché secondo me è così che funziona l'arte: tu fai ogni giorno il tuo onesto lavoro di artigianato, poi ogni tanto qualcosa ti sfugge dalle mani... e gli altri si accorgono che è arte. Gli altri, non tu, per te è sempre il tuo onesto lavoro di artigianato. 

Nella mediocrità che imperversa, il più genuino senso del mestiere si va annacquando, e perdendo, si grida al miracolo per cose che non sono nemmeno "l'onesto lavoro di artigianato", cose (e non posso definirle diversamente) in cui palese è l'inadeguatezza tecnica dei suoi protagonisti. Guardavo la Silvia e per un attimo mi è venuto in mente un contraltare come questo, purtroppo. Ma poi i cattivi pensieri sono stati velocemente ricacciati indietro dalla forza della bellezza, dal constatare una vera conoscenza della recitazione italiana, la recitazione nella propria lingua, la recitazione che si fa sostanza e corpo, la normalità di un tempo, l'aver contezza dei "ferri del mestiere", della musica, profonda, insita nella propria "patria". 

Questo mi ha commosso. Per un attimo ho riascoltato la mia "patria", la nostra "patria", e l'ho vista, sola, come un fortino nel deserto che si difende strenuamente dagli attacchi della mediocrità e del facilismo imperante, dalla decadenza della professione e delle regole, dalla semplicità e creatività che sono punti di arrivo dopo faticosi percorsi e non balordi e inconsistenti punti di partenza. 
Ognuno di noi - ho pensato - è proprio come un fortino che, solo, difende la musica, la storia, le radici, la cultura della nostra lingua. E non per chiuderla, ma perché essa si offra sempre a nuove e faticose esplorazioni. Ma esplorazioni che possono solo nascere dalla conoscenza profonda e non dalla genericità e dalla superficialità in nome di una creatività che in realtà serve solo a giustificare l'inconsistenza e la mediocrità. 

Uno dei motivi della decadenza del nostro teatro, ho pensato, è nel fatto che i nostri registi non sanno più lavorare sulla recitazione, non sanno più lavorare sulla lingua, sulle sfumature della lingua, sull'ampia e infinita gamma di suoni che essa può produrre e sulle differenze che immancabilmente ci sono tra una sfumatura e l'altra. Se per lo scrittore Flaubert era vero che "una sola parola può esprimere un concetto, tutte le altre sono sbagliate", a maggior ragione per un attore e per i suoi registi deve essere vero che una solo "intonazione" può esprimere un concetto, tutte le altre sono sbagliate. E la ricerca "nel suono, nella lingua, nella musica della lingua" non è un pezzo secondario, una fastidiosa appendice, ma una colonna portante e imprescindibile. 
Quelli che oggi sanno fare questo lavoro sono ormai diventati pochissimi. 

'A concentrazione, er pathos, ll'energggia, er personaggio, 'a psicologia, er corpo, 'a caduta, l'intenzità... E poi le possibilità espressive della tua lingua si perdono. Perché "l'orecchio" si fa, come si fa l'apprendimento del mestiere, la musica si coltiva come si coltiva un ulivo saraceno.
La "patria" non è un campo chiuso, è un campo da esplorare. 

lunedì 23 luglio 2018

ABBASSO L'INTELLETTUALISMO - LÌ DOVE IL TEATRO MUORE (2)

Uno degli inganni su cui il teatro sta morendo è quello del "valore del contenuto". 
Ciò che in realtà conta è il "come" si fanno le cose e non cosa esse ci raccontino.
La professionalità non ha nulla a che vedere con la serietà o peggio, seriosità degli argomenti trattati. 

Sarà più facile il drammatico, sarà più facile il comico, è più facile far ridere o far piangere, sono tutte discussioni inutili e fuorvianti. Conta la capacità professionale di ciascuno e solo in questa si vivifica l'importanza di quel che si sta facendo. 
Sintetizzando potremmo dire che conta la forma e non il contenuto.
D'altra parte, se da tremila anni ci raccontiamo sempre le stesse storie (Edipo - Amleto - Il gabbiano...) e questa stesse storie sono accolte dal pubblico, è perché cambia il modo in cui ce le raccontiamo. Ugualmente se da centinaia di anni mettiamo in scena sempre le stesse tragedie - commedie - drammi - farse è perché cambia il modo in cui le mettiamo in scena (l'Amleto di Kean, l'Amleto di Talli, l'Amleto di Gassman, di Albertazzi...). 


Ma c'è, a mio avviso, una controprova di quanto dico, inattaccabile: se valesse più quel che si racconta rispetto al come lo si racconta, dovremmo convenire che Antigone fatta dalla filodrammatica sotto casa è e sarà sempre più importante della farsa messa in scena da Peppino De Filippo. Siccome nessuno dotato di senno, ma anche non dotatone, dotato di cuore, ma anche non dotatone, dotato di pancia, ma anche non dotatone può convenire sul fatto che l'Antigone eseguita della filodrammatica valga più della farsa eseguita da De Filippo, ecco dimostrato che non è il contenuto a fare il valore della rappresentazione! 

Ma ad un certo côté intellettuale conviene sostenere tesi contraria (è una cosa sempre accaduta in Italia, e acuitasi negli ultimi trent'anni in modo pestilenziale), conviene sostenere il valore dell'intellettualismo. Non credeteci, è un mero gioco di potere, un mero esercizio di potere, basato sull' "io capisco e tu no". Sciocchezze, in Teatro, dal lato dello spettatore, non c'è chi ha maggiore "potere" rispetto ad altri. Gli spettatori in poltrona sono tutti uguali e i giudizi di tutti, positivi o negativi, sono tutti rispettabili e devono doverosamente essere accolti. Quel teatro che dal lato palcoscenico non è democratico mai, ma piramidale e autoritario quasi sfiorando la dittatura, dal lato pubblico può solo essere democratico.
Se non recuperiamo questo concetto e se non recuperiamo quello ancor più importante che l'intellettualismo è nemico dell'arte teatrale, vedremo il teatro sgretolarsi sempre più. La china presa è già decisamente pericolosa.


O fai ride' o fai piagne, conta come lo fai e no che stai a ddi'!
Spero che me so' spiegato.

Cerèa. 

giovedì 12 luglio 2018

LÌ, DOVE IL TEATRO MUORE (1)

Il Teatro non è soltanto una pratica artistica, è un modo di vivere, di essere, di affrontare il mondo.
Non sono mai stato, da ragazzino, in colonia, e da adulto, causa terremoto dell'80, mentre ero per partire sono stato esonerato dal servizio militare. La "dominante" della mia vita era: stare da solo; e per certi versi lo è ancora (a volte mi fa piacere, a volte no).
Ma quando penso al momento in cui ho imparato il senso della disciplina, il rispetto delle regole e degli altri, l'eseguire il compito assegnato, il valore e a volte la fatica della convivenza, ma anche la capacità di difendere me stesso e i miei spazi, penso ai tre anni dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico".
Sembrerà impossibile ai più che una scuola artistica - vista in genere come il film "Fame - saranno famosi" (a me caro poiché durante la sua visione diedi il mio primo bacio) - possa essere vissuta come il servizio militare, eppure è stato così. D'altronde, non si chiama Accademia anche quella gloriosa di Modena? E allora perché i presupposti non dovrebbero essere gli stessi? Perché gli artisti sono "stravaganti"? Luoghi comuni, solo luoghi comuni.
Gli artisti, o per meglio dire i lavoratori dello Spettacolo, gli artigiani dello Spettacolo, vivono in un regime di profonda e costante disciplina, anche se non si vede, anche se non appare, anche quando dicono di professare il senso della sregolatezza. 
Ed è così sempre, per tutti coloro che durano nel tempo. Se... non durano, evidentemente qualcosa non ha funzionato proprio nell'abbandonarsi alle regole. 

Regole che possono essere suddivise in quelle che guidano il rapporto con la nostra interiorità e quelle che guidano le relazioni con gli altri, con l'esterno. 
Non mi è ancora chiaro quanto siano diverse, a volte mi pare che in realtà non lo siano affatto, di sicuro sono assolutamente complementari. E hanno una caratteristica: ciascuno può gestirle come preferisce senza mai veramente eluderle, senza mai invadere il campo altrui, cosa facile da comprendere perché una regola detta sempre un limite, e anche il superamento del limite è una idea di limite.
Un'altra qualità certa, poi, e pure questa di facile comprensione, è che entrambe le tipologie di regole gestiscono il rapporto con la propria professionalità e con la professionalità del lavoro. 
"E non è lo stesso?", chiederà il solito facilone dei nostri giorni. No, non lo è: perché si può avere professionalità del lavoro, ma non essere professionisti (a volte anche essere professionisti senza professionalità del lavoro, ma è un traguardo della maturità, i giovani ne stiano alla larga). 
Mi spiego con un esempio facile: da dove deriva professione (e dunque professionalità)?
Da professare, e per la sua etimologia il vocabolario ci dicePubblica manifestazione d'un sentimento religioso, di un'opinione e simili, e ancora: Esercizio di un'arte nobile, di quelle, cioè, che si possono professare, ossia insegnare dalla cattedra (da cui anche professore). 

Dunque, la professione è la pubblica dichiarazione di un credo interiore, e se è un credo interiore non ha bisogno di "regole" (parrà un paradosso) perché è regola in sé, è un sentire che non può che condurti per una retta via, quindi non avrai bisogno di importi delle cose da fare, ma le farai perché non puoi vivere diversamente. Per capirci con qualche esempio: io non vado in teatro un'ora prima dello spettacolo perché "è professionale", ma ci vado, anche due ore prima, perché mi piace stare in quel luogo, e solo in quel luogo io mi sento a casa, mi sento a mio agio; non rimetto a posto il mio costume alla fine dello spettacolo perché è professionale e/o si arrabbia la caposarta, ma perché nel costume io vedo il mio personaggio, riconosco un pezzo di me e del mio lavoro, un pezzo di ciò che faccio e di ciò che sono, e dunque sento come naturale trattar bene quella parte di me. 

La seconda parte della spiegazione del vocabolario etimologico è forse ancor più interessante. Cos'è in fondo il nostro mestiere, la nostra professione? Io credo sia niente altro che "un passaggio di testimone": ciascuno di noi ha appreso il mestiere da qualcun altro che gli ha consegnato il testimone che aveva precedentemente ricevuto; nostro compito è tenere quel testimone lucido e in perfetta efficienza per riconsegnarlo a chi verrà dopo di noi, se possibile - se possibile - anche un po' più lucido di come ci è stato consegnato. È in questo meccanismo che tutti divengono uguali e di pari importanza, i primi attori come gli ultimi, chi ha avuto successo e chi prosegue la sua vita di disciplinata dedizione al Teatro in silenzio e fino alla fine. Perché tutti sono ugualmente indispensabili al gioco. Servono i protagonisti come "i maggiordomi". Nessuna persona è indispensabile, ma nel gioco indispensabili sono i ruoli. Forse è perché comprendono questo che i veri grandi sono come impregnati di umiltà. 
(Questo senso dell'uguaglianza non deve trarre in inganno le giovani generazioni, perché quel posto in alto, o nel camerino davanti al tuo, o il posto in fila al ringraziamento più centrale del tuo, quell'attore anziano se lo è guadagnato con anni di dedizione e fatica. Rispetto e buona educazione la fanno sempre da padroni come nella vita (dunque, per favore, prima di dare del TU a un attore anche poco più grande di voi, chiedete il permesso; ché se lo farete non vi verrà mai negato).)  

Ora, tornando alla seconda parte del dizionario: la professione certamente cambia col passare del tempo e delle mode, ma non cambia nella sostanza. Non tutti, anzi pochi di noi salgono effettivamente in cattedra per insegnare il mestiere, ma la professione offre una straordinaria possibilità: insegnare il mestiere senza mai salire in cattedra. Come? Ma con il proprio vivere la professione, facendo la cosa più semplice del mondo: testimoniando il proprio credo quotidianamente. 
Io vivo il mio essere attore e sono in contatto con attori più giovani di me che mi vedono vivere, e nel contempo ci sono attori più grandi di me che io vedo vivere, e tutti impariamo dagli altri avendo ben presente la nostra voglia di osservare i più anziani in quanto specchio di una vita nella professione, in quanto proiezione della vita che abbiamo abbracciato, perché da un lato ci rivediamo nella giovinezza che è stata nostra, dall'altro confidiamo di essere in quella anzianità che ci vediamo dinnanzi. 
In questa naturale ciclicità, ogni gesto che compiamo nel nome del nostro credo è un insegnamento che impartiamo non solo agli altri ma a noi stessi, rinnovando ogni giorno, come un vero sacerdote la nostra "professione di fede", che niente altro è che "professione di amore". 
Il Teatro, il lavoro dell'Attore si può solo amare. 

tic

tac

tic 

tac 

Che accade? Sentite questo ticchettio? Pare come l'inquietante segnale della presenza di... 

UNA BOMBA!!! 

E sta per esplodere! 

tic 

tac

tic 

tac 



Bello tutto quello che avete letto finora, vero? Intenso, complesso, caldo, appassionante. Vien quasi voglia di fare l'Attore, vero? 
Eppure, tutto questo sta mortalmente sparendo. Mortalmente. La morte sta lentamente abbracciando il Teatro e la professione attoriale. E se non vi si pone mano subito, la fine sarà inevitabile. 

Già, perché tutte le belle cose che vi ho scritto (e molte altre ce ne saranno, oggetto di altri post), accadevano in un luogo che sta scomparendo dalla scena teatrale italiana: la Compagnia di giro! 

Questa strana comunità, la Compagnia di giro, che per un tempo oscillante tra i quattro e i nove mesi, si muoveva, ogni santo inverno che nostro Signore mandava in terra, almeno negli ultimi quattrocento anni, per la nostra penisola e non solo, da una città all'altra, da un paese all'altro, che passava dal Veneto alla Sicilia nel giro di due giorni, di palcoscenico in palcoscenico, dai teatri grandi e organizzati a quelli piccoli e privi di comfort. 
La Compagnia di giro, questo strano organismo contemporaneamente aperto al mondo e chiuso in se stesso, viveva su di una struttura solida, precisa e disciplinata. Chi entrava a farvi parte era ben contento di accomodarsi nelle sue regole, di scambiare quotidianamente i propri umori, mentali e fisici, con i colleghi, lieto di apprendere dai più anziani i segreti di una professione, di stare gomito a gomito con "i grandi" e di condividere le giornate con i piccoli. Non tutti ti erano simpatici, ma imparavi la convivenza con tutti. Si rideva insieme, si litigava, si viaggiava e si condividevano dolori e speranze. 
Un mondo in movimento nel quale il grande e antico gioco del teatro si ripeteva ritualmente ogni giorno, conducendo l'attore, quotidianamente, nella sua dimensione più profonda. Ogni recita era gara e allenamento insieme, la prova finale e l'inizio della prova successiva. 
La Compagnia era il luogo dove accogliere e condividere il mistero della "struttura del teatro", riconoscere le gerarchie indispensabili alla sua sopravvivenza, capire che la loro perpetua rigenerazione era ed è linfa vitale e indispensabile per la professione

Le nuove leggi con cui si è pensato di regolamentare il Teatro in quest'epoca di globalizzazione della qualunque, anche delle culture, di libero mercato volto a sottopagare chiunque, in primis gli attori, in quest'epoca di uno Stato che vuole farsi sempre più assente dal sovvenzionamento delle attività culturali se non per creare centri di potere che dettino l'indirizzo culturale, aggregati impenetrabili del pensiero unico... queste nuove leggi stanno portando alla scomparsa del luogo in cui si perpetuava il senso profondo della professione. Le nuove norme parlano di stanzialità, di quantità, di produttività, rinnegano nel profondo la filosofia girovaga su cui il nostro teatro si è costruito e che, soprattutto, gli è valso il valore e la fama che ancora lo contraddistingue, quanto meno agli occhi degli stranieri. Si spinge la professione verso un generico odore impiegatizio, costringendo gli attori a stare a casa, dove la casa non è più il teatro, il camerino (ormai pari allo spogliatoio di una palestra), ma le quattro asfittiche mura domestiche! Il nuovo CCNL parla già di stipendio mensile... il resto va in conseguenza. 

Il termine del percorso è chiaro: distruggere la professionalità per tagliare le radici con una tradizione culturale e istituire il globalismo della cultura, avere lo stesso Musical a Roma come a New York, al pari dello stesso venditore di hamburger e di mobili componibili. E che il teatro sia fatto da professionisti o da amatoriali, cosa cambia, chi volete che se ne accorga se il gusto si adatta non distinguendo più tra un mobile artigianale e uno di ikea? Luci, costumi, paillettes, nani e ballerine... e poi nello stupore dei colori tutto andrà bene. 
Se voglio realizzare questo progetto, è chiaro che gli attori, i professionisti, quelli del Credo vissuto quotidianamente, devono scomparire e con essi il mondo che li ha allevati e perpetuati nei secoli.
Basta avere una burocrazia capestro che massacri le compagnie private (quelle che hanno dato lavoro alla stragrande maggioranza dei lavoratori dello spettacolo per decenni!), una burocrazia che gli crei mille difficoltà, una improponibile competizione, anche se non palese, con gli Stabili che possono contare sui fondi pubblici; basta un CCNL pensato solo per i rapporti con le strutture pubbliche e che renda la vita impossibile alle piccole compagnie e/0o al privato; basta che i giovani non conoscano più quel tipo di vita! Con essa cadranno le regole, verso l'interno e verso l'esterno, e di conseguenza il secolare senso della professione che infatti - chi fa il mestiere da anni lo ha già capito - va sempre più verso il crinale della precarietà e soprattutto della amatorialità. 

La morte lenta del teatro sta cominciando da qui, dal togliere pian piano ma inesorabilmente l'ossigeno alla Compagnia di giro, alla tradizione italiana per eccellenza, quella che nobilmente discende dai comici dell'arte, sottraendo agli attori la possibilità di riconoscere la loro storia secolare, di consegnarsi di mano in mano le tradizioni. Provate a chiedere a un giovane di oggi, allevato a spettacoli da "un mese di prove e due replice", se sa come si regola l'ordine dei camerini, se sa riconoscere un "primo camerino" e se ha idea di quali siano le regole per cui si costruisce un ringraziamento o l'ordine delle foto nel foyer o dei nomi sul manifesto, o se sa cosa sia un baule o un "cumulativo".
Un tempo, i vecchi attori si divertivano a fare con noi un "crudele" giuoco, ponevano la domanda delle domande (in tre parti): 
- si mangia prima o dopo lo spettacolo?
- di che colore è il bonifico? 
- ogni quanti giorni si prende la paga?
Se rispondevi "eri un attore". 
Il maggior numero di vittime la faceva il bonifico (che era una carta verde per avere lo sconto viaggio che già ai miei tempi non usava più), sul resto venivamo quasi sempre promossi. 

Oppure, tra due attori sistemati nello stesso camerino, chi ha il diritto di sedere più vicino alla porta? E le relative due targhette con nomi come devono essere disposte sulla porta? 

Follie, dirà qualcuno, eppure se siamo arrivati fino a qui, è perché ci siamo trasmessi il senso di questa impalpabile struttura, nella quale abbiamo amato stare. Dai vecchi abbiamo imparato, e pare che con grande difficoltà riusciremo a re-insegnare ai giovani il gioco, la struttura meravigliosa che ci ha fatto ingoiare felicemente centinaia di ore di tristezza, solitudine, silenzio, dolore... 

Se il testimone cade, la squadra è eliminata. 





Vi lascio con un brano tratto dal libro "Attori, Mercanti, Corsari" di Siro Ferroni

" "Venga il canchero a questa professione ed a chi ne fu l'inventore! Quando mi accomodai con costoro, mi credevo di provare una vita felice: ma la ritruovo appunto una vita da zingari, quali non hanno luogo fermo né stabile. Oggi qua, domani di là; quando per terra, quando per mare e quel ch'è peggio, sempre vivendo su l'osteria, dove si paga bene e stassi male. Poteva pur mio padre mettermi a qualche altro mestiero, nel qual credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio, poiché chi ha arte ha parte in questo mondo, soleva dire Farfanicchio mio compagno. Pacienza, io ci sono entrato e basta in questa professione romperci un paio di scarpe, per non se ne levar mai più". (Domenico Bruni, attore del '600)
Nel gergo dei commedianti "rompere le scarpe" è quasi sinonimo di recitare, che registra insieme al danno e alla fatica del mestiere, la fatale accettazione di un destino (...) È stato giustamente scritto che gli attori si mossero per guadagnarsi da vivere. È vero, ma è solo una parte della verità. Non si spiegherebbero altrimenti né la persistenza del mestiere in attori affermati che raggiunsero, grazie al teatro e ad altre professioni collaterali, una relativa sicurezza economica, né le scelte addirittura contrarie all'interesse economico immediato che fecero altri, preferendo l'arte del recitar viaggiando a qualunque occupazione stanziale. La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca della libertà.

Ora chiedetevi per quale motivo avete scelto questa professione. 

martedì 3 luglio 2018

LA SINISTRA CHE DICEVA DI SAPERE TUTTO, E INVECE NON SAPEVA UN C...O!

Resto pienamente convinto del fatto che uno dei motivi per cui il nostro centrosinistra non ha più i consensi di una volta sia dovuto a una sua caratteristica "immortale": la supponenza culturale e morale.
È questo, io penso, che rende la sinistra assolutamente insopportabile non soltanto "alle masse" che ormai votano da tutt'altra parte, ma comincia a renderla indigesta anche a molte persone "colte" sempre state di sinistra. 

Quest'aria di spocchia, di puzza sotto al naso, di so io il perché e il percome e te lo insegno, e se anche non lo capisci è certamente come dico io... Quell'aria di so io qual è il libro migliore, l'autore più importante, quali sono i film e gli spettacoli teatrali che dovresti vedere, e se non ti piacciono è perché non li capisci, ché se li capissi ne godresti come ne godo io, vedi come ne godo, come mi sciolgo in totale deliquio? 
Ecco, questo tipo di atteggiamento, che ha preso piede negli anni '70 e si è trascinato fino ad oggi, costruendo di volta in volta una serie di icone, di santini, di magnifici condottieri intoccabili e mai criticabili, dal versante culturale si è esteso a tutti gli altri campi. 
Finché un giorno, questa sinistra di pensiero superiore non si è ritrovata alla guida del Paese. A quel punto, i più si sono fidati, perché loro erano quelli che sapevano e avevano sempre saputo, e se sapevano di cultura avrebbero saputo anche di tutto il resto, o no? E gli altri, molti meno, hanno abbassato lo sguardo, timorosi di incappare nella figuraccia, tanto poi, al limite, potevano vendicarsi nelle urne. In pochi, veramente in pochi hanno sempre tenuto la propria posizione sopravvivendo con fatica. 
Perché non ci saremmo dovuti fidare, loro sapevano e l'altra parte era certamente di scarsa moralità e pessima cultura. E forse in troppi abbiamo fatto un errore clamoroso: non soltanto ci siamo fidati, ma ci siamo affidati, togliendo completamente il piede dal pedale del freno della vigilanza. 
Ci ha però risvegliato la realtà. Perché man mano che si andava avanti, le cose... non andavano come quelli ci avevano raccontato. Non solo: andavano sempre peggio! Per finire, nel caso di moltissimi di noi, al disastro totale. E anche sotto il profilo morale non è che ci abbiano fatto una figura migliore rispetto a "quegli altri", anzi in alcuni casi è stato decisamente peggio: da quale pulpito arrivavano, dunque, le prediche?!

A quel punto l'equazione è stata semplice tra quel che mi avete raccontato e quel che è accaduto: siamo certi che tu davvero ci capisca, che tu sappia, che tu abbia la verità in tasca e le soluzioni a portata di mano, che tu sia nel giusto, che tu sia umanamente e moralmente migliore degli altri? 

In tanti, tantissimi si sono dati la risposta... e hanno votato da altre parti, anche dove non avrebbero mai immaginato. 

Ci si aspetterebbe, adesso, che questa sinistra di "superiore qualità culturale e morale", faccia un profondo esame di coscienza. Ma se questo è stato il meccanismo che li ha guidati per una vita, praticamente per tutto il periodo repubblicano, l'esame dovrebbe andare così in profondità da non prevedere più la risalita. 
Qualcuno ha intrapreso il percorso di analisi e purificazione e ne è anche venuto fuori, ma sono davvero in pochi quelli che sono riusciti a tagliare il cordone ombelicale con se stessi.
Gli altri, la stragrande maggioranza che ormai non incontri solo nello schermo tv, ma anche al bar o al mercato, incazzata, imbufalita, livorosa e rancorosa, accanita come i bimbi viziati cui si toglie per punizione la palla, che sia sinistra di governo o di opposizione, ondeggiante verso il centro o estrema, continua a salire su di un pulpito sotto cui non c'è quasi più nessuno. E più sotto vede il vuoto, più non riesce a spiegarsi il perché, più si incazza e si imbufalisce, presa in una spirale che è già gorgo e dalla quale non potrà salvarsi.

I loro Media, gli spin doctor, i comunicatori, i politici, i professori, gli imprenditori, gli artisti e i mille esperti di ogni genere, non riescono più a "guidare" il popolo, non convincono più le masse, non hanno più strumenti efficaci per la risalita. 
Il Potere è perso. 
Perché chi per caso ormai, ascolta le loro parole pensa una cosa di una banalità disarmante verso la quale non c'è replica perché è la vita, è la Storia ad avere risposto: "Dicevi di sapere tutto, invece non sai un cazzo!".