mercoledì 28 ottobre 2015

6 - Ultima puntata, "Della Poesia" - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (Informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)

La conclusione del nostro percorso. Ringrazio coloro che hanno avuto la bontà di seguirmi, non siete stati tanti (perché nasconderlo), ma dai riscontri avuti, certamente appassionati. E questo fa piacere. Se contasse solo "l'audience" (che pure conta!) ci sarebbero "scrittori" contemporanei che conterebbero più di Dante. Fortunatamente non è così. 

Un dovuto riassunto delle "puntate" precedenti per chi arrivasse solo ora, e poi la conclusione. Anche questa ultima giornata, come quella precedente, tutta di seguito (ci sono discorsi che non si possono interrompere...), e ancora grazie, di cuore. 














Ultima giornata

«Oggi non posso nascondere un po’ di malinconia nell’ “annunciarvi solennemente” quello che tutti voi già sapete: è la nostra ultima giornata!
Malinconia, sì. Oddio, una lieve malinconia, non esaltatevi troppo, mia cara, mia tenera “gioventù bruciata”. Perché quando si è stati in buona compagnia, quando lo scambio affettivo è stato sincero (e sento che il nostro lo è stato), è difficoltoso staccarsi; difficoltoso perché è un po’ come staccarsi da se stessi, staccarsi da una creatura cui si è dato amore e attenzione, cui ci si è dedicati, ed accogliere il momento in cui questa creatura dovrà viaggiare da sola, senza più il nostro sguardo presuntuosa-mente e velleitaria-mente vigile su lei, è un po’ come prendere irrimediabilmente coscienza degli anni che passano, e che un giorno passeranno definitivamente.
Con voi, in questi pochi giorni, poche ore, sono stato bene, molto bene. Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Avete stimolato i miei pensieri, mi avete costretto a cercare nuovi modi di dire vecchie cose ed anche costretto a capirne meglio altre per potervene parlare; ma soprattutto, in questi nostri pochi giorni – non ve lo nascondo – sono stato bene con Alfonso Gatto; sono stato bene con il dovermi occupare a tempo pieno di lui, dei suoi scritti, sono – almeno spero – cresciuto ancora un po’ nel ripensare a cose che molte volte avevo letto senza comprenderle fino in fondo. Sono stato felice nel leggere i suoi piccoli/grandi meravigliosi pensieri, ed in essi, ogni giorno, ho visto qualcosa non solo di lui, ma di un possibile me.
Ma oggi, la creatura che io sento di dover lasciare andare, non siete voi, non è questo mio spero appassionato discorso, ma quella che questo discorso ha fatto nascere in voi. È una creatura, un figlio (non ho timore a definirlo così) che non conosco né conoscerò mai, ma che sono certo esiste ed esisterà sempre, e che chissà in quale bizzarro modo elaborato dalla vita, forse irriconoscibile a me e a voi stessi, un giorno passerete a qualcun altro. È la Poesia, che corre, silenziosa sovrana, nel cuore dell’uomo. Ad alcuni è dato di esercitarla nelle forme canoniche, ad altri di viverla in forme apparentemente irriconoscibili: un abbraccio, un sorriso, la composizione di una pagina tipografica, sfornare una pizza, redigere un ricorso per un Tribunale, rimettere in sesto la lamiera di un auto, dare calci a un pallone, curare una malattia, insegnare le tabelline… non so… è dovunque. Dovunque noi siamo con l’onestà verso noi stessi e verso gli altri di mettere sempre tutto il nostro cuore in gioco.
“Sono un uomo di cuore” scrive Gatto. Saremo, siamo noi capaci di essere in ogni istante “uomini di cuore”? Non lo so, non so nemmeno se io lo sono. Ma so che possiamo provarci. E già solo il provarci è riuscirci.
Ho guardato spesso, nella mia vita, a quella luna così incredibilmente grande sul golfo di Salerno, della mia, della sua Salerno. Solo un’illusione ottica, nulla di più. Ed ogni volta, guardandola, mi sono chiesto che cosa siano “le radici”, cosa voglia dire “avere delle radici”. Oggi vi dico: nulla. Terre, città, nazioni, regioni, confini… tutte cose che non esistono. Gli uomini non sono diversi, gli uomini sono uguali. La diversità non è un valore, è solo una stupida cosa che non esiste, e con cui il nostro tempo si scontra, sforzandosi in ogni modo di pensarla positivamente come una ricchezza, ma l’unica ricchezza, credo, è capire che la diversità non esiste, capire che tutti gli uomini, nei punti più lontani della terra e del tempo, amano, organizzano le loro società, mangiano in forme diverse le stesse cose, bevono acqua (quelli che ne hanno, sic!), adorano divinità, sperano che ci sia qualcosa dopo la morte, litigano, crescono i figli, qualcuno li abbandona… Facciamo tutti le stesse cose, in fondo. Sempre. Anche poesia, e anche poesia nelle forme canoniche. Gatto ha ragione, Alfonso Gatto, soprannominato “il poeta con la valigia”, ha ragione: “essere alle radici è essere nel sangue”, e “il sangue è tutto rosso” ha detto qualcuno, ecco perché gli uomini sono tutti uguali.
Così, ognuno ha i suoi poeti e ognuno ama i suoi propri poeti. A me piace Alfonso Gatto, ma forse voi, che pure avrete amato questa conversazione, non sceglierete Gatto e andrete verso altri poeti. Che magari non usano la penna ma i piedi, un pennello, una bicicletta. Sono certo che Gatto non si offenderebbe. A Gianni Rivera, uno dei più grandi calciatori di sempre, egli stesso, in una lettera aperta su “Il giornale” allora diretto da Indro Montanelli, scrisse: “lei è un poeta”. E lo stesso Gatto, parlando della sua vocazione ha scritto – ricordate, lo abbiamo letto all’inizio –: “Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi.”
Ecco, forse adesso, giunti al nostro ultimo incontro, per raccogliere le fila e riportarci per un attimo al campo letterario, se la vita – come Gatto dice – è nella presenza dei poeti, quello che dobbiamo ancora chiederci è: chi è, cos’è un poeta, e soprattutto noi, “lettori felici”, come lo riconosciamo?
Lo schemino che mi ero preparato per oggi era molto diverso. Volevo parlarvi di un volume a mio parere bellissimo e oscuro di Gatto, “Osteria flegrea”, dove l’osteria è simbolicamente la vita, quel luogo lungo la strada dell’uomo dove si entra, ci si rifocilla, si osservano o conoscono gli altri, poi si va via. Flegrea, è riferito ai Campi flegrei, vicino Napoli, un luogo antico, carico di storia, e che dunque rimanda alle più profonde radici del poeta, quindi dell’uomo: un uomo per tutti gli uomini. Uno splendido volume, una grande meditazione sulla morte, e dunque sulla vita, come lo stesso Gatto scrive nella nota finale: “…il sole di questa serena contemplazione della morte che è, o dovrebbe essere il vino dei poeti. Così, spero, riceva un senso anche il titolo. È un titolo che mi riporta, tra tanti aberranti finalismi della vita di oggi, al sole dei millenni familiari e alla mia terra. (…) Chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza, delle sue mani, dei suoi occhi, del suo mistero duro in sé e incomunicabile. Chi ne è fuori – spettatore e retore -  ha solo il «gusto molesto dell’esagerazione»”. Ancora mani, occhi… corpo, e quel mistero “duro in sé e incomunicabile”, incomunicabile ma che spinge comunque alla prova perché “chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza”; sua del fenomeno, o sua del poeta? È uguale, in realtà, non c’è distinzione. Borges scrive: “Il verso ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta, il verso ricorda sempre di essere stato un canto”. A chi lo ricorda? È un gioco sottilissimo, un’ambiguità che solo le parole, e solo i grandi che sanno andare verso il cuore delle parole possono restituirci: lo ricorda a se stesso e a noi. Il verso è una cosa viva, quanto noi. La Parola è viva, quanto noi, perché noi siamo parola.
Avrei voluto parlarvi dell’Ermetismo, di quella grande corrente letteraria che fa nuova la poesia italiana, che strappa totalmente con il passato, che nasce grazie a Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, e che trova nei giovani che succederanno a questo imbattibile poker, i Gatto, i Sereni, Caproni, ecc. un terreno fertilissimo; di come tutti questi poeti abbiano, dopo secoli, trovato il modo per andare nuovamente alle radici della nostra poesia e quindi della nostra lingua, rompendo gli schemi, a volte abbandonando la punteggiatura, procedendo per strappi, simboli, sonorità, immagini… e di come un “m’illumino/ d’immenso” sia… perfetto, senza bisogno di spiegazioni, anzi, le spiegazioni lo svilirebbero. E avrei voluto chiarirvi come un Gatto, per esempio, faccia propria questa lezione, fidando nel potere evocativo delle parole, pur consapevole della loro indiscutibile precisione/imprecisione. Ma non ha importanza, è una esplorazione che se vorrete potrete continuare da soli, innaffiando questo discorso con le vostre sensazioni, le vostre idee, la vostra voglia, privatissima, di diventare “lettori felici”.
Quello che ora trovo più importante dirvi è che, al di là delle malinconie, al di là dei luoghi comuni, tutti i luoghi comuni che accompagnano la poesia, soprattutto lo studio della poesia, Gatto è un poeta vivo, vitale, po-si-ti-vo… non ostante il suo amore per Leopardi (lasciatemi quest’ultima, sorridente battuta polemica), e il pessimismo pare non riesca mai a scalfirlo. I dolori che Gatto racconta sono in un certo qual senso “cronaca”, momenti della vita, momenti che la compongono allo stesso modo delle gioie, tasselli di un incomponibile puzzle.
Consapevole di essere nel tempo, egli ha fiducia proprio nel tempo, poiché sa di avere raccolto da coloro che lo hanno preceduto e fida in coloro che gli succederanno. Ha fiducia nei ragazzi che osserva, nei giovani che vede amarsi, nei bambini, nelle rughe dei vecchi, nelle esperienze drammatiche della sua vita, nella luce, nei colori della terra. È un poeta che ama le cose della vita, che ama la vita, ama coloro che la vivono. Ogni uomo, ogni azione, ogni gesto, ogni atto anche della natura, è uno stimolo a gioire, a stupirsi dell’esistenza, a stupirsi della propria esistenza, “inspiegato anche sul come sono” dice nel discorso a Palazzo di Città.
Non è un poeta lunare. Ma, attenti, non è nemmeno un poeta solare. È solare e lunare al contempo. Perché tutto il problema è negli occhi, tutta la questione è nella luce. Il sole non è il maschio, la luna non è la femmina (in tante mitologie è esattamente il contrario). E la luce della luna non è banalmente un riflesso della luce del sole. La luce del sole è solo quella del sole, la luce della luna è solo quella della luna, e basta.
Mi pare sia Leonardo da Vinci a scrivere che noi non vediamo grazie alla luce poiché essa acceca, ma vediamo attraverso la luce, vediamo ciò che la luce ci consente di vedere, e questo è evidente se pensiamo al sole. Ma se osserverete bene nelle notti di luna vedrete che quella tenue, apparentemente flebile luce circoscrive, disegna, indica, evidenzia solo le cose che quella luce sanno raccogliere e rimandare: sono le cose a mostrarci la luce.
Esiste, dunque, anche un modo di guardare la luce, e io credo che sia proprio ribaltando l’ordinario pensiero sulla luce che Gatto guarda. E lo sappiamo chiaramente perché questo continuo rovesciamento del “pensiero osservante”, o della “osservazione pensante”, è in tutti i suoi scritti. È come se ci dicesse: c’è sempre un altro modo per guardare le cose.

All’altezza dei gridi in cui non vola
altra gioia celeste che lo slancio
dei loggiati dipinti alle colombe
torna al silenzio il suo tremare
al vento la sua pietra
(…)

chi è che vola, si slancia, trema? Le colombe o la pietra dei loggiati? Quante possibili visioni si nascondo in una cosa così semplice e consueta come quella di colombe che si lanciano da un loggiato?
Se mi chiedete che cos’è, chi è un attore, una risposta posso anche darvela, è il mio specifico, la mia categoria, io sono un attore, e ci penso da anni quotidianamente: un attore è una idea in continuo movimento. Questa risposta fino ad oggi mi soddisfa. Ma probabilmente, anzi no, sicuramente se mi chiedete chi è un poeta, io non lo so. Tra le tante definizioni possibili posso dirvi che secondo me un poeta è uno cui la Poesia “ordina” di osservare, ascoltare, percepire le cose, le sensazioni, quella Armonia in cui tutta la nostra vita è adagiata come in un ventre materno, al quale la Poesia “ordina” di rimandarci, in qualche modo, quella Armonia.
C’è in giro, ahinoi, c’è in giro troppa gente che confonde l’ordine con l’Armonia.
Al di là delle poche necessità dettate dal convivere sociale, l’ordine è qualcosa di imposto dall’alto e che prima o poi crea dolore.
Chiudete gli occhi, invece, e immaginate di essere sulla vetta di una grande montagna, con un meraviglioso foulard tra le mani. Lo lasciate andare. Comincia a volare, a fluttuare in una infinità di spostamenti piccoli, grandi, sempre nuovi. Immaginate di seguirlo, quel foulard, istante per istante, movimento su movimento, abbandonatevi al desiderio di essere sempre con lui, un tutt’uno con lui nei suoi mille giochi colorati. Essi saranno dentro i vostri occhi, e potrete arrivare a sentire che ciò che guida il tutto non è il caos, ma una misura impercettibile che vive simbioticamente fuori e dentro di noi. Non so in che altro modo dirlo, ma credo che questa sia l’Armonia: ci siamo dentro anche se non ce ne accorgiamo, sta solo a noi scegliere di essere con lei.
Essere con lei per scoprire la cosa più importante che può svelarci, ciò che si nasconde tra le sue pieghe, tra le pieghe di quel foulard, misteriosa, imperscrutabile, incomprensibile, morbida come un bambino: la Bellezza.
Stendhal dice: “che cos’è la Bellezza per me? È quel carattere che è necessario alla mia anima; la Bellezza è la promessa della felicità”. Padre Dante nella Commedia definisce decine di cose complicatissime, la fede, il famoso trasumanare che “significar per verba/ non si poria”, arriva anche a dare una definizione di Dio: “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”; ma per quanto abbia cercato non vi ho trovato una sola definizione della Bellezza, sebbene questa sia richiamata moltissime volte. Quella di Stendhal è la migliore che mi sia capitata tra le mani, e per conto mio, nel valore di soggettività assoluta che il francese attribuisce alla cosa, non definisce proprio nulla, il che rientra perfettamente nel gioco; mi sorge dunque il sospetto che quel “mistero” di cui Tom Robbins parla alla fine del “Picchio” sia proprio la Bellezza, ed è lei, in conclusione, che io credo cerchi un poeta. E di rimando, ciò che noi cerchiamo in un poeta.
Alfonso Gatto non è fuori da questo meraviglioso gioco. È assolutamente quello che Gianni Mura definirebbe un “mendicante di bellezza”.
Mura è un grande giornalista, appassionato di Alfonso Gatto al punto che parlando con lui si ha la netta sensazione che lo abbia conosciuto. Ma se glielo chiedete vi svela che non è così e c’è da rimanerne stupiti. Perché anche questo può fare l’amore per la poesia.
“Mendicanti di bellezza” è una definizione splendida, perfetta, perché è ciò che realmente siamo soprattutto quando amiamo qualcuno o qualcosa. Mura dice che la definizione è di Eduardo Galeano. Ma non è propriamente vero. Sono andato a verificare, Galeano scrive: “Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo con il cappello in mano e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio »”.
Ma anche questo fa l’amore: sposta i piani, mischia le cose, ci alleggerisce di noi, ci restituisce l’oblio in cui siamo nati, ci inebria, ci confonde, così teneramente ci confonde da renderci autori inconsapevoli di un sempre nuovo, piccolo miracolo, come questo: una definizione, una definizione perfetta che prendo per me nella certezza di essere anch’io soltanto un “mendicante di bellezza”, uno tra i tanti, che va per le strade, vaga tra i libri, la musica, i colori, si perde in un paio d’occhi solo per elemosinare qualche spicciolo di bellezza, che scruta nei poeti, in un poeta vero come Alfonso Gatto, sicuro che gli regalerà un po’ di Bellezza.
Io non lo so se Alfonso Gatto sia più o meno grande di un Montale o decisamente più piccolo di un Ungaretti, o del suo amato Leopardi. Quello che so è che, tra le tante cose, un poeta è anche colui che prima o poi tira fuori un verso cristallino, folgorante, unico, puro, di paternità e bellezza inoppugnabile, come “un uomo vivo col tuo cuore è un sogno”.
È in una poesia dedicata al padre. Quando lo dico questo verso non posso fare a meno di pensare a mio padre, al momento in cui, se natura vorrà, dovrò accompagnarlo nel suo ultimo viaggio:

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà si accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro il sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

Ecco, io vi chiedo: è morte questa? È morte questo stupirsi? Sono morte i nostri sogni, la libertà, occhi neri,  rondini, mare, il ricordo caldo di una voce, il cuore, il sogno? Sono morte gli insegnamenti dolci che porteremo sempre con noi? È morte questo mondo affacciato nel plenilunio a guardare nuovi uomini incamminati verso nuove albe? No! E io sento che è questa la bellezza, è questa l’altra luce che può illuminare la nostra vita, è questa la poesia: una cosa inutile, talmente pura nella sua inutilità da esserci assolutamente necessaria. È un canto dell’anima (lo ripeto), o il canto da cui l’anima, volente o nolente, è attraversata.
E se ancor di più è vero che la poesia è fare (dal greco poiêin: fare), mi pare possa anche diventare irrilevante sapere che cosa sia: l’importante è farla, testimoniarla, come si direbbe nella religione cristiana.
L’arte è certamente una cosa che si fa e non di cui si parla. È per questo che tutta la critica resta sempre un passo indietro, perché il critico non fa. Mi è capitato di sentir dire: “La critica non ha ancora risolto il tal problema, sciolto il tal nodo”. Come può la critica sciogliere un qualsivoglia nodo se la sua azione è sempre a posteriori, se arriva sempre dopo che l’opera è fatta?
So come gli attori si riconoscono tra di loro, me lo spiegò, in una calda sera siracusana, un collega che purtroppo non c’è più, Piero Di Iorio: “Solo il fratello può riconoscere il fratello”, perché lo percepisce, lo intuisce, ne riconosce gli odori e le sensazioni, sensazioni che, descrivendole, ti accorgi che solo chi fa il tuo stesso lavoro comprende perfettamente. Di sicuro è così anche per i poeti: si annusano e riconoscono tra loro per una serie di problematiche di cui il linguaggio è veicolo chiaro per loro e tra di loro, e sovente incomprensibile agli altri.
Sarà anche per questo che la critica ufficiale mal digerisce gli Eliot, i Borges, o i Calvino quando “fanno i critici”? Quando un autore parla di un altro autore sicuramente ne comprende, e rivive, le difficoltà del percorso creativo. La sua “azione critica” diviene ancor più destabilizzante poiché sui concetti s’innesta l’impalpabile fascino di una nuova poesia, ed è paradossalmente un’azione falsa poiché alla fin fine parla di se stesso utilizzando l’altro autore come riflesso attraverso il quale comprendere le sue difficoltà o esaltazioni.
Eppure, dato per assodato tutto questo, escludendo i puri dati tecnici della composizione, escludendo in toto l’auto-asserzione “sono un poeta”, noi lettori sempre “felici” come facciamo a dire, ed a ragion veduta: “è un poeta!”?
Ipotizzo, perché mi pare veramente che arrivati a questo punto “significar per verba non si poria”: penso che non si possa riconoscere il poeta se non attraverso l’intuizione e la simbiosi, lasciando che, così come è stato per il suo al momento della “ispirazione”, il nostro stesso corpo si abbandoni per poter essere attraversato. È ancora una volta un gioco di rimandi e riflessi: il poeta è attraversato dal soffio delle sue intuizioni, noi da quelle che lui ci rimanda. Sarà anche per questo che non a tutti piacciono gli stessi poeti.
Ecco, forse è così: riconosciamo un poeta perché percepiamo che ha lasciato se stesso per “essere cantato”, per essere attraversato da quel canto che diventa il nostro canto nel momento in cui ci abbandoniamo al suo e ce ne lasciamo attraversare. E in quel momento, la nostra funzione di lettori è vitale, fondante. La parola scritta, chiusa, sola, non è nient’altro che un simbolo morto. È in quel contatto tra lei e il nostro occhio che si attua, dentro di noi, la sua resurrezione. È lì, in quell’istante, che possiamo sentire che quel corpo del poeta, fratello del nostro in quell’attimo, abbandona le rigidità e le durezze che la vita gli ha costruito addosso per essere di nuovo puro e malleabile; come quando era bambino, ma proprio bambino bambino bambino, un bambino che gioca con suoni per noi adulti informi, senza ancora conoscere la gioia ed il peso mortale della Parola.
Non penso di essere riuscito a spiegarmi, e ve ne chiedo scusa (poi parlo male di Bigongiari!); e non ho nemmeno molto altro da aggiungere, se non due piccole annotazioni:
1- non so quale sia esattamente la “visione del mondo” o “della vita” di Alfonso Gatto, e francamente non mi interessa nemmeno saperlo. Mi interessa, invece, il fatto che so che ritrovo e ritroverò in una qualche sua pagina le parole del mio tempo, del mio personalissimo tempo, passato, presente, e forse futuro. Mi interessa sapere che esiste, in qualche angolo di questa mia terra, il cantore dei miei giorni. Lo vogliamo o no, ne siamo consapevoli, coscienti o no, noi cerchiamo le parole del nostro tempo;
2- credo che Alfonso Gatto lasci sui nostri piccoli tavoli inadatti ad accogliere la storia, un “insegnamento”: accogliete le vostre passioni, i vostri sogni di ragazzi, con la consapevolezza – quella sì adulta – che non ci saranno solo glorie, ma anzi molti bocconi amari. Solo così il futuro sarà sempre possibile. Sarà necessaria l’onestà, tanta onestà, intellettuale e interiore, l’onestà non della convinzione di essere, ma dell’avere, con tutte le nostre forze, “cercato di essere”.
Bene, credo proprio che possa bastare. Vi avevo fatto una piccola promessa all’inizio, c’è una poesia che abbiamo lasciato in sospeso, ora la leggiamo:

Il vicolo della neve

È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.

Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l’inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l’ultimo palpito d’aria
di fresca cantina, d’arancio,
che torna – oh, se torna! – nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l’insegna contrabbandiera
del c’era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.

Straniero, se passi a Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.

L’odore di menta t’invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall’abbondanza.
In quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
a quegli accordi lontani
del tempo che fu.


Lasciate che vi abbracci tutti di cuore sul cuore.
Grazie, e… Buena vida!» 

martedì 20 ottobre 2015

5 (o Dell'Amore) - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)


E ricapitoliamo: La prima puntata è qui

Qui la seconda

E poi la terza 


Tutta di seguito, niente spezzatino, la quinta "puntata", quella sull'amore

Vi ricordo che i numeri in rosso segnalano le note a pie' pagina e... e che altro dirvi? Ancora una volta, buona lettura (e spero buon divertimento) 











III giornata

«La seconda giornata è un po’ come il secondo film o il secondo libro. La più difficile e la più faticosa, sia per chi “scrive” che per chi “legge”. Sorgono dubbi, si aspettano conferme, ci si chiede se si è effettivamente in grado, se veramente si è capito tutto, ci pare di esserci impossessati dell’argomento e invece poi ci si accorge che le lacune sono innumerevoli…
Fossi in voi non mi preoccuperei. È il momento della crisi, e la crisi, credetemi, se affrontata correttamente e con un poco di costanza e pazienza, è salutare. È come quando vi allenate, e arriva il momento dell’affanno, il momento in cui dovete “rompere il fiato” per poi proseguire senza tanti problemi perché avete “preso il ritmo”. I campi in cui ci siamo inoltrati l’altra volta non erano né di facile comprensione, né – lo confesso – facili da spiegare, ma non crediate sia stato tempo perso, anche se non avete capito tutto-ma-proprio-tutto. Le cose dette sedimenteranno in voi pure contro la vostra stessa volontà – “Le orecchie non hanno palpebre”, ricordate – e sono certo che quando meno ve lo aspetterete esse torneranno a galla limpide e nuove, magari sollecitate da un qualcosa letto o ascoltato tra qualche anno e che mai mettereste in relazione. Dunque, coraggio, pazienza, tenacia… e andiamo avanti. Buongiorno!
Tanto più che oggi, ho intenzione di chiacchierare con voi di un argomento che sono certo vi interesserà: l’amore.
Ah, vedo già qualche volto più rilassato e sorridente. Ne ero certo.
Devo, però, mi spiace, partire subito con una annotazione negativa. E già, perché – è assolutamente una mia osservazione – credo ci sia una curiosa idiosincrasia della critica letteraria italiana nel trattare, e spesso anche nel riconoscere, il tema dell’amore. Chissà perché, per i nostri studiosi l’amore è argomento di serie B.
Facciamo degli esempi.
Jorge Luis Borges scrive nei suoi Nove saggi danteschi: “Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice (…) un sorriso e una voce che lui sa perduti sono il fatto fondamentale. All’inizio della Vita Nuova si legge che una volta elencò in un’epistola sessanta nomi di donna per insinuarvi, segreto il nome di Beatrice. Penso che nella Commedia abbia ripetuto lo stesso malinconico gioco”. In parole povere, Borges ipotizza che Dante si sia scritto tutta la Commedia solo per farsi due, tre incontri finalmente sereni con Beatrice (che non solo morì prematuramente, ma che da quello che sappiamo non è che lo trattasse proprio bene).
Apriti cielo! Alla loro uscita, almeno in Italia, i Saggi suscitarono un mare di perplessità. Si riconosceva la grandezza e la originalità della lettura del poeta argentino, ma da qui a considerarlo un dantista… Un critico, poi, il cui nome pare sia pietosamente caduto nell’oblio, lo accusò di avere ridotto la Commedia ad un romanzetto rosa.
Ora: io vi consiglio, assolutamente, la lettura di questi saggi, illuminanti, appassionanti, folgoranti, e che per quello che ho potuto constatare, hanno spinto più gente a rileggere la Commedia che non tutti gli insegnamenti scolastici.
La cosa decisamente divertente è che, non ostante Borges dica a chiare lettere di avere letto e riletto la Commedia, di avere consultato e messo in relazione decine di commenti, dimostri di avere della materia una conoscenza più che approfondita, offra una sua personale lettura, nessuno gli riconosce il titolo di “dantista”. 





Capisco: ci sono studiosi che hanno “buttato il sangue” per una vita solo ed esclusivamente sull’opera di Dante, che ne hanno sviscerato significati e segreti, e a cui dobbiamo sicuramente essere grati. Ma cosa vuol dire essere un dantista? Perché questo titolo, questa etichetta, può essere riconosciuta ad alcuni e non ad altri? E sopra tutto: se amo così profondamente la Commedia da dedicargli tutta una vita, perché non sono contento se arriva qualcuno che ne facilità la divulgazione (dimostrando una buona dose di competenze, ovvio. Non come certi sé dicenti lettori di Dante che oggi vanno per la maggiore, ma andiamo oltre)?
Ad oggi ho tre risposte per questo: la prima è troppo brutta e ve la dico solo privatamente, a microfono spento, perché possiate stare in guardia nella vita; la seconda ce la fornisce Borges stesso quando scrive: “Ho letto quasi tutti i libri di Croce e non sempre sono d’accordo con lui, ma ne sento il fascino. Il fascino è, come ha detto Stevenson, una delle qualità essenziali che deve avere lo scrittore. Senza fascino il resto è inutile” (1). Mi spiace doverlo pensare, ma credo ci sia un “invidia del fascino”, come con gli attori. Ci sono, o meglio c’erano, attori con la seconda elementare capaci di far passare nella lettura di una poesia molte più “informazioni” di decine di saggi critici. Erano sublimi e poco amati dalla critica non teatrale. Ci sono oggi, invece, attori o sé dicenti tali, che prima spiegano il testo, verso per verso e poi lo leggono, come i professori di Liceo. Un attore fa esegesi del testo recitando, mentre recita, e non può essere diversamente. Chi sceglie altre vie, abdica alla propria professione e delega le proprie competenze. Curiosamente, questi ultimi, sono osannati dalla critica non teatrale. 
C’è forse nell’etichettare o concedere titoli un problema con la oggettività o soggettività dello scrivere? Bisogna forse presumere che lo studioso agisca, o tenti di agire, in un “regime di oggettività”, che la sua azione sia scientifica? Questo è innegabile, ma mi chiedo, ricordando anche ciò che ieri ci siamo detti sulle parole e sulla verità (e di conseguenza sulla oggettività): quando si elaborano i propri pensieri, quando si mettono le parole sulla carta, quanto si può credere di essere oggettivi? Se uno stesso accadimento storico messo in mano a due diversi studiosi ha due diverse interpretazioni, quanto l’oggettività è possibile? Eppure si tratta di un fatto, magari vicino a noi e di cui abbiamo ancora testimoni oculari, tipo la dittatura fascista, o la stagione del terrorismo.
Dunque, cosa sottintende (o cosa nasconde) questo distinguere ed etichettare? A mio parere, una paura, e non una paura del futuro, ma di perdere il passato.
Tutto questo discorso mi accorgo può avere una venatura di autoreferenzialità… è vero. Ma non sono Borges, e francamente non so nemmeno se vorrei esserlo. Probabilmente no. Non sono certamente né un poeta né uno scrittore. E allora? Credo di essere solo un appassionato, ve l’ho detto, che offre le sue riflessioni, certamente più sbagliate che giuste, e che spera di contagiare qualcuno con la sua stessa malattia: l’amore per i libri, l’amore per la poesia, l’amore per la bellezza. Per far questo uso le mie “armi”… e accetto il rischio del giudizio. Me lo ha insegnato il Teatro: tutte le volte che ti esponi al pubblico devi essere pronto ad accettare il giudizio, positivo o negativo che sia. E tra le altre cose, credo che l’amore sia rischio, un rischio che sempre meno persone sono disposte a vivere: “Esistono tre continenti perduti – scrive il mio caro Tom Robbins in “Natura morta con picchio” – …Uno siamo noi: gli amanti”. Può darsi abbia ragione chi mi giudicherà pretenzioso e autoreferenziale, ma non so che farci. Accetto il rischio, e ringrazio comunque il pubblico…
Parentesi: Gatto ha fascino? Da vendere!
Terza risposta, in una domanda: si può pensare che Dante abbia scritto cento canti, inventando praticamente una lingua, solo per amore di una donna?
Controdomanda: e perché no? È troppo squallido, misero, meschino, da portinaie (come si sarebbe detto una volta)? Fateci caso: l’amore, in uno scrittore, uomo, è essenzialmente una donna o una figura femminile, per cui ricordiamo le Beatrici o le Fiammette o le Ada o le Daisy o le Dora Markus; in una scrittrice, donna, è fondamentalmente il vivere l’amore. Ricordate qualche Jack, o Alberto, o che so io? I nomi degli “amorosi” che ricordate, attenzione, sono generalmente in testi scritti da uomini.
Dunque, il problema dell’amore, in arte, presumo debba avere tutt’altre connotazioni.
Ancora qualche altro rapido esempio.
Ricordo di avere ascoltato, una volta, alla radio, un signor professore, il quale disquisì per circa quaranta minuti su “La casa dei doganieri” di Montale. Parlò di tutto, anche del di più: dolore, sofferenza, vita, morte, miracoli, universo, ansia, attesa... Non gli sentii mai dire che la poesia parlava di una donna e di un amore lontano e forse perduto per sempre.
Attendo ancora qualcuno che a chiare lettere mi dica (colpa mia, avrò letto poco) che “Il barone rampante” di Calvino è, tra le molteplici altre splendide cose, lo struggente e tenero racconto di un amore impossibile:
“L’amore riprendeva con una furia pari a quella del litigio. Era difatti la stessa cosa, ma Cosimo non ne capiva niente.
- Perché mi fai soffrire?
- Perché ti amo.
Ora era lui ad arrabbiarsi: - No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Chi ama vuole solo l’amore, anche a costo del dolore.
- Mi fai soffrire apposta, allora.
- Sì, per vedere se mi ami.
La filosofia del Barone si rifiutava di andare oltre: – Il dolore è uno stato negativo dell’anima.
- L’amore è tutto.
- Il dolore va sempre combattuto.
- L’amore non si rifiuta a nulla.
- Certe cose non le ammetterò mai.
- Sì che le ammetti, perché mi ami e soffri.” 





Una volta ho seguito una lunga intervista concessa da Calvino alla televisione francese. Raccontava che l’ipotesi iniziale era quella di lasciare il Barone sugli alberi fino a quando tutti gli abitanti della terra non vi fossero saliti anche loro. A quel punto, Cosimo sarebbe sceso. La storia, invece, diceva con un sorriso di infinita tenerezza, lo aveva portato completamente da un’altra parte. Da quale altra parte? Cosa, quasi inconsapevolmente, gli ha fatto cambiare rotta? Forse, il Barone resta per tutta la vita sugli alberi solo per avere, chissà quanto coscientemente, accettato la giovanile sfida amorosa che lei ad un dato momento gli lancia.
Che dire? Esistono i misteri della fede, quelli della scienza, quelli della letteratura… evidentemente esistono anche quelli della critica. Forse c’è un po’ troppo Leopardi in giro, un po’ troppo pessimismo cosmico.
Ma questo problema dell’amore, della figura femminile, resta, e la critica non può evitarlo. Così della donna troviamo decine di definizioni, da angelicata a salvifica, da materna a ispiratrice (ovviamente “musa”), peccaminosa o guida o dannatrice o rivelatrice o… basta! Ogni buon poeta che si rispetti si ritrova la sua definizione della donna.
Quale sia quella attribuita dalla critica ufficiale alla figura femminile di Gatto, o, come lo studioso più correttamente direbbe, in Gatto, francamente non lo so, e confesso che non m’importa saperlo.
Sarà proprio necessario distinguere, come si fa, tra la figura materna, per la quale il poeta scrive versi a volte strazianti (“Fu in un giorno d’autunno che l’amore/ mi disse a lungo che la lunga sera/ del parlare tacendo era venuta/ a zittire sugli alberi, la muta/ eternità specchiava la peschiera/ annerita dai boschi, nel chiarore/ - visibile per sempre - la tua gota/ struggente, il segno della casa vuota.), e le figure femminili filiali, o tra le donne amate, magari amate occasionalmente?
Non credo. Credo invece che l’importante sia, per noi “lettori felici” (come dice Borges), ritrovare il senso dell’amore nelle parole che il poeta ci lascia, sentire il nostro palpito in quelle parole, sentire, nel sentimento più comune e manipolato del nostro quotidiano, il riflesso delle nostre emozioni. La poesia d’amore, paradossalmente, come il romanzo che tratta d’amore, serve più a chi legge che non a chi scrive (sic!). Chi scrive, rende un sentimento esterno a sé, forse se ne libera, o lo guarda, finalmente, nella sua amplificata bellezza (anche dolorosa), la scrittura si presta come atto di purificazione.
Ma per i “lettori felici”, quelle parole sono passioni vive, forse in quello stesso momento vissute. Siamo per un attimo pratici, piccoli, quotidiani, diretti, anche miseri, se volete: chi di noi, dotato di un minimo, ma un minimo di frequentazione con la letteratura, al momento dei primi, dolci turbamenti amorosi, non ha utilizzato qualche verso, qualche parola d’amore letta in un libro, ascoltata in un film o in una canzone, per fare di sé innamorare qualcuno o per confortarsi in un abbandono?
Dunque credo che se lo si vuole inquadrare, il problema va affrontato esclusivamente dal punto di chi scrive. E qui, la questione assume tutti altri contorni, decisamente più profondi (e in un certo qual senso anche inquietanti). La domanda da porci è: cosa rappresenta la donna, o meglio, l’idea del femminile che il poeta si porta dentro? Questa idea del femminile è un simbolo, e se lo è, quale valore ha?
Penso che una interessante risposta ce la fornisca Erich Neumann, psicologo, allievo di Jung, che ha focalizzato gran parte dei suoi studi e della sua attenzione proprio sul “femminile”.
In “Amore e Psiche – una interpretazione nella psicologia del profondo” scrive:
1 - “… nella favola gli avvenimenti sono determinati dall’attività del partner femminile, cioè da Psiche. Le metamorfosi di Eros, Eros come drago, Eros come mostro e marito, Eros dormiente e infine Eros dio che salva Psiche e la desta all’esistenza più alta: tutti questi stadi non sono raggiunti dall’attività dello stesso Eros, ma attraverso le imprese e le sofferenze di Psiche. È sempre lei quella che intraprende, soffre, realizza e porta a compimento, e in fondo anche la manifestazione del divino, di Eros, è determinata dall’attività amorosa e conoscitiva della parte femminile, dell’umana Psiche.”;
2 - “Nell’Eros della favola di Psiche come nel Lucio dell’iniziazione a Iside il corso degli eventi non deriva dall’attività dell’Io maschile ma dall’iniziativa del femminile. In entrambi i casi l’andamento delle cose, nel bene e nel male, viene indirizzato da questo principio femminile sinanche in opposizione a un Io maschile riluttante e passivo. Tali sviluppi, però, in cui la ‘spontaneità della psiche’ e la sua vitale capacità direttiva decidono in modo determinante della vita del maschile, ci sono noti dalla psicologia dell’uomo creativo come dalla psicologia del processo di individuazione . In tutti questi processi in cui ‘Psiche guida’ e il maschile segue, l’Io depone il proprio ruolo di guida ed è guidato dalla totalità. Negli sviluppi psichici che risultano incentrati sul non-Io, sul Sé, siamo in presenza nello stesso tempo di processi creativi e di processi di individuazione.” ;
3 – “Non è soltanto Psiche a percorrere un percorso di trasformazione; il suo destino è indissolubilmente intrecciato a quello di Eros. Ma questo rende il mito di Psiche un mito della relazione tra uomo e donna. (2);
4 - “Lo scopo del mistero è “procreare e partorire nel bello”, è partorire “un misterioso fanciullo che rende pregni della sua presenza tanto il corpo quanto l’anima”, una gravidanza che testimonia la presenza e l’attività di Eros.”;
5 – “Ma oltre a ciò, l’esperienza d’iniziazione religiosa diventò per Apuleio un’esperienza personale perché egli era uno di quegli uomini creativi che, come il femminile, devono partorire, e perché era uno di quelli che “Psiche guida”.”
Nelle mie letture, sempre da “lettore felice”, mi è capitato di incontrare almeno tre chiarissime riscritture della favola in questione, e tutte lontanissime tra loro nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella forma. Sono certo che ne esistono decine d’altre, poiché spesso mi capita di sentire vibrare le immagini di questo mito sotto storie che ad esso non si richiamano così chiaramente come in quei tre casi,  che sono: “La locandiera” di Carlo Goldoni, “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, “Natura morta con picchio” di Tom Robbins. Questo terzo, poi, nell’opera di “ricalco” è simpaticamente clamoroso. Ma il discorso sul mito di Amore e Psiche, sia pure molto affascinante, ci porterebbe lontano. Sarà per un’altra volta. Invito solo ad osservare che le due comiche della Locandiera si accostano alle due sorelle di Psiche, che Eros, “il vendicatore”, ha arco e frecce così come Bube ha la sua pistola e Picchio le sue bombe, che Bube e Picchio finiscono in galera così come Eros è segregato dalla madre Venere, e da ultimo che l’ombra del padre di Mirandolina sa tanto dell’oracolo che porterà Psiche alle nozze. Ma questi sono solo primi e superficiali paralleli, lasciamo stare.
Quello che penso è che le più belle poesie di Eugenio Montale sono poesie d’amore. Pensate per esempio a “Dora Markus” o alle composizioni di “Xenia”. E sarà curioso notare, se vi capiterà, che nel momento in cui Montale rimane solo per la morte della moglie Drusilla, la sua poesia cambia. Vi risparmio le disquisizioni della critica su questo cambiamento, ma evidentemente un nesso tra la scomparsa della donna ultima e più a lungo amata e questo “scarto” poetico ci deve essere.
In Gatto, questo, per esempio, non accade. Non è un merito maggiore di Gatto rispetto a Montale. Semplicemente Alfonso ha trovato sempre nuovi amori, ed intensi, fino al suo ultimo e tragico momento. Ciò che è curioso è quel suo indugiare sulle donne come forma della vita, come spazio da esplorare, da guardare muoversi, anche da lontano:

Ho visto la ragazza che può dire
d’essere il mondo.
(…)

Si ha la sensazione che egli ci additi un vero e proprio universo esterno da cui trarre continuamente linfa vitale. Posso dirvi, in coscienza, che le sue poesie d’amore, o dedicate, o che parlano di donne, sono assolutamente splendide, senza ombra di dubbio. Rimandano una tensione emotiva, un senso profondo del desiderio, e soprattutto una gioia che raramente ho incontrato. Nella maggior parte dei casi, infatti, i poeti (gli artisti in generale) tendono a cantare una malinconia dell’amore, il distacco, la lontananza. Sono più rari i casi in cui assistiamo alla “gioia della presenza”, in Saba, ad esempio, o in Aleixandre. Va comunque detto che anche nel “gioco dell’assenza” ci sono versi o attacchi che ci riempiono il cuore sempre, forse perché l’amore è tempo presente, sempre. Pensate a quello più meravigliosamente semplice e noto di Montale: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”. La mia preferita in Montale è “La frangia dei capelli…”:

“La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con  la mano non devi. Anch’essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto
del sonno la cortina che gl’indulti
tuoi distendono, l’ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s’ora
d’aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d’un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.” 





Bella, vero? Spero che leggerla non sia stato solo un mio personale piacere.
Tornando a Gatto. C’è in Gatto che guarda le donne una pienezza di vita, quasi il valore di un “ringraziamento” per la sola loro esistenza, che sia la madre o l’amante (parola splendida che soltanto il conformismo ottocentesco-borghese ha riempito di turpi significati. Amante: colei/colui da cui si è amati. Conoscete qualcosa di meglio?), un senso del “ringraziamento”, dicevo, che ci porta a pensare che esse donne non siano solo il veicolo dell’amore, ma un vero e proprio mezzo per la conoscenza.
Chi ha un minimo di frequentazione con la psicologia, sa che ognuno di noi è come fatto di due parti, indicate una come maschile l’altra come femminile. La parte maschile, generalmente situata, o meglio identificata con il lato destro (a meno che non siate mancini), è la sede della forza, del senso del dovere, della responsabilità…
Quella femminile, generalmente identificata a sinistra, è la sede della fantasia, della creatività, dell’immaginazione, dell’introspezione…
Si ritiene che una persona, un soggetto sia ben formato, sia cresciuto bene insomma, se le sue due parti sono in buon equilibrio. Dunque, “il femminile” non è solo della donna ma di ciascuno di noi, così come “il maschile”. E questa cosa è talmente precisa da divenire applicabile anche alla nostra società, alla nostra storia, cultura, al “collettivo” come lo chiama Neumann. Tanti, tanti dei nostri disastri derivano dal mancato equilibrio tra questi due elementi. Il mondo è stato per troppo, lungo tempo “maschile-patriarcale”, ed il “femminile”, che non sono solo le donne, lo ribadisco, ha fatto fin troppa fatica a venire fuori. E da che mondo è mondo, il “maschile-patriarcale” è stato portatore di dissidi e guerre. Forse non è un caso che dopo due guerre mondiali sia esploso il ’68, e che una delle sue frasi simbolo fu “l’immaginazione al potere”.
Come al solito sto un po’ divagando, ma non credo che queste osservazioni siano non-pertinenti, e visto che siamo tornati su Erich Neumann, stando alla sua lettura della favola di Amore e Psiche, possiamo ipotizzare che la donna, in questo nostro discorso su Gatto e sulla poesia,  non ha in realtà un valore in sé, in quanto elemento esterno, ma quell’elemento esterno è il riflesso di qualcosa che il poeta si porta dentro. È l’immagine riflessa di quel femminile che si muove dentro di lui, dentro ognuno di noi in realtà, e che lo spinge, come scrive Neumann, a partorire.
Non so se riesco e spiegarmi… Beatrice, non è Beatrice, ma il “femminile” di Dante, che lo conduce, lo guida verso il bello e a partorire il bello. Guardate che non è una idea solo mia, o di Neumann. Auerbach, nei suoi saggi su Dante lo scrive a chiare lettere. “Per la nostra indagine è indifferente sapere chi era Beatrice, e se essa sia vissuta davvero; la Beatrice della Vita Nova e della Commedia è una creazione di Dante e non ha quasi a che fare con una giovane di Firenze che più tardi sposò Simone de’ Bardi. E se essa d’altro canto è niente di più di una allegoria di mistica sapienza, resta in lei tanta realtà e personalità che si ha il diritto di considerarla una figura umana, che possano o no quei dati di fatto reali riferirsi a una persona determinata. (…) non si capisce perché si debba riconoscere maggior forza di ispirazione a un’esperienza erotica che può succedere a ogni uomo, che non a un’illuminazione mistica che è capace di conservare l’evidenza delle cose; come se la mimesis poetica dovesse essere una copia di cose determinate, e non fosse piuttosto autorizzata a fondere a suo piacimento il suo materiale di realtà, tratto dall’infinito numero delle cose di cui la memoria dispone.” Auerbach, Erich Auerbach, a me evidentemente stanno simpatici quelli che si chiamano Erich…
Giunto alla maturità, Gatto pare intuire questo meraviglioso “tranello” della creazione poetica. Ed ecco che in “Desinenze”, sua ultima fatica (purtroppo!), spunta una curiosa, piccola poesia, “L’anca gloriosa”:

È la mia donna o la donna
questa che seguo all’incedere
del passo fermato
a reggerle l’anca gloriosa?
È mio l’orgoglio d’averla nell’onda
della mattina o la noia
di dirmi ch’è sposa,
sposa del vento che mai la tocca
incredibile e sciocca?

L’anca gloriosa mi fa pensare subito a Petrarca, alle “Chiare fresche e dolci acque (per favore, è un settenario, non fate come troppi l’errore di staccare dolci_acque: c’è sinalefe! Attaccate, cioè, la vocale finale della parola con quella iniziale della parola successiva!) / ove le belle membra/ pose colei che sola a me par donna;/ gentil ramo ove piacque, (vi torna, ora, la rima?)/ con sospir mi rimembra,/ a lei di fare al bel fianco colonna (…)”. E forse viaggiando da quella tra le prime donne della poesia italiana fino alla sua, Gatto trova giusto chiedersi se quella sia la sua donna o la donna. Ed è suo l’orgoglio di averla nel flusso dei pensieri freschi del mattino o la noia di vederla stabile, stabile (e immutabile?) nel vento che non la tocca mai? Essa è al contempo incredibile e sciocca: tutto e nulla.
Nella maturità, al termine di quella esplorazione necessaria dell’altra parte di sé, del suo “avversario”, Gatto intuisce che c’è qualcosa di misterioso in quello splendido gioco tra i sessi, ma quel qualcosa riguarda, ancora una volta, la sua interiorità e non l’altro essere, sia pure amato e rispettato.
In un piccolo saggio pubblicato da “Il catalogo”, intitolato non a caso “Universo che mi spazia e m’isola”, Piero Bigongiari scrive:
“(…) questa aedicità del canto gattiano, pronto ad accendersi in profondo dei suoi nonnulla vitali, in quanto, esigendo questo ascolto, esige il cerchio dei felici viventi, esige i suoi Feaci. Ma è piuttosto il canto di Telemaco che quello di Ulisse, piuttosto il canto del figlio, del “bambino festoso”, in cerca del padre, e delle notizie del padre presso Nestore, a Pilo, che quello del padre in viaggio verso l’ “isola” natale. Gatto in definitiva mira a lasciare l’ “isola”, cioè il proprio io, in cui, sì, l’universo della poesia lo spazia ma, anche, lo chiude; e la lascia proprio nelle intermittenze dell’avventura che lo sospinge al canto (“mi spazia”) ma di cui il canto è anche il commento e il significato (“m’isola”). È Penelope, s’è detto, la madre, la sua morte: ed è lì che il significante raggiunge il significato primo. “Il paese cantato sui carri” il “morto ai paesi”, “il bambino festoso” ma anche “violento”, se lo porta dietro partendo alla ricerca del padre, ma la ricerca del padre finisce per risolversi nell’altro corno del problema edipico: quello della conquista retrorsa della madre abbandonata, che si riverbera in avanti come il dato stesso della morte nascita: che è il dato quotidiano del proprio uso della parola, quello del linguaggio del canto, quello infine stesso del canto e della finalità, cioè il significato, del canto”.
Ecco. Ci avete capito qualcosa? Confesso che ho dovuto leggerlo tre volte prima di farmi un’idea di cosa vuol dire (e non so nemmeno se sia quella giusta). E a me piace occuparmi di queste cose, figuriamoci un lettore comune, distratto o che cerchi di essere invogliato, che voglia essere guidato su  un percorso di conoscenza. Questo pezzo di Bigongiari è splendido, ma sembra indirizzato al solo circolo degli studiosi. Insomma… scusate: pare che se la suonino e se la cantino tra di loro; e questo – mi spiace dirlo – chiudere le porte anziché aprirle, mi dà sempre il senso di una volontà che vuole in qualche modo conservare un potere, di un consorzio, una casta si direbbe oggi, che protegge i suoi vecchi adepti e filtra con maglie strettissime i nuovi. Il discorso di Bigongiari è alto, altissimo, credetemi, ma possibile che non si possa farlo più semplice? E semplice, lo ripeterò fino alla morte, non è facile. Semplice è un risultato, il risultato di una lunga elaborazione e di una sintesi, semplice è tendere e forse arrivare all’essenza. Facile no: facile è la superficialità, superficialità che, certo, a volte al genere umano è necessaria, serve a volte, ne siamo tutti consapevoli, alleggerire, andare “easy” come direbbero gli anglosassoni.
Questa è una cosa che, per esempio, proprio gli attori conoscono molto bene: arrivare alla semplicità è un “dono” che si conquista (perdonate il paradosso, quasi l’ossimoro), in genere una scoperta della maturità. La semplicità in Eduardo (De Filippo), tanto per dirne uno, è un punto di arrivo della maturità. Eh, disgraziati quegli attori che pensano di poter partire semplici, non fanno altro che ricalcare modelli, stilemi che non appartengono ancora alla loro interiorità. E il guaio è che non possono accorgersene, perché altro elemento che entra in gioco nella semplicità è la presa di coscienza, la consapevolezza, e non si può partire “consapevoli”.
Scusate la digressione personale-attoriale, anche incompleta. Torniamo al nostro discorso.
Era auspicabile, in Bigongiari, la semplicità (Borges, a mio parere, è semplice, infatti non finite mai di scavarci dentro anche quando a prima lettura vi pare di avere capito tutto, o quel poco Croce che ho letto è semplice, o Calvino, la Ginzburg, o Foster Wallace…), ma la semplicità richiede fatica, molta fatica, fatica e ricerca, richiede un “allontanarsi dai propri pensieri”, un rimetterli in discussione, chiede la ricerca di una forma lontana da ciò che già sappiamo, un andare fuori dalle strade battute su cui abitualmente camminiamo. Richiede un superamento.
“Se riesci a scrivere con parole da un dollaro fai una grande cosa, ma se riesci a scrivere con parole da pochi cent fai un cosa ancora più grande” più o meno, cito a memoria - pessima memoria - una frase di Hemingway.
Ma insomma cose vorrebbe dire Bigongiari? Che innanzi tutto, quello di Gatto non è il viaggio di Ulisse che torna a casa, ma quello del figlio Telemaco che parte alla ricerca del padre (lessi, per dovere universitario “Le avventure di Telemaco” di de Fénelon: una delle cose più noiose che abbia letto in vita mia, non ve lo consiglio). Ed essendo il viaggio del figlio (l’intuizione e l’accostamento con Telemaco sono splendidi) Gatto non cerca l’isola, ma vuole lasciarla, cioè vorrebbe lasciare il proprio “io”, quell’ “io” dell’universo della poesia che lo spazia, ma anche lo isola, cioè lo chiude. E in questo viaggio alla ricerca del padre, egli in realtà, irrimediabilmente, si porta/lascia dietro la madre, ed il viaggio lo condurrà proprio a ritrovare la madre, elemento che dà la nascita, ma in conseguenza anche la morte. Chi non nasce non può morire, per capirci.
Dunque, tutta la questione si risolve in una sorta di ricongiungimento, non di Gatto con la madre, ma dei due elementi, maschile e femminile che sono in lui (come in ognuno di noi). Quindi – lo dicevamo prima – al compimento della sua figura, al diventare insomma adulto, un essere compiuto nella sua interezza, nell’equilibrata unione di maschile e femminile. La madre, abbandonata, lasciata cioè dietro, brilla, “si riverbera”, riluce davanti a lui come approdo finale, come un faro, come simbolo della nascita- morte. Nascita-morte che sono la totalità di tutto il percorso: tendo a questo dubbio intero, ricordate? E questa ricerca della totalità, questa vita-morte è il dato fondante, secondo lo studioso, il valore profondo del suo canto, è il valore del suo stesso canto: arrivare in fondo per comprendere che ciò che conta è il cantare stesso, non alcune specifiche cose che si cantano, perché la vita-morte è fatta di tutte le cose.
È un po’ il discorso che facevo sui “temi” di Gatto. Ce ne sono talmente tanti che… quali sono? Tutti e nessuno, in realtà. Egli offre il proprio corpo alla poesia e si lascia suonare, si lascia cantare. Il ciclismo non è diverso dall’amore, un processo non è diverso dalla morte del fratello, il carcere non è diverso dai giochi dei bambini: il canto dell’anima è necessario in se stesso.
Attention s’il vous plaît: quando diciamo “diventare adulto” non ci riferiamo all’uomo, ma al poeta, o meglio alla sua poesia (come potremmo esaminare l’uomo, e anche potessimo con quale diritto!);  è come se fosse lei a compiere questo percorso, lei in lui.
Uff! S’è fatta più fatica a spiegare il critico che il poeta. Io - ci tengo a dirlo - non ho semplificato Bigongiari, forse l’ho “incartato” ancora di più. Ma non toccava a me cercare la semplicità, toccava a lui: sua è l’idea, sua l’esposizione, suo il problema.
Alla fine di questo minimo discorso sul femminile, nel quale spero di essermi “sgrovigliato” (credo sia veramente molto complesso, ad oggi tutti i parametri non mi sono chiari e mi domando quando lo saranno – in realtà spero mai, altrimenti che faccio per il resto dei miei giorni?!), alla fine di questo discorso, dicevo, voglio darvi un piccolo e secondo me divertente consiglio pratico:

*
Sorriderti forse è morire,
porgere la parola
a quella terra leggera
alla conchiglia in rumore
al cielo della sera,
ad ogni cosa che è sola
e s’ama col proprio cuore

*
Come la donna è calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è largo il mare.

Come la donna e calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è caldo il pane.
(…)

*
I tuoi occhi son come la giovinezza
grandi, perduti, lasciano il mondo.
(…)
Tu sei l’amore da portare in braccio
di corsa sino al vento sino al mare,
(…)

*
Forse mi lascerà del tuo bel volto
amore un soffio e la celesta sera
disparirà come un silenzio intorno.
(…)

*
Non ha parole chi rivolge agli occhi
la sua domanda e trova nello sguardo
gli occhi a conferma d’essere l’amore.
(…)

*
Resta con me la notte, com’è lunga
e non basta l’amore a darle un senso.
All’alba viene sconsolato il freddo
che non perdona, (…)
Chi resiste allo sgarbo ci vuol bene,
veglia la calma, il sonno può venire.


Ecco, ho sfogliato e letto quasi a caso. Sono solo alcuni esempi di quello che potete trovare in Gatto. E il consiglio è: imparate a memoria qualcuno di questi versi, vedrete che non vi mancherà occasione di utilizzarli e scoprirete che sono una meravigliosa arma di seduzione, reciprocamente, per entrambi i sessi, anche dalle ragazze sui ragazzi, perché no?!, chi ce lo impedisce?, le convenzioni sociali, i modelli consolidati, le abitudini? Ribaltiamole queste convenzioni, proviamoci almeno (personalmente, sogno di incontrare una donna che almeno una volta nella vita mi mandi dei fiori): siamo giovani per provare a scardinare i modelli riconosciuti e convenzionali, siamo giovani per tentare altre strade, e nessuno potrà nemmeno impedirci, un giorno, di dire e dirci: vabbene, ho sbagliato, torno indietro. E magari ricominciare. Le cose importanti io credo siano l’onestà, onestà con se stessi, e sopra tutto (sopra tutto, staccato!, voluta-mente e decisa-mente) il non aver paura, non avere mai paura dell’amore, non avere mai paura di vivere l’amore, di rischiare con l’amore, qualsiasi cosa possa accadere. E credo che anche in questo Gatto ci sia d’esempio, che ce lo indichi con la sua esperienza e la sua poesia.
Il mio amato Tom Robbins in Cowgirl scrive:
“Sfortunatamente mie care bambine, non esiste quella che voi chiamate una semplice storia d’amore. La più passeggera delle cotte è complessa al punto da essere oltre la portata del cervello. (Il cervello ha la pericolosa abitudine di pasticciare con cose che non può e non vuole comprendere.)
Il vostro autore ha trovato che l’amore è la quintessenza del viaggio, emotivamente parlando; il grand tour: prova a innamorarti, e visiterai il paradiso e l’inferno al prezzo di uno. E con questo non abbiamo detto ancora niente. Se il realismo può essere definito come una delle cinquantasette varietà di decorazione, allora come possiamo sperare in una valutazione realistica dell’amore?” 

Ah, i professoroni rabbrividiranno, strepiteranno, diranno che mettiamo i versi di un grande poeta alla stessa stregua delle canzonette. E che ci importa?! A parte il fatto che un grande poeta, quale Gatto è, resta sempre un grande poeta, sempre, non sarà meglio conoscerla un po’ di poesia invece che restarne lontani così come il tedio pseudo-scolastico ci ha generalmente indotto a fare? E non sarà meglio utilizzarla, la poesia, per renderla strumento d’amore, piuttosto che di potere?
Ne sono certo: i prof. ci insulterebbero, Gatto sorriderebbe e ci direbbe: “Ma sì, è comunque meglio”.
E mi assumo questa responsabilità!

Però! Oggi non abbiamo fatto nemmeno un pausa. Siamo andati dritti come treni e il discorso si è rivelato più complicato di quanto credevo. Come sempre.
E allora, da ultimo, ultimissimo, lasciate che vi faccia due piccole letture; solo qualche minuto ancora di pazienza.
La prima è la poesia d’amore di Gatto che preferisco. S’intitola “Potrebbero dirti morta”, e non vi nascondo che mi ricorda una persona. Aveva (/ha) occhi scuri, grandi, immensi, profondi, carichi di tutta la luce del mondo, il cuore del mondo.

I tuoi occhi son come la giovinezza
grandi, perduti, lasciano il mondo.
Potrebbero dirti morta senza rumore
e incamminare su te il cielo,
passo a passo, seguendo l’alba.
Tu sei l’amore da portare in braccio
di corsa sino al vento, sino al mare,
e dirti fredda da scaldare al fuoco
e dirti triste coi capelli neri
da pettinare eternamente, è come
deporti nel silenzio, starti accanto
udendo l’acqua battere alle rive.

E poi, il mio amato Tom Robbins, da quello che io considero non solo il suo capolavoro, ma uno dei più grandi romanzi del ‘900, “Natura morta con picchio”:

“Quando se ne va il mistero nel rapporto a due, se ne va l’amore. Semplice, no? Il che spinge a pensare che non tanto l’amore è importante per noi, quanto il mistero stesso. Il rapporto amoroso forse è solo un accorgimento per metterci in contatto con il mistero, e desideriamo che l’amore perduri affinché perduri l’estasi di stare vicini al mistero. È contrario alla natura del mistero restare fermo. Ciò non ostante è sempre lì, un mondo dall’altra parte dello specchio (o del pacchetto di Camel) una promessa nel prossimo paio d’occhi che ci sorride. Riusciamo a coglierlo fuggevolmente se stiamo fermi noi.
L’incantesimo del nuovo amore, l’incantesimo della solitudine, l’incantesimo degli oggetti, l’incantesimo delle vetuste piramidi e delle stelle lontane sono mezzi per stabilire un contatto con il mistero. Ma là dove si tratta di perpetuarlo, non ho consigli. Però posso e voglio rammentarti due dei più importanti fatti di cui sono a conoscenza:
1)   Tutto ne è parte.
2)   Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice.”

Ecco, io credo che non sia mai troppo tardi per farsi “lettori felici”.
Grazie, oggi veramente di cuore, grazie.»



(1) Cos’è il fascino? Non come qualcuno barbaramente crede una dote innata, ma la risultante di una serie di combinazioni e necessità. Per un approfondimento vi rimando alla lettura di un testo meraviglioso che credo tutti dovrebbero leggere: “La canoa di carta” di Eugenio Barba. Qui, vi lascio per ora un prezioso insegnamento di Anna Maria Giromella, insegnante di dizione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” in Roma: “Il fascino è concentrazione”. Sintetico, ma vi assicuro che c’entra come il sole in una giornata al mare, almeno per gli attori.
(2) Chiedo perdono, ma questo mi fa venire in mente una spiritosa frase scritta su uno di quei gadget con la calamita che una mia amica tiene appiccicato sul frigorifero: “visto che ho un corpo, ho bisogno di una corpa!” …Sorry!