venerdì 24 giugno 2016

E ORA, CARO MARIO, IN CHE LINGUA PARLERAI? (La BCE e l'inglese)

A molti è sempre parso assurdo che il presidente della Banca Centrale Europea, ultimo Mario Draghi, nelle occasioni ufficiali parlasse in inglese.


Assurdo perché, si diceva, la BCE è la banca che emette l'euro e la Gran Bretagna non adotta l'euro.
Qualcuno rispondeva: ma è nella Unione Europea.
Ecco, qui, oggi, 24 giugno 2016, si pone un piccolo problemino.
Perché in molti altri dicevano che Draghi &C parlavano in inglese in quanto lingua della finanza. Il che non era un bel segno, dato che si poteva dire: allora Draghi si rivolge prima alla finanze (non come corpo dello Stato italiano) e poi ai cittadini, è più interessato ai rapporti con la finanza che non a quelli con i cittadini. La qual cosa sarebbe sta ance comprensibile, una volta ammessa, perché è abbastanza logico che una banca, per di più centrale, parli con i mercati e i suoi investitori.
Cosa ci sarebbe stato di male, dunque, ad ammetterlo.
Ma niente: "GOMBLOTTISTI GOMBLOTTISTI GOMBLOTTISTI!!!..."

I più ingenui se la cavavano con un: "l'inglese è la lingua più parlata al mondo", e anche questo ci può stare.

Ma ora il problema un po' si pone, caro Mario, perché la UK non solo non è nell'euro come non ci è mai stata, ma non è nemmeno più nella Unione Europea, e tu, fino a prova contraria, sei una istituzione fondamentale di questa Unione Europea. I sudditi di sua Maestà Elisabetta hanno deciso di dare un sonoro schiaffo a questa UE, non ne sono stati cacciati ma l'hanno espulsa dalla loro antica isola, e quindi.. adesso che si fa? Qual è il rapporto, caro Mario, che noi ancora abbiamo con quel Paese?
E allora, in che lingua parlerai adesso? In che lingua?
L'inglese? Bene, nessun problema.
E allora si diano una calmata coloro che gridano al GOOOMBLOOOOTTO. Poiché sarà chiaro che Marione starà giustamente e comprensibilmente parlando la lingua della finanza.
Della finanza! Non di Shakespeare.

24/06/2016: WE FEW, WE HAPPY FEW, WE BAND OF BROTHERS!

OGGI È IL GIORNO DI SAN GIOVANNI. 

WE FEW, WE HAPPY FEW, WE BAND OF BROTHERS!



What's he that wishes so?
My cousin Westmoreland? No, my fair cousin:
If we are mark'd to die, we are enow
To do our country loss; and if to live,
The fewer men, the greater share of honour.
God's will! I pray thee, wish not one man more.
By Jove, I am not covetous for gold,
Nor care I who doth feed upon my cost;
It yearns me not if men my garments wear;
Such outward things dwell not in my desires:
But if it be a sin to covet honour,
I am the most offending soul alive.
No, faith, my coz, wish not a man from England:
God's peace! I would not lose so great an honour
As one man more, methinks, would share from me
For the best hope I have. O, do not wish one more!
Rather proclaim it, Westmoreland, through my host,
That he which hath no stomach to this fight,
Let him depart; his passport shall be made
And crowns for convoy put into his purse:
We would not die in that man's company
That fears his fellowship to die with us.
This day is called the feast of Crispian:
He that outlives this day, and comes safe home,
Will stand a tip-toe when the day is named,
And rouse him at the name of Crispian.
He that shall live this day, and see old age,
Will yearly on the vigil feast his neighbours,
And say 'To-morrow is Saint Crispian:'
Then will he strip his sleeve and show his scars.
And say 'These wounds I had on Crispin's day.'
Old men forget: yet all shall be forgot,
But he'll remember with advantages
What feats he did that day: then shall our names.
Familiar in his mouth as household words
Harry the king, Bedford and Exeter,
Warwick and Talbot, Salisbury and Gloucester,
Be in their flowing cups freshly remember'd.
This story shall the good man teach his son;
And Crispin Crispian shall ne'er go by,
From this day to the ending of the world,
But we in it shall be remember'd;
We few, we happy few, we band of brothers;
For he to-day that sheds his blood with me
Shall be my brother; be he ne'er so vile,
This day shall gentle his condition:
And gentlemen in England now a-bed
Shall think themselves accursed they were not here,
And hold their manhoods cheap whiles any speaks
That fought with us upon Saint Crispin's day.

DIO STRABENEDICA GLI INGLESI!

lunedì 20 giugno 2016

TERREMOTO ELETTORALE E SINDROME DEL CONTRADAIOLO SENESE (il fallimento della legge elettorale per l'elezione del Sindaco)

Pubblicato anche qui, su iConfronti.it
Il testo di seguito (in grande per i "diversamente cecati"). 
Magari fate una cosa: un po' di qua e un po' di là, perché gli amici de iConfronti se lo meritano. 
Buona lettura. 



Il terremoto elettorale di ieri dovrebbe fare riconsiderare prima di ogni altra cosa la legge per l’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale.
Quella legge, sbandierata come una delle pochissime (nemmeno delle poche, pochissime) che funzionano in Italia, è in realtà la madre di tutti i disastri. Nel suo impianto c’è la morte della politica e l’esaltazione del personalismo.
Pochi, pochissimi (stavolta lo dico io) gli elettori che si sono recati alle urne, nel totale il 50,5% degli aventi diritto. Questo ad esempio vuol dire che a Napoli, dove il 65% non è andato a votare, il 67% circa con cui Luigi De Magistris è stato eletto è un dato fittizio. Ma nel nome della “governabilità” - capacità che il politico deve avere di suo e che non può essere stabilita per legge - il sindaco di Napoli, come quelli di Milano, Roma, Torino, ecc. si prenderanno in quel consiglio comunale che rappresenta il 100% della cittadinanza, il 60% dei seggi. Una maggioranza, dunque, falsa, che non ha riscontri nella realtà.
Certo, la colpa è sempre di coloro che non votano, indiscutibile; ma il sistema del ballottaggio pone anche l’elettore nella posizione di dovere scegliere “il meno peggio”, e se egli non si sente rappresentato, è legittimo che rifiuti di scegliere. Non c’è dunque da meravigliarsi se i cittadini non fanno il piccolo sforzo di andare al seggio, perché i motivi possono essere tanti e comprensibili.
Tutto ciò senza considerare lo scempio assoluto: il voto disgiunto.
Un cittadino, cioè, ha per legge la possibilità di scegliere un candidato sindaco per esempio del Partito Comunista e contemporaneamente un consigliere comunale di Forza Nuova. Il che vorrebbe dire che se il sindaco del PC, poi eletto, sceglierà e proporrà una certa azione per la propria cittadinanza, il consigliere comunale di FN gli voterà contro. E magari, come è facile comprendere parlando con le persone, uno dei due è stato votato perché “è mio cugino”. La politica è una cosa seria, fatta di idee, a mio parere una sorta di “filosofia applicata”, e così come avviene per le appartenenze calcistiche per cui non faresti mai il tifo per la squadra in cui tuo cugino giuoca nel giorno in cui si scontra con la tua, allo stesso modo l’appartenenza ideologica, quello in cui credi non può essere messo in secondo piano in nome della parentela, il che vorrà dire che: “caro cugino, mi spiace per te, ma non ti posso votare”.
Ed un altro sottile inganno si nasconde sotto questo meccanismo perverso del voto disgiunto, e che spiegherebbe il proliferare di liste e listarelle: tutti ci provano, sapendo di potere raccatare voti in qualsiasi comparto ideologico, nella speranza di... trovare “un posto e uno stipendio”.
Potrei continuare con la storia dell’uomo solo al comando, con gli assessori nominati direttamente e liberamente senza che la giunta conosca mai gli scossoni di una crisi... ma sono cose già ampiamente segnalate da giuristi e politologi seri, quelli, ovviamente, inascoltati.
Da ultimo vi segnalo solo uno dei trabocchetti della “neolingua”: sempre più il sindaco è detto amministratore; “ma il termine veniva usato anche in passato”, si dirà: vero, verissimo, ma l’uso era legato a quella bella regola non scritta della lingua italiana che ti chiede di evitare le ripetizioni ed eri così costretto a cercare sinonimi; uccidendo la politica, l’amministratore diviene concreto e il sindaco un sinonimo.
Ma dove, nella giornata di ieri, la legge per l’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale ha mostrato il suo effettivo fallimento? Nel meccanismo del ballottaggio.
Esso è umiliante per l’elettore, per la sua funzione e pulsione politica; lì dove egli non sia più rappresentato, fatta salva la non scelta (“non vado a votare!”), si vede costretto tra due opzioni: “scegliere il meno peggio”, e soprattutto “votare contro”.
Accade così che proprio i partiti che sono stati in questi anni sostenitori della bontà di questa legge si vedono sconfitti nelle urne per quella che chiamerei “sindrome del contradaiolo senese”, per il quale la prima regola, il primo motivo di gioia è sempre: “deve perdere la contrada mia nemica!”, ed “ho vinto!” viene sempre dopo. Anche per questo non ha alcun senso dire “la destra ha votato per i 5 Stelle”, o “il PD ha votato per la destra”: gli elettori votano praticamente sempre e solo contro qualcuno.
L’antipolitica ha sempre pagato in questo nostro Paese, da Mussolini al Giannini de “L’uomo qualunque”, da Bossi a Berlusconi, passando per Grillo fino a Mattero Renzi, che da “rottamatore”, divenuto uomo di governo, continua ad usare toni e modi da anti-politico. Questo modo di fare, come in tutti gli altri casi più o meno lunghi, gli ha dato quel consenso che poi le azioni reali hanno smontato. Il voto di ieri, un voto sicuramente “contro”, ne sono l’ennesima dimostrazione. Contro il PD a Torino o Roma, contro la Lega a Varese, contro la destra a Latina, contro la sinistra a Cascina, contro la nuova politica a Benevento... tutti, in qualche modo ne sono toccati. E pure i 5Stelle, fenomeno del momento, prima o poi subiranno “il voto contro”, sarà inevitabile. Inevitabile anche perché io elettore sono nella condizione di scegliere “l’uomo e non il partito”, “l’amministratore e non l’ideologia”, e perché una serie di vincoli che questa “nuova politica” ci ha regalato rendono quasi impossibile qualsiasi azione da parte di sindaci e deputati.
Resta dunque da chiedersi: come se ne esce?
La risoluzione sarebbe semplice: tornando all’unica politica che, a dispetto della narrazione, ha funzionato nei settant’anni della nostra Repubblica, tornando cioè al proporzionale puro, tornando alle maggioranze costruite in Parlamento (e/o in Consiglio comunale), tornando a quella capacità di ragionare, mediare, trovare accordi, compromessi (mica è un termine solo negativo), tornando cioè a una forma che costringa alla Politica, anche chi non fa apparentamenti. Tornando a quell’antico che sarebbe davvero un progresso.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi per due motivi: il primo è sicuramente legato alla “narrazione”; avranno la faccia tutti coloro che hanno ripetuto a manetta che quella dell’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio comunale è una delle poche, anzi pochissime leggi che funzionano in Italia, di dire che non funziona? No, è in gioco la loro credibilità, e quindi “il posto e lo stipendio”, dal politico ai Media.
L’altro problema è che questo cambio di direzione richiederebbe quella capacità di fare Politica che i nostri politici non hanno più, e quei pochi che ce l’hanno sono stati messi da parte o dileggiati come rappresentanti del vecchio (e si torna al problema narrativo di cui sopra), aprendo la strada ai troppi urlatori di turno, agli improvvisati e improvvisate, alla incompetenza Politica.
Se ne uscirà per forza, è la Storia a dircelo, a dirci che il popolo e la Politica vera trovano sempre una soluzione in barba a un’altra narrazione corrente, quella della “irreversibilità”. Resta solo da vedere quanto tempo ci vorrà e su quante macerie dovremo camminare prima di cominciare a vedere la luce. Nel mentre, da Benevento si sta forse materializzando la profezia di Zalone: la prima Repubblica non si scorda mai. E se il popolo sovrano ne ha nostalgia, un motivo ci deve essere, alla faccia delle èlites che lo pensano stupido e incapace di governarsi, le vere sconfitte sono loro. 


sabato 18 giugno 2016

SU BREXIT-COX, UNA RISPOSTA A GIGI (che è tra i pochissimi che la merita)

Ho postato su Facebook questo articolo dell'ottimo Marcello Foa, nonché questa immagine di un tweet de Il Sofista


Il mio amico Gigi, Luigi Maria Musati, già direttore della Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, che dunque è anche stato mio Maestro, grande Maestro, uno di quelli che sanno "aprirti la testa", sotto tutti e due i post ha scritto praticamente lo stesso commentato, ne prendo uno solo per darne il senso: "Mha.... che dire.... secondo il Foa sembra che la Cox si sia fatta ammazzare per vincere il referendum o sia stata fatta ammazzare dal fronte del no sempre per vincere il referendum e non sia stata ammazzata dall'odio razzista e fascista che anima buona parte dei fautori del brexit (che per altro mi auguro e, tra gli altri, proprio per questo motivo) e buona parte dei fautori dell'uscita dall'EU in tutta Europa. Con buona pace del Foa sono fatti che fanno riflettere. Quanto poi alla citazione delle bombe sul corteo dei pacifisti (anti-erdogan) che avrebbe portato voti al mandante (erdogan), anche questo è francamente tirato per i capelli." 

L'obiezione di Gigi è comprensibilissima, e anche condivisibile. Mi ha fatto però riflettere.
La questione credo sia questa: appena giunta la notizia della morte di questa onesta madre di famiglia, che con passione si dedicava alla politica, con le sue sacrosante idee condivisibili o no, il mainstream è subito partito con l'associazione "assassino=brexit", senza porsi il minimo dubbio, e sopra tutto dando questa versione per assoluta e irreversibile.
Non ostante oggi vengano fuori altre informazioni, la musica suonata continua ad essere la stessa, e di dubbi nemmeno l'ombra.
Lo scrivevo ieri: e se così non fosse? Chi finirebbe per perdere credibilità?
Ma di questo, i media di regime, abituati a dire tutto quello che vogliono senza più alcun ritegno, e senza sentire il bisogno della corretta verifica della notizia, nemmeno a posteriori, paiono fregarsene.
Mio padre, vecchio giornalista ormai in pensione di altra scuola, me lo ha spiegato più volte che è normale oggi raccontare quello che sai, dare le notizie che hai, poi c'è sempre un domani per correggere, dare le notizie nuove nel caso ce ne siano; questa è anche una tecnica che consente di "riempire le pagine" giorno dopo giorno, nonché "seguire le notizie".
Ma il nostro giornalismo, pare non essere più fatto di notizie, ma di opinioni, e l'opinione, scuserete la nettezza, non è giornalismo. Anche quando si dà una notizia, si sente che sotto c'è sempre l'opinione.
Siccome abbiamo troppe volte visto e letto notizie date per certe poi smentite dal tempo e dalle situazioni, e siccome abbiamo troppe volte visto i media "silenziare" notizie non gradite a qualcuno (diciamocelo francamente), ecco che questa distorsione ha provocato nel tempo lo svilupparsi del contro-effetto: ad una notizia-opinione che deve fare tendenza, necessita immediatamente rispondere con un'altra opinione che le ponga immediatamente un freno, o ne indichi la possibile non verità.
A ogni notizia pro euro, serve subito contrapporre, prima che dilaghi, una notizia anti euro, pro UE e anti UE, pro brexit e anti brexit, pro Coppi - pro Bartali... Questo perché si è capita la "legge di Goebbels": ripeti una menzogna cento volte che prima o poi diverrà una verità.
La distorsione delle notizie mi pare provochi una necessaria contro distorsione, al fine di tenere solo vivo il dubbio.
Quale sia la verità sul caso Cox ancora non lo sappiamo, ma non possiamo accettare come unica e reale una verità proposta e propagandata con potenza nel giro di sette minuti da una dolorosa scomparsa.
Personalmente resto nel dubbio e attendo soltanto di saperne di più, nel frattempo mi interrogo sul meccanismo della comunicazione, e questa mi pare una risposta possibile, caro Gigi, caro Maestro.

venerdì 17 giugno 2016

OMICIDIO COX: CHI RISCHIA DAVVERO?

La morte della deputata inglese Jo Cox chiede rispetto e silenzio. Come tutte le morti d'altronde, e soprattutto come tutte quelle violente e ingiuste. E giustamente i due schieramenti pro e anti uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea hanno sospeso la loro campagna referendaria.
Ci sono però subito una serie di riflessioni da fare, basandosi, sia chiaro, sulle poche e contraddittorie notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, contraddittorie come il fatto che l'assassino sferrando i colpi mortali abbia gridato "prima l'inghilterra". Alcuni testimoni oculari dicono sia vero, altri dicono di no.
Le certezze che in questo momento abbiamo sono decisamente poche, ma alcune determinanti: per esempio il fatto che dopo giorni di perdita, avuta la ferale notizia i mercati finanziari abbiano guadagnato; già questo dovrebbe farci chiedere chi sono i veri "senza cuore", gli speculatori, i vampiri.
Ma c'è un altro punto, anzi due, su cui bisognerà che qualcuno stia attento, pesando le parole. Stamane, per esempio, tanto per parlare di riflessi in Italia, ho potuto notare dalle rassegne stampa che l'unico quotidiano ad usare la parola "presunto" accoppiato a "nazionalista" è stato Il Fatto Quotidiano. FQ che non si è fermato lì, mettendo a piede di pagina anche un servizio con le varie minacce che in questi giorni sono giunte al popolo inglese da diverse istituzioni internazionali e dai personaggi che le guidano, da Merkel a Obama, da Schaeuble a Tusk, il segretario del tesoro USA Lew, Juncker. 
Implicitamente il giornale diretto da Marco Travaglio pare voler dire: "Ma chi è che ha davvero attizzato questo fuoco, ha alimentato la rabbia e l'odio? Se colpe ci sono, sono da entrambe le parti". Tesi che tende all'equità, ma che sarebbe anche discutibile, dato che non risultano minacce da parte dei sostenitori del Brexit ai cittadini della UE o degli USA, ai membri della Commissione Europea o a quelli del Senato statunitense... Ma sorvoliamo. 



La questione nel suo complesso l'abbiamo capita: l'uscita della Gran Bretagna avrebbe sopra tutto un effetto politico, quello di far capire ai tanti cittadini della Unione Europea che fuori da questa gabbia c'è assolutamente vita, con un effetto domino da tutti riconosciuto in primis da Romano Prodi
Per quel che riguarda gli aspetti economici, è fin troppo chiaro che i problemi sarebbero più per la UE che non per la "perfida Albione", come perfettamente esplicitato da decine di articoli e studi, ve ne segnalo solo uno tanto per darvi una idea
Se poi l'obiettivo finale è il TTIP... beh, come è pensabile che l'alleato storico degli USA non sia della partita?
Ma lasciamo da parte i dati certi, le supposizioni e le dietrologie, e torniamo al tragico accadimento. 
Dicevo di due rischi, che non sono per i cittadini ma per la propaganda di regime che immarcescibilmente sta cavalcando già l'onda (ovviamente accusando sempre "gli altri" di farlo, perché non dimentichiamo che "noi siamo buoni e giusti, voi siete cattivi"): 
il web ci ha abituati alla divulgazione di notizie che rigorosamente il mainstream tace, notizie che spesso nascono o da inchieste di giornalisti indipendenti, quei pochi che rimangono, o addirittura dalla capacità di unire i puntini di alcuni utenti che poi stuzzicano l'inchiesta giornalistica; 
1 - cosa accadrebbe se domani dovessimo scoprire che la mano del "folle" (altro dato che pare certo è che l'assassino abbia disturbi mentali) sia stata in qualche modo armata o indirizzata? Quali sarebbero le conseguenze proprio per la già disastrata Unione Europea? Ma sopra tutto quali sarebbero le conseguenze per coloro che senza alcun dubbio hanno divulgato la tesi del "pro-brexit violento"? 
2 - cosa accadrebbe se domani dovessimo scoprire che l'assassinio c'entra nulla con la propaganda referendaria?
In entrambi i casi, coloro che danno già per certo tutto "l'impianto accusatorio" rischiano pesantemente, rischiano la faccia e, se è vero che le masse possono divenire incontrollabili, anche qualcosa di più, perché nelle guerre "i soldatini" sono sempre i primi a cadere. 
La violenza genera solo violenza, su questo credo che saremo tutti d'accordo. Ma la violenza non è solo quella delle armi - anche su questo ormai saremo tutti d'accordo - è anche quella delle parole, degli atteggiamenti, della divulgazione di notizie non perfettamente verificate, del non rispetto delle regole... 
Questo feroce omicidio, che lascia due bimbe orfane della loro mamma, una famiglia nel dolore, una comunità in lutto, andrebbe trattato con i guanti bianchi, anzi immacolati, con silenzio e discrezione, limitandosi a quello che il giornalismo pare non sapere più fare: la divulgazione delle notizie, con relativa sospensione delle opinioni. 
L'opinione non è giornalismo. Un tempo, il fondo del direttore era un una tantum, oggi la priorità o la regola. 
Tutto si è distorto, per quali fini possiamo solo immaginarlo. 
Gli effetti di questa distorsione, però, si riverberano concretamente sulla vita della gente. 
Quindi, silenzio, discrezione e sopra tutto: rispetto di coloro che la pensano diversamente da noi, chiunque siano e comunque la pensino, senza avere la presunzione di essere migliori in nome delle nostre idee. 
Perché alla fin fine, a giocare col fuoco ci si brucia.  

domenica 12 giugno 2016

LA SCRITTURA TROVATA: Goldoni o dell'incompreso (2)

Ripartiamo da un post del giugno 2015
Il tema trattato era Carlo Goldoni, come potrete verificare nel link, e il titolo, sul quale credo, anche dopo tutto questo tempo, si debba proseguire, era: LA SCRITTURA TROVATA: Goldoni o dell'incompreso. 

In finale di quel post potrete leggere:

"perché Goldoni scrive, si occupa, focalizza la propria attenzione sulla scrittura!
Ecco: era così complicato illustrare ai nostri studenti questo primo punto? Non mi pare.
“Bene – dirà il magno critico – ma questo lo abbiamo detto: Goldoni scrive in contrapposizione alla pratica del teatro all’improvvisa”, quindi dove sarebbe la differenza?”" 


Si può, dopo quella veloce disamina, giungere al secondo punto del discorso: perché Goldoni scrive. 
Parrà ovvio, ai nostri giorni, che un autore scriva. E infatti, la cosa era ovvia anche ai suoi tempi, sebbene con la storia della Riforma contro la Commedia all'improvvisa, la sensazione che si ha è quella di un teatro non scritto. 
Decine di testi ci sono giunti da quelle epoche, e se si sono persi sarà stato per un loro non particolare valore o per una abitudine propria di un teatro antico a "consumare" in un modo cui non siamo più abituati. 

È però sempre da quel passaggio dei Mémoires che dobbiamo ripartire per comprendere. 
La scrittura dell'epoca era fortemente (e anche giustamente) condizionata dalla scena, dall'azione viva e diretta dei comici. Quando si parla di improvvisazione, ci si riferisce a un teatro che non è improvvisato come si potrebbe immaginare. 




C'è forse, anzi sicuramente, un mito da sfatare: l'improvvisazione non esiste! 
Non esiste se non in una minima parte, in una percentuale dettata dalle circostanze o dall'arguzia del comico in un particolarissimo momento, o dal dover coprire un incidente. 
Narrasi che i comici, in primis dedicassero tutta la loro vita ad un unico personaggio (quando Goldoni deve mettere in scena Il servitore di due padroni, si affida ad Antonio Sacco, il più importante Arlecchino dell'epoca, e grande esponente della Commedia dell'Arte - che Goldoni nelle sue Memorie chiama "Sacchi" e col quale aveva già felicemente collaborato - il che, dovrebbe far riflettere sull'avversione di Goldoni verso il genere): questa pratica creava, evidentemente, una identificazione tra attore e personaggio, una pratica che se non era studio temporaneo su di un testo, come oggi accade, era costante su di un carattere, per "impossessarsi" della sua gestualità, del suo modo di parlare, delle parole che a quel personaggio potevano essere familiari, con una assidua e volontaria/involontaria costruzione di frasi che venivano a perdere il carattere di improvvisazione per come noi lo intendiamo;
in secundis (stando sempre con Totò!): i comici imparavano centinaia e centinaia di versi a memoria, onde potere avere sempre "parole pronte" per l'uso della scena, e anche questo mette in crisi il concetto di improvvisazione sempre per come noi lo intendiamo; 
terzo, le scene avevano il carattere dei "moduli", ossia lo schema della gag era precedentemente codificato, e dall'intesa che i comici prendevano durante le prove (l'improvvisazione non prevederebbe prove, ma sappiamo anche da, per esempio, Il teatro comico dello stesso Goldoni, che queste si facevano, e come!) accordi sul come condurre e sviluppare la scena; 
quarto: se vivo del mio lavoro attoriale, e ogni sera che lo ripropongo voglio esser certo del suo successo con il pubblico (altrimenti "non si mangia", ma non per come lo intendeva un certo Ministro), quale senso avrebbe il lasciarsi portare tutte le volte dalla incertezza della improvvisazione, quando ho avuto riprova più e più volte che certi meccanismi "funzionano"? Se ciò che faccio ho verificato avere una valenza scenica, ha senso rischiare di fare qualcosa di sbagliato e che non conduce al risultato? Evidente-mente NO! E anche qui il discorso "improvvisazione, per come noi la intendiamo", viene miseramente a cadere! 

Ciò che non ritroviamo oggi scritto su carta, forse allora lo era (e quei fogli sono andati persi, ipotesi da considerare), e se non lo era materialmente, era da ritenersi scritto nell'accordo che i cominci prendevano tra loro. 
Mi disse una volta il bravissimo Vincenzo Salemme che l'improvvisazione non prendeva che uno scarso 5% dello spettacolo, e comunque, il "soggetto", cioè il passaggio improvvisato, veniva poi messo al vaglio, precisato, perfezionato e messo a copione. Dove "messo a copione" non significa necessariamente "scritto", ma nella sua definizione puntuale risulta come "scritto". 

Per fare un esempio a noi più vicino: nel Jazz, quando uno strumento parte per "il suo pezzo", tutti gli altri sanno che andrà da quella tonalità a quell'altra, che avrà un suo margine di libertà, ma poi, giunto ad altra tonalità, si ricondurrà alla fine della sua parte, e il fare "musica insieme" riprenderà. Si tratta di un accordo non scritto sul pentagramma che i musicisti hanno preso tra loro e conoscono. Possiamo considerare questa improvvisazione? 

La famosa scena di Totò e Peppino della Lettera si sa essere stata concordata a tavolino dai due, ce lo ha raccontato più volte Teddy Reno che divideva con loro il camerino. E dal racconto deduciamo che le parole saranno state anche inventate lì per lì, ma lo schema era stato completamente precostruito. Anzi: notate nella scena un punto chiaro, quando Peppino cerca di inserirsi con la improvvisazione "dell'insalata" e Totò lo ferma dicendogli di non fargli perdere il filo "che ce l'ho tutta qui", e indica la propria testa. Molto più che ipotizzabile che ci avesse pensato e ripensato prima. Addio improvvisazione! 

Che ne dite, vogliamo considerare chiusa questa questione dell'improvvisazione? Io direi di sì. 
L'improvvisazione ha senso, in teatro, al di là dei casi citati, solo come esercitazione, che ha il solo scopo di favorire l'abitudine alla concentrazione. 

A meno che... 
A meno che, per Teatro all'improvvisa Goldoni e i suoi contemporanei non intendessero proprio quel teatro "non scritto", che è fatto solo o prevalentemente di "scrittura scenica", un Teatro, cioè, per il quale non vi fosse un preciso testo scritto di riferimento. 
Anche questa ipotesi potrebbe cadere se pensiamo che prima di Goldoni esistono testi scritti fino a noi pervenuti. Penso, molto facilmente, al Ruzante, o agli scritti, importanti se pure "episodici", di Machiavelli, o di Ariosto, e poi il Bibbiena, Tasso, e sopra tutto gli Andreini
Dunque, anche la tradizione della scrittura teatrale esisterebbe prima di Carlo Goldoni. Cosa cerca, quindi, il Nostro? 




Riprendiamo quel passaggio, fondamentale, dei Mémoires, cap. VIII: "Scartabellando continuamente quella biblioteca trovai testi di teatro inglese, teatro spagnolo e francese, non ne trovai di teatro italiano. c'erano qua e là vecchie commedie italiane, ma nessuna raccolta o collezione che potesse far onore all'Italia. 
Vidi con dispiacere, che mancava qualcosa di essenziale a questa nazione, che aveva conosciuto l'arte drammatica prima di tutte le altre, non potevo concepire come l'Italia l'avesse dimenticata, degradata e imbastardita: io desideravo ardentemente vedere la mia patria elevarsi al livello delle altre e mi promisi di contribuirvi."

Che l'arte teatrale sia una dominante italiana è fatto riconosciuto nel mondo (e dunque - come potrebbe essere altrimenti - non riconosciuto in Italia, sic).
Cosa manca alla "mia patria", visto che, come lo stesso Goldoni riconosce implicitamente, non le manca certo "il Teatro" (e consideriamo che è da oltre un secolo nata nel nostro Paese quel nuovo fenomeno che già all'epoca del nostro caro Carlo è segno distintivo della nazione: l'Opera Lirica)?

Manca "la scrittura drammatica"

La nostra critica letteraria non ha mai ben compreso la scrittura teatrale, che funziona per modi, stili, canoni e criteri diversi da quelli della prosa e della poesia. 
Possiamo sintetizzare dicendo che i due elementi distintivi sono "Dialettica" e "Sintesi", sempre ricordando la lezione di Stanislavskji, secondo la quale in teatro non abbiamo il nostro linguaggio scientifico, dunque dobbiamo prendere in prestito i termini da altre scienze e adattarli alle nostra necessità.

Per "Dialettica" dobbiamo intendere il fatto che solo un personaggio può dire o parlare in un certo modo, le sue battute sono solo sue e non possono appartenere a un altro, e per questo si vengono di volta in volta a porsi in contrapposizione a quelle di un altro; che a sua volta avrà un suo "linguaggio" non interscambiabile. 
Insegnava ai suoi studenti in Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico che "se in un testo potete scambiare le battute di due personaggi senza che nulla cambi, non è Teatro". 
La "Sintesi" si esplicita, invece, in quella peculiarità della forma teatrale di passarci informazioni necessarie a ricomporre la storia, in maniera sintetica appunto, e indiretta. Solo per casi specifici e necessari alla conduzione drammatica, troveremo un personaggio che "racconta" un accadimento; buona tecnica invece vuole che i fatti debbano a mano a mano essere estrapolati, evinti dallo spettatore via via che l'azione scenica si dipana. 

Perfetto esempio, per capire queste peculiarità, è l'inizio de I Rusteghi proprio di Goldoni: 

ATTO PRIMO

SCENA I

Camera in casa di Lunardo.

Margarita che fila, Lucietta che fa le calze, ambe a sedere.

Lucietta - Siora madre.
Margarita - Fia  mia.
Lucietta - Debotto  xè fenìo carneval.
Margarita - Cossa diseu, che bei spassi, che avemo abuo?
Lucietta - De diana! Gnanca una strazza de commedia no avemo visto.
Margarita - Ve feu maraveggia per questo? Mi gnente affato. Xè deboto sedese mesi, che son maridada; m'àlo mai menà in nissun liogo vostro sior padre?
Lucietta - E sì, sàla? No vedeva l'ora che el se tornasse a maridar. Co giera sola in casa, diseva tra de mi: lo compatisso sior padre; elo no me vol menar, nol gh'ha nissun da mandarme; se el se marida, anderò co siora maregna. El s'ha tornà a maridar, ma per quel che vedo, no ghe xè gnente né per mi, né per ela. 


L'indicazione "camera in casa di Lunardo" è per chi legge e per chi dovrà mettere in scena la commedia. 
Il sipario si apre e vediamo due donne sedute, entrambe intente a lavorare. 
Poi una parla: "Signora madre". L'altra risponde: "Figlia mia". 
In due battute è incardinato il rapporto di parentela, e noi veniamo a conoscerlo. 
Ma non finisce qui: dalla battuta successiva sappiamo in quale "tempo" ci troviamo: dopo il carnevale. E volendo scendere anche a livello psicologico, questo ci dice anche che è finita la festa, e non c'è più una situazione di allegria. E continuando, scopriamo che le due donne non ne hanno goduto! Lo stato di tristezza che prima potevamo presupporre, ci viene così confermato. Confermato ancora dalla battuta successiva che ci dice che non hanno potuto vedere nemmeno uno straccio di commedia. 
Ma ecco che interviene un colpo di scena: Margherita ci dice di essere maritata da sedici mesi; la ragazza che le è accanto non può in alcun modo essere sua figlia, avesse pure dodici anni (è invece in età da marito come dopo scopriremo). Come si spiega allora lo scambio iniziale "Signora madre - Figlia mia"? 
Anche questo, come avete potuto notare dalla lettura, lo capiamo dal seguito del discorso... 
Da pochissime battute, insomma, ricaviamo: il rapporto di parentela, il tempo dell'azione, lo stato d'animo dei due personaggi, e cominciamo anche a presupporre il tipo di rapporto, certo non felice, che esse hanno con il terzo personaggio della scena, il padre, fin qui solo nominato ma terribilmente presente. 
Provate inoltre a mettere le prime due battute di Lucietta in bocca a Margherita, le prima due di Margherita in bocca a Lucietta, e osservate se il dialogo ha lo stesso senso logico. No, non ce l'avrebbe.  



A questo va aggiunto un altro aspetto: il Teatro è il luogo di una scrittura funzionale al Teatro, ma non necessariamente della "bella scrittura". Perché la scrittura appartiene ai personaggi, al loro modo di parlare, e non è detto che questo modo di parlare sia sempre raffinato o grammaticalmente corretto. Facile capire che un contadino ignorante non avrà lo stesso linguaggio di un avvocato, un borghese di un contadino. 
Pur non teorizzato fino al '900, sono i personaggi a "dettare le parole allo scrittore", e come mi diceva Giuseppe Patroni Griffi, "loro dicono quello che vogliono loro e non quello che vuoi fargli dire tu". L'idea non era nuova se si pensa a quello che nella prefazione ai Sei personaggi scrive, del suo travaglio creativo, Pirandello: 

"E, così pensando, li allontanavo da me. O piuttosto, facevo di tutto per allontanarli. Ma non si dà vita invano a un personaggio. Creature del mio spirito, quei sei già vivevano d'una vita che era la loro propria e non più mia, d'una vita che non era più in mio potere negar loro.Tanto è vero che, persistendo io nella mia volontà di scacciarli dal mio spirito, essi, quasi già del tutto distaccati da ogni sostegno narrativo, personaggi d'un romanzo usciti per prodigio dalle pagine del libro che li conteneva, seguitavano a vivere per conto loro; coglievano certi momenti della mia giornata per riaffacciarsi a me nella solitudine del mio studio, e or l'uno or l'altro, ora due insieme, venivano a tentarmi, a propormi questa o quella scena da rappresentare o da descrivere, gli effetti che se ne sarebbero potuti cavare, il nuovo interesse che avrebbe potuto destare una certa insolita situazione, e via dicendo.
Per un momento io mi lasciavo vincere; e bastava ogni volta questo mio condiscendere, questo lasciarmi prendere per un po', perché essi ne traessero un nuovo profitto di vita, un accrescimento d'evidenza, e anche, perciò, d'efficacia persuasiva su me. E così a mano a mano diveniva per me tanto più difficile il tornare a liberarmi da loro, quanto a loro più facile il tornare a tentarmi." 

Sintesi felice trovo proprio Patroni Griffi nell'esergo alla sua più importante commedia "Metti, una sera a cena": 
“Il teatro si basa su colonne, e queste colonne sono i personaggi; quindi il teatro si basa sugli attori.” 

Il binomio attori/personaggi è intrinseco e imprescindibile per la vita teatrale. E lo era stato anche per Goldoni. Al punto che è deducibile dalla lettura delle sue Memorie che i testi che noi troviamo stampati non siano l'assoluto frutto del suo lavoro, ma del suo lavoro poi portato in palcoscenico, provato con gli attori, con loro perfezionato, mediato e modificato secondo le necessità... insomma, prima di arrivare alla stampa, il testo è passato per la bocca e il corpo degli interpreti. Da qui, possiamo comprendere perché la sua scrittura sia così meticolosa, carica di punteggiatura, e riferimenti scenici, precisa, e perché trova vita solo sulla scena. Alla sola lettura, infatti, il testo di Goldoni si ha la sensazione che resti come indietro, che non riesca mai a venire incontro al lettore, ma ha bisogno che il lettore vada con la propria immaginazione verso di lui, vedendo la scena nel suo svolgersi. Fu Molière a scrivere in una sua prefazione che se non si è capaci di immaginare il teatro in azione mentre si legge un testo, allora meglio non leggerlo. Ciò vale per tutti gli autori teatrali, dunque anche per Goldoni. 
La verità è che per recitare bene un autore come Carlo Goldoni basta saperlo leggere. 

Alla fine di questo lungo ma non esaustivo discorso, cosa vuole, insomma, il nostro Goldoni Carlo? 
Credo lo avrete capito: creare, formalizzare, codificare per la lingua italiana la scrittura teatrale, la scrittura drammatica. Goldoni Carlo codifica la drammaturgia nella lingua italiana. 
È questa la sua straordinaria importanza, al di là dei temi trattari, delle storie di vita che ci racconta, del mondo che rappresenta, del portato storico e culturale che ci tramanda, al di là del quadro in movimento che ci lascia di una meravigliosa Venezia e di altre città italiane, vere o immaginarie, al di là di modi di fare, dire, di comportarsi, di regole sociali, di amori, disastri economici, vizi personali o gioie, divertimenti e malinconie, al di là dei potentissimi e raffinatissimi scavi psicologici. 



La sua importanza non è solo grande nel teatro nostro e nel teatro mondiale (per una serie di cose che forse in altra occasione vi racconterò), è grande nella Letteratura italiana, e nella letteratura mondiale, al pari di Shakespeare, di Molière, di Cechov, di Pirandello. A mio gusto, con questi compone il grande quintetto del teatro di tutti i tempi, esclusi i grandi tragici greci. 

Se consideriamo che la critica non ha mai ben inquadrato la scrittura drammaturgica, possiamo comprendere come ingiustamente sia stato relegato solo al suo settore: il Teatro. 
Ma il Teatro è molto di più di quanto la nostra critica abbia compreso e voglia comprendere. 
Ed in questo, la sua scrittura è alta quanto quella della poesia e della prosa. 
Se la codifica della nostra poesia è Dante, se la codifica della nostra prosa è Manzoni, la codifica della nostra scrittura drammatica è Goldoni. 
Senza di lui il quadro della Letteratura nazionale non è completo, resta monco come un cavalletto traballante. 
L'incomprensione verso il suo lavoro è stata tale che venne anche accusato di "scrivere male". Ci volle un piccolo saggio di Pirandello per scrollargli di dosso questa infamia. 
E nemmeno bastò, dato che pure Pirandello fu accusato della medesima cosa. Ma il buon Luigi cercò (e lo fece benissimo per chi voleva intendere) di spiegare che la scrittura per il teatro non segue gli stessi criteri delle altre scritture, sopra tutto nello stile dei linguaggi, legati a personaggi e azione scenica, come ho umilmente cercato anch'io di farvi comprendere. 
Ma non bastò. 
Ad oggi, ancora, Goldoni resta sconosciuto alla nostra Letteratura, mentre dovremmo venerarlo come gli inglesi venerano Shakespeare e i francesi Molière. 
Non potrà mai accadere fino a che il Teatro non sarà realmente considerato Cultura (realmente! con tutto ciò che ne consegue), e non spettacolo. 

"Vidi con dispiacere, che mancava qualcosa di essenziale a questa nazione, che aveva conosciuto l'arte drammatica prima di tutte le altre, non potevo concepire come l'Italia l'avesse dimenticata, degradata e imbastardita: io desideravo ardentemente vedere la mia patria elevarsi al livello delle altre e mi promisi di contribuirvi.
Vi riuscì!