mercoledì 29 aprile 2015

Libero mercato: non se ne può più!

Questo nostro mondo è pieno, anzi strapieno di cose riuscite decisamente male.
Ma di una cosa, sicuramente ci possiamo compiacere: volevamo costruire un mondo di merda, e ci siamo riusciti benissimo!
Dico "volevamo" perché mi ci metto anche io. Tutti noi siamo coinvolti in un modo o nell'altro, non fosse altro per non esserci accorti di quello che stava accadendo, o magari perché abbiamo trattato con superficialità un problema che ci veniva segnalato o non abbiamo proprio voluto ascoltare chi ci poneva in guardia... Insomma, come che sia, per azione diretta o per indifferenza, mi sa proprio che siamo tutti compartecipi di questo disastro che ci circonda.
Mi dicono amici medici che tutte le pubblicità che ultimamente vediamo sui prodotti per reflusso gastroesofageo o cattiva digestione sono dovute a un aumento esponenziale del problema. Non si sa nemmeno quale sia la percentuale di sofferenti, ma di sicuro è altissima. Lo stomaco non ci funziona più come un tempo, non ce la fa a digerire tutta la porcheria che ti tocca ingoiare, giorno dopo giorno.
E' una vita infernale, fatta di trattative continue per qualsiasi cosa, dalla tariffa del telefono a quella della luce, dal conto con la banca alla spedizione postale. Non c'è ormai più niente, ma proprio niente, che si possa fare con un minimo di superficialità, senza starci a pensare troppo su. A meno che non si sia dei nababbi e allora il denaro è l'ultimo dei nostri pensieri. Ma per quelli come noi che vivono semplicemente di stipendio o di pensione è una battaglia continua, sull'euro, sul centesimo, e sopra tutto sulla programmazione continua della nostra esistenza.
Prova a prendere un biglietto di treno o di aereo all'ultimo momento, non per vacanza, ma magari perché devi fare un viaggio improvviso per lavoro o per motivi di famiglia.
Oppure prova a passare da un gestore di telefonia o del gas a un altro. Ti ritroverai tempestato di telefonate, da offerte di vendita, nella maggior parte dei casi fasulle o con il trucco. Ed è inutile che tu dica che non ti interessa, che gli sbatta il telefono in faccia per dieci volte di seguito, che li implori, che ti incazzi. Niente, loro continuano imperterriti. Come se poi, la loro insistenza ti invogliasse. Personalmente il risultato è solo un "ti odio, non ti darò i miei soldi né ora né mai".
Così accade che, cambiato un mese fa il gestore della luce, riceviamo solo una settimana fa, il conguaglio e la chiusura contratto dal vecchio gestore.
Bene, nella sola giornata di oggi abbiamo ricevuto ben quattro telefonate dal vecchio gestore perché visto che eravamo passati con altro ci volevano fare una "meravigliosa offerta". Ed inutile è stato fargli notare che dal nuovo non abbiamo ancora ricevuto nemmeno la prima bolletta, non possiamo dunque nemmeno fare un raffronto... Niente, QUATTRO TELEFONATE IN UN SOLO GIORNO!!! E sempre per lo stesso motivo.
Non vi sto raccontando nulla di nuovo. Lo sapete benissimo.
E allora?
Allora non vi nascondo che rimpiango i tempi degli enti statali, di quando c'era un solo gestore telefonico o uno solo per il gas.
Tutto questo liberismo sfrenato non posso nascondere più che sta facendo crescere in me una splendida voglia non di comunismo, ma di stato sovietico. Io, che non sono mai stato comunista, ormai desidero ardentemente lo statalismo sfrenato.
Nazionaliziamo tutto perché non se ne può più!

La madre di tutti i disastri!

In questo momento così delicato per la nostra democrazia, ho ripensato e ripescato un articolo che scrissi per iconfronti.it più di un anno fa.
Se non ricordo male, Renzi era stato eletto da poco segretario del partito e già alcune sue proposte mi facevano rabbrividire.
Passato tutto questo tempo siamo a una sorta di redder ationem all'incontrario: tutto quello che si era supposto si sta proponendo e coloro che non avevano visto, che fingevano di non vedere, o che pur vedendo fingevano di non vedere, gli viene posto implacabilmente sotto il naso e devono, dunque, devono fare il conto finale, conto che, è evidente da una serie di dichiarazioni, avrebbero voluto evitare. Non costoro hanno atteso che il potere si trovasse di fronte le proprie responsabilità, ma è il potere ad averli costretti a una difficile scelta.
L'idea nemmeno tanto sottesa al pensiero renziano è quella che venne definita come "il sindaco d'Italia". Bene! Per me la legge sulla elezione del sindaco era e resta la madre di tutti i disastri, pensiero condiviso da pochissimi, talmente pochi da risultare praticamente ininfluenti.
E allora provo a rispiegarlo semplicemente riprendendo quelle parole di più di un anno fa e sperando che qualcuno, almeno uno, apra gli occhi e comprenda.
L'articolo completo è qui.
Di seguito la parte che... potrebbe interessarvi.
Buona lettura.

"L’ultima proposta del nuovo segretario del partito di maggioranza relativa è la più inquietante. E siccome il main-stream continua a parlarcene come la risoluzione di ogni male sarà forse necessario aprire una seria, serissima riflessione con conseguente dibattito su di essa: portare il modello elezione del sindaco a livello nazionale, il cosidetto “Sindaco d’Italia”.
La questione è realmente inquietante e merita un ragionamento articolato – mi perdonerete – la cui necessità spero si diffonda come una epidemia negli anni più bui del Medioevo.
Aprite un qualsiasi quotidiano, una qualsiasi trasmissione tv e sentirete ripetere, peggio dei pappagalli, che la sola cosa buona fatta dalla politica in questi ultimi venti anni è la legge per l’elezione del sindaco.
Ma ne siamo proprio sicuri?
Dal punto di vista democratico è una legge che a me pare uno scempio. Si può, a conti fatti, essere eletti sindaci con il 25%, ma anche meno, degli aventi diritto al voto e prendersi in consiglio comunale il 60% dei seggi. L’opposizione praticamente non ha margini di manovra, se non quello di urlare ogni giorno in attesa di nuova elezioni. Ma come se non bastasse, anche la possibile opposizione/dissenso interno viene a morire: tutto è nelle mani di un solo uomo, che fa e disfa a suo piacimento, e nel caso “malaugurato” che un assessore in disaccordo si dimetta, la giunta non va in crisi. Basta semplicemente che il primo cittadino decida, metta una firma e nomini magari sua sorella al posto del dissidente. Vi pare democrazia?
Questo a livello ideologico, ma ci sono poi i fatti pratici. Abbiamo certamente dimenticato che Catania, veramente sull’orlo del baratro, fu salvata dal Governo centrale, che a Parma in una sola legislatura è stato prodotto un debito di quasi un miliardo di euro, che Roma ha un bilancio che è una voragine e non per colpa di un sindaco solo, che il debito di Salerno è superiore a quello di Detriot e non ostante ciò il mitico De Luca continua a proporre nuovi obbrobri urbanistici, per non dire della fine che ha fatto il mare (città di mare dove si voleva costruire un parco marino finto, ricordiamocelo). Cosa è accaduto a Genova quando il Comune ha prospettato la vendita dei trasporti pubblici ai privati? Quelli di Firenze sono già passati di mano e per far cassa il comune vi impone di pagare pure per entrare nelle chiese (€ 6,00 per Santa Croce). Provate a chiedere a un torinese quanto paga per l’immondizia. Qualcuno ha capito come funziona il sistema dei varchi per il centro a Milano? E il nuovo ponte vicino alla Stazione Santa Lucia a Venezia dove rischiate le caviglie ad ogni passo? Chi ha dimenticato gli sgomberi di Bologna? Come sta Alessandria?
Apriamo il gioco: ognuno ci aggiunga tutto ciò che gli viene in mente.
Resistono i piccoli comuni, forse perché deve essere più facile “raggiungere fisicamente” gli amministratori locali.
Si parlò di grande “stagione dei sindaci”, ma cosa c’era, realmente, dietro. Sicuramente il nostro stupore di cittadini nel vedere realizzate rapida-mente, cose di cui magari la politica parlava da anni. La maggior parte, poi scoprimmo, erano progetti tenuti nel cassetto.
Il decisionismo dell’ “uomo solo al comando” sembrò farci respirare (ventennio – uomo solo, come era possibile respirare?…). Ma già ai secondi mandati cominciarono le delusioni, segno di una scarsissima visione politica, che è sempre visione sul futuro a lungo termine. Svuotati i cassetti, finiti i sindaci.
È vero, una volta la faceva da padrone “l’immobilismo”. Ma anche in quegli anni che oggi la propaganda di regime vuole a tutti i costi farci considerare bui, si “facevano le cose”, forse più lentamente perché una giunta era sempre ostaggio del partitino di turno, ma si facevano. Difatti non siamo rimasti all’età della pietra, e potrete facilmente osservare che i Comuni che funzionavano ieri, funzionano oggi (forse perché ancora vivono di quel fieno messo allora nelle cascine), gli altri, i brutti e cattivi, tali erano e tali sono rimasti.
Era vero immobilismo? Sentivate mai parlare, nei “secoli bui” di Comune a rischio default? Già solo questo dovrebbe spingerci a riflettere visto che alla fine pagano sempre i cittadini.
E già, perché, un altro leitmotiv di questo ventennio è che scegli uno, poi se non ti ha soddisfatto non lo voti più e scegli un altro. Peccato che nel frattempo quel primo abbia avuto la possibilità, indisturbato, di creare una voragine nei bilanci, che poi dovrà essere comunque riempita dalla collettività, senza che nessuno gliene chieda conto. Forse, affianco alla responsabilità civile dei magistrati bisognerebbe introdurre quella dei pubblici amministratori: hai fatto “il buco”?, ci metti il 10% di tasca tua. Ma questa politica arriverà mai a una tale proposta?
La proposta è invece quella di ampliare questo scempio alla Nazione.
E qui è necessario chiedersi il perché.
La parola tormentone è “stabilità”. Lo è stata fin da quando la legge per i sindaci venne proposta. L’intento pareva sano, i risultati li sappiamo. L’inno alla “stabilità” è la colonna sonora dei nostri anni. Ma cosa nasconde?
A mio vedere, l’incapacità dei politici di essere tali e di “fare politica”. Se ci riflettiamo la politica è una sorta di “filosofia applicata”, una conduzione delle cose concrete, della vita di tutti i giorni, considerando le questioni su di una visione a lungo termine, il tutto sulla base di una ideologia portante che ne determina la qualità o il tipo di scelte. Questa visione contemporanea tra breve e lungo termine deve prevedere la “gestione della complessità”, complessità dalla quale non si può prescindere perché la società è complessa, ancor più quella di un Paese la cui storia è caratterizzata dalla riunione di migliaia di storici campanili.
La coscienza di tale compessità contempla un ulteriore elemento: la consapevoleza che nel momento in cui hai risolto o sei sul punto di risolvere un problema ecco sorgerne subito un altro. Poiché essa, la complessità, è in continuo divenire.
E questa gestione comprende contemporaneamente l’azione e la riflessione, il cui punto di contatto politico diviene, quasi sorprendentemente, la mediazione, o per meglio dire un altro elemento che la propaganda ha denotato solo come brutto, sporco e cattivo: il compromesso. Cioè, la ricerca del punto di incontro.
Questa pratica richiede fatica, costanza, pazienza, tempi certamente lunghi, ma lunghi ed efficaci possono essere i risultati perché frutto sì dell’azione ma anche della riflessione che in un tal tipo di esercizio politico si produce quasi in maniera endogena.
Porto ad esempio Salerno, la mia città: non era quella di Alfonso Menna (dal ’56 al ’70) un epoca in cui “si facevano le cose”? Se questo Primo Cittadino è rimasto nella memoria dei salernitani, un motivo ci dovrà pur essere visto che la “efficace e meravigliosa” legge dei sindaci non c’era. 
Negli ultimi trent’anni, invece, la politica ha deciso di modificare il proprio linguaggio, senza considerare (o forse malevolmente sapendolo) che cambiando quello avrebbe anche mutato anche il suo corpo. Si è adagiata nelle spire mortali della comunicazione pubblicitaria, in particolare di quelle della televisione, ha velocizzato e sintetizzato il suo linguaggio, e velocizzandolo e sintetizzandolo lo ha svuotato di significato. Lo slogan sui manifesti, il titolo sul giornale, la frase a effetto, fino al twitt, sono diventati la politica!
Per superare la vecchia politica, e ritrovare un nuovo abito in cui mascherarsi si è scelta la via della “semplicità”, del parlare come parlano i cittadini, si è scelto di abbandonare il “politichese” per indicare una nuova frontiera, che altro non era che un trompe l'oeil, poiché “semplice” è il frutto di un percorso, di una sintesi, non il frutto di “facile”. Nella confusione tra questi due termini, semplice/facile, si è creata la mostruosa modificazione del “corpo”.
Il nuovo sistema comunicativo ha abbracciato mortalmente anche gli elettori, la cui soglia di attenzione ad un ragionamento è scesa vertiginosamente dai ben noti venti minuti a poche decine di secondi. Il “corpo” elettorale decide e sceglie ormai in base alla simpatia, a uno slogan, a una camicia bianca o azzurra, a una immagine televisiva.
Spegnendo l’articolazione del discorso e la capacità di ascolto si è spenta anche la capacità di ragionamento. E spegnendo il ragionamento si è spenta la capacità di gestire la complessità.
La politica è rimasta vittima di se stessa, il suo corpo è divenuto esile, debole, incapace di accogliere “i colpi della avversa fortuna”, refrattario alla pazienza, alla mediazione, all’ascolto, alla mediazione, al compromesso, e sente tutto ciò che si intromette sul suo percorso come una camicia di forza da cui liberarsi.
Perse le forti braccia che le consentivano di pilotare la nave, ecco che la soluzione diviene… la “favola” della sta-bi-li-tà, prendere il 60% della rappresentanza democratica, con un 25% di voti sugli aventi diritto. Attivare, per il corpo fragile, la regola del decisionismo senza mediazioni, senza ascolto, senza compromessi. Mani libere.
La dittatura è già dentro ognuno di noi."

martedì 28 aprile 2015

Benvenuto signor Dante cinese tra i tuoi amici del mondo!

Ognuno ha il suo gioco, questo è il mio: collezionare Divina Commedia tradotte in lingue straniere.
Non deve essere una edizione preziosa, ma preferibilmente una tascabile, una edizione popolare, di poco prezzo, e non necessariamente tutta la Divina Commedia, mi basta anche una cantica sola.
Le ho prese, alcune, quando ho varcato il confine, e altre le ho richieste a parenti e amici che andavano all'estero. E non voglio che me le spediscano, ma che me le portino, così da avere ancora una occasione per incontrarsi e magari farsi raccontare il loro viaggio.
Niente foto, però, niente diapositive, filmini e altre noiosità del genere: solo parole, un racconto di solo parole.
Fino ad oggi ha funzionato e la collezione si sta pian piano arricchendo. Ce n'è dalla Germania, alla Turchia (se ne occupò mia madre andando a tormentare un libraio del mercato centrale di Istanbul),

e poi la Lituania, la Russia, la Francia, la Spagna, il Cile, e pure in Catalano, Inghilterra e Stati Uniti, tutte e due le coste, ecc.
A volte sono, appunto, nella stessa lingua, ma non importa, conta per me la divulgazione che questo capolavoro ha, vedere sotto i miei piccoli occhi italici la forza di diffusione di questo capolavoro.
Per le lingue che un po' capisco, è assolutamente divertente andare a vedere come si è mosso un traduttore per un'opera così assoluta e complessa.
E' un gioco, il mio gioco, niente di più.
Oggi, grazie al papà di una mia allieva, mi arriva l'edizione tradotta in cinese.
E chi ci capisce niente!
Ma è commovente lo stesso. Una sfilza di segni incomprensibili, ma che importa. I versi sono lì, scanditi e riportati, quel che significano tanto lo sappiamo.
E il fascino si riverbera come luce di sole e luna sull'acqua, una striscia lunga che non sappiamo dove cominci e dove finisca.
Benvenuto signor Dante cinese tra i tuoi amici del mondo!


giovedì 23 aprile 2015

Vittorio Gassman, chi era costui?


Vittorio Gassman era un attore immenso. E su questo credo siamo quasi tutti d’accordo. Quasi tutti, perché alcuni non lo sono.
Gassman a costoro non piaceva. Personalmente non ci trovo nulla di strano, è così che va quando ti esponi al pubblico, ad alcuni piaci ad altri no. Sciagurati coloro che non lo comprendono prima di salire sul palcoscenico e si attendono un solo unanime consenso. Costoro, viste le ultime tendenze della nostra politica, farebbero meglio a cercare il successo elettorale piuttosto che lo spontaneo applauso della gente. Ma lasciamo stare.
Gassman era un attore immenso. E fino a qui ci siamo. Bisognerebbe chiedersi il perché, e questa operazione è decisamente difficile con la professione attoriale, una professione, come sovente si dice “scritta sull’acqua”, e soprattutto figlia di una immediatezza di percezione e di rapporto che esclude spesso, e anche ben volentieri, la riflessione. Si riflette magari sull’opera, sul suo significato, su quello che un tempo si chiamava il “messaggio”, ma raramente, molto molto raramente, sul perché un attore non solo ti piaccia, ma, in particolare, sia importante o no; e quando diciamo “importante” è ovvio che intendiamo “nella storia del teatro”.
Vittorio lo è stato, ma non ho trovato ancora scritti convincenti su questo.
Ecco, provo allora a dare la mia opinione.
Si associa e si è associato per anni Gassmann all’idea del grande attore ottocentesco, quasi egli fosse una appendice di un mondo perduto, che si guarda con la stessa reverenza che si dà a una antica opera d’arte che mai più, però, oggi nessun artista rifarebbe.
Ma Vittorio, proprio perché era Vittorio (lo chiamo per nome non perché lo conoscessi particolarmente – giusto un paio di cene insieme – ma perché è forse il titolo più grande, più di “Maestro”, che si può dare a un attore, riconoscerlo con il suo solo nome), Vittorio, con il passare degli anni non è diventato “sempre più antico”, anzi, continuava a spiazzare e suscitare discussioni, e stupore, così come ne aveva suscitati in gioventù.
Dunque, c’era qualcosa di più di un figlio teatrale di Ermete Zacconi (spesso citato malamente come esempio di recitazione da non replicare, in verità attore sublime, basta guardare il suo “Processo e morte di Socrate”).
Cosa ci fosse in realtà lo sappiamo anche se non vogliamo pienamente prenderne coscienza, a mio vedere per ragioni politiche sulle quali magari in altro momento torneremo. C’era per esempio una sterminata cultura, una conoscenza profonda della professione e, non bastante la conoscenza, una precipua e proficua analisi della stessa. C’era fascino, simpatia e antipatia, c’era profondità e leggerezza... e NON c’era una cosa della quale fu invece a mio vedere vittima Carmelo Bene che spesso, ingiustamente gli fu contrapposto, un certa certa modalità “barocca” di utilizzare la fonazione.
Gassman sapeva stare, sopra tutto negli ultimi anni, nella totale essenza della Parola e della fisicità dell’Attore.
“Sì, bene, benissimo, belle cose – mi starete dicendo – ma ancora non ci hai detto perché il pur immenso Vittorio sarebbe nella Storia del Teatro”.
Vero! Stringo e ci arrivo subito.
Tantissimo si potrebbe dire della sua evoluzione attoriale, e pagine infinite sono state riempite, ma c’è un aspetto che a mio vedere manca, un aspetto storico appunto.
Dobbiamo, credo, focalizzare il periodo in cui Gassman entra in arte. È il dopoguerra, è l’esplosione di una nuova frenesia creativa, è il tempo della nascita o quanto meno del consolidamento del Teatro di Regia.
Il Regista è il nuovo vate, il nuovo nume che possiede “i segreti” e li rivela agli attori, i quali, miseri, senza di lui più non sanno, e non possono agire, abdicando, così, a una predominanza nella scena teatrale che invece gli appartiene pienamente, ad una esclusività che è sola dell’Attore.
Tutti, ma proprio tutti, in quegli anni tra il ’45 e il ’55 paiono piegarsi piacevolemente al nuovo ordine, i vecchi primiattori quali Ricci, o i nuovi come Stoppa.
Intendiamoci, non è che questo apporto nuovo, da parte di figure imponenti come Costa, e poi Strehler e Visconti, non sia stato fondamentale per rivoltare come un calzino il nostro teatro. Di fronte a loro, e a coloro che poco dopo sono arrivati, ci dobbiamo sicuramente inchinare. Ma resta un dubbio: cosa sarebbe accaduto al mestiere dell’attore, in questa nostra nazione, se non fosse arrivato quello “spilungone allampanato”, come qualcuno amorevolmente lo definì, se non fosse arrivato Vittorio?
E già, perché Vittorio, intelligente, colto, curioso, metodico... pare, in qualche modo, proprio in quegli anni, opporsi a questa tendenza. Naviga, certo, agli inizi anch’egli nel rutilante nuovo mondo della regia, ma poi spicca solitariamente il volo.
Gassman si oppone, ma non si oppone per “tornare indietro”, si oppone perché un nuovo attore prenda a calcare le scene del nostro Teatro. Un attore che si interroga, che scruta, nel corpo e nella parola, nel gesto e nella voce, nella propria funzione artistica e sociale, un attore che “metodologizza”. Pare rivendicare, ancora, di fronte alla nuova e importante – lo ripeto – tendenza, la indiscutibile, sempre, centralità dell’Attore. Nella consapevolezza, però, che questo Attore deve egli stesso compiere un balzo in avanti per rimanere al proprio posto.
E Vittorio, in uno sforzo prima di tutto intellettuale – che forse pagherà avanti negli anni con i disturbi nervosi che spesso ha raccontato – compie inequivocabilmente questo balzo, costringendo, a mano a mano, tutti i suoi colleghi ad adeguarsi o morire.
Quel piccolo episodio da lui stesso narrato, mentre sotto regia di Visconti allestivano “Oreste” di Alfieri (1949), quando il Maestro milanese gli urlò: “Datti da fare, non sei ancora Talli”, e lui rispose: “E tu non sarai mai Stanislavskji!”, forse ci racconta proprio questo: la strenua voglia di ribadire, anche nel nuovo mondo della regia, la centralità indiscutibile dell’Attore, una istintiva ribellione che ha fatto certamente bene al Teatro e colloca Vittorio su di un gradino speciale nella storia di questo mestiere.
Anche per questo, non regge la contrapposizione con Carmelo Bene, e nemmeno, per certi versi con Albertazzi, e poi con altri. Perché costoro, alla fin fine, sono tutti suoi figli, che hanno estremizzato, o hanno sviluppato, o raccolto una eredità, o l’hanno dissipata, non importa, ma senza quella opposizione, quel reclamare “il ruolo”, tutti gli altri, dopo, ci sarebbero stati?
Io non credo. 

martedì 21 aprile 2015

K. Stanislavskji: "Non ho parole!"


La gran parte della didattica teatrale italiana vive su un clamoroso equivoco: far passare per “scientifici” termini che non lo sono. Soprattutto quella didattica che “chiede soldi”, e il cui risultato principale è quello di creare mandrie di poveri illusi che non avranno mai un vero futuro teatrale, forse lo avranno nel rutilante mondo dello spettacolo, un futuro spesso breve, ma certamente no nel mondo del teatro.
Energia, psicologia del personaggio, calarsi nel personaggio, immedesimazione... sono solo alcuni di quei termini. E, caso singolare, la stragrande maggioranza degli stupratori di terminologia, citano sempre, costantemente, e constantemente a sproposito Konstantin S. Stanislavskji.
Stanislavskji è stato sicuramente un immenso Maestro, ciò di cui non sono sicuro è che sia stato il più grande. La sua fama è tutta, ma proprio tutta meritata. C’è però da chiedersi se, come Freud con la psicanalisi, se un pezzettino almeno di questa fama non sia da attribuire al fatto che egli sia stato il primo. Cioè il primo che abbia preso carta e penna e abbia cercato di metodologizzare, di dare un ordine, di tirare fuori dalle secche della semplice e diretta comunicazione pratica il mestiere dell’attore per dargli una forma ampiamente e pienamente professionale.
Teorie, metodo, idee, approccio, ecc. del Russo sono certamente interessanti e imporanti, ma credo proprio che gran parte della sua gloria – come appunto nel caso di Freud – gli vada riconosciuta per il fatto di avere messo il primo punto fermo, e tutti, ma proprio tutti, dopo di lui, non hanno potuto prescindere dal raffrontarsi con il suo lavoro.
Ebbene, K. Stanislavskji, nella Introduzione al suo “Il lavoro dell’attore su se stesso”, a chiare lettere scrive:
Il mio libro non ha pretese scientifiche. Il mio scopo è esclusivamente pratico. Voglio insegnare agli attori principianti un corretto approccio all’arte […]La terminologia a cui ricorro non è stata inventata da me ma nasce dalla pratica stessa, viene dagli stessi attori esordienti. Sono loro che, nella fase stessa del lavoro, hanno definito verbalmente le loro emozioni creative. La loro è una terminologia preziosa, in quanto comprensibile e chiara a tutti gli attori principianti.
Non sforzatevi di trovare delle basi scientifiche, il nostro è un lessico teatrale, un modo di parlare da attori suggerito dalla vita stessa. È vero che noi ricorriamo a termini scientifici quali “inconscio” e “intuizione” ma non le usiamo in senso filosofico, quanto piuttosto nel loro valore più semplice e diffuso. Non è colpa nostra se il nostro campo creativo è stato trascurato dalla scienza e se ci mancano termini appropriati per descrivere in pratica il nostro lavoro creativo. Per superare l’ostacolo siamo ricorsi a strumenti nostri, come dire, fatti in casa

Mi pare abbastanza chiaro e non c’è molto altro da aggiungere. Solo, non vi dico “diffidate!”, ma guardate con un minimo di distacco critico coloro che vi descrivono il lavoro dell’Attore come una sorta di scienza e cercano di convincervi che basta seguire un preciso metodo e tutti, ma proprio tutti potranno diventare Attori.
Spesso lo fanno nel nome di Stanislavskji, spessissimo lo fanno mentre gli state elargendo una cospicua retta mensile.
Sappiate che Konstantin non avrebbe approvato.  

lunedì 20 aprile 2015

I dont want to speak english

E' il primo post. Dovrebbe essere una specie di manifesto. 
E invece non so da dove cominciare. 
Perché l'inizio è importante, forse l'inizio, l'attacco, come si dice in gergo, è tutto: come parti così prosegui. Gli argomenti che mi vengono in mente come fondamentali sono tanti e non so quale scegliere. 
Ma forse non c'è da preoccuparsi: ci saranno - almeno si spera - così tanti articoli e così tanti inizi che sarà sempre possibile cambiare strada. 
Questo non è un romanzo o una poesia o uno spettacolo teatrale, chiuso in se stesso, e ogni post avrà un suo inizio e un suo argomento. 
Forse, dato anche il nome del blog, l'argomento da cui si dovrebbe partire è "la lingua"... non quella che ci avete in bocca (e che diamine!), ma quella che si parla, che si scrive, quella con cui si comunica, anche non attraverso il parlare e lo scrivere, la lingua, ad esempio, del corpo. 
E proprio perché trovo che la lingua sia fondamentale, la prima cosa che mi piacerebbe capire è come diavolo si fa a mettere in questo blog, nel sistema che questo blog offre, la "è", verbo, in maiuscolo, senza dovere ricorrere all'apostrofo, come con le tastiere americane. Sarebbe importante, almeno per me. 
Ecco, l'americano. Non l'inglese, ma l'americano. Ho la sensazione da qualche giorno che dietro la domanda: "parli inglese?", si nasconda un fantastico inganno della comunicazione contemporanea: si dice "parlo inglese", ma in verità quello che parliamo non è la lingua di Shakespeare o di Wilde o, più modestamente, di Bennet, ma l'inglese della finanza globalizzata e, soprattutto, globalizzante. 
E fosse solo questo - che sarebbe già un bell'argomento, ma non nuovo, altri ne hanno meglio di me già parlato, ad esempio il filosofo Diego Fusaro, il primo che mi venga in mente di quelli che ho ascoltato - fosse solo questo sarebbe già molto ma comunque un dato non nuovo. Il pensiero di qualche giorno fa era: "diciamo inglese, ma non è l'inglese, è l'americano". 
Io detesto l'inglese, è una lingua con la quale non riesco in alcun modo a rapportarmi. Ho provato a studiarla, tanto e tanto, lezioni private, corsi di vario genere, ma senza alcun risultato positivo. La sola cosa di cui sono perfettamente consapevole è che questo "inglese" ti circonda talmente tanto che anche se non vuoi ne conosci un mare di parole. 
Una insegnante che mi dava lezione, una delle tante che ho tritato con la mia incapacità, mi disse molto semplicemente: "conosci un sacco di parole ma non sai come metterle in fila". Era dannatamente vero. Se mi sforzavo, qualche frase la azzeccavo pure, ma da lì a parlare, almeno in forma elementare, ce ne passava... 
Ora, però, quando noi pensiamo a "l'inglese", pensiamo a l'Inghilterra. E certo, l'Inghilterra è Paese della Finanza (a proposito, una volta, in treno, parlando con una signora che mi pareva mediamente colta, dissi che uno dei problemi del nostro mondo era la Finanza. La signora mi rispose che avevo pienamente ragione... e cominciò a prendersela con la Guardia di Finanza. Non potei far altro che tacere, e passare poi ad altro argomento). L'Inghilterra, il Regno Unito è Paese della Finanza. Ma è il Paese delle multinazionali che stanno maledettamente dominando la nostra vita? Il Paese che ci impone il suo stile di vita? Il Paese degli iPhone e dei PC, degli hamburger e del "diritto alla felicità", il Paese delle mille e una illusioni, del "c'è il libero mercato e la concorrenza, se vali arrivi"? Il Paese della illusione della meritocrazia? 
Francamente non mi pare. Mi pare invece che tale Nazione siano gli Stati Uniti, e che il "dominio" arrivi da lì. Ma resta in qualche modo mascherato, perché... perché: "parli inglese?". 
E' come se per un microscopico artifizio linguistico ci sfuggisse l'effettivo "nemico". 
La lingua è tutto, sono le radici, è la terra, è ciò che sei dentro, è il luogo dove sei nato, è il riconoscere te stesso nei primi suoni che hai sentito nella vita, quando hai "visto la luce", la lingua è la madre, come e al pari della terra, poiché lingua e terra sono la stessa cosa. Cosa accade, allora, quando il senso della Lingua si confonde in noi, dentro di noi? Quando le carte si confondono, quando non riconosciamo più né noi stessi né l'altro, quando la comunicazione si scompone, frammenta, distorce? Cosa potrà accadere in noi quando non solo cominciamo lentamente a perdere la "nostra madre terra", ma ne acquisiamo un altra che già nel suo assunto è ingannevole, quando crediamo di stare andando verso un mondo e invece, senza che nostra volontà sia compartecipe minimamente, ci ritroviamo in un altro? Quali frizioni si scatenano in noi, quali distorsioni, quali schizzofrenie possono mettersi in moto? E se questa distorsione ci è indotta, a chi giova e perché? 
Stiamo perdendo i nostri dialetti, li stiamo perdendo, anzi abbandonando come un cane sull'autostrada, e questo non per correre, nuovi, verso una unica lingua nazionale, che magari ci renda finalmente un unico popolo, ma verso un disturbo, verso una distorsione che non ci consentirà nemmeno di scoprirci vittime se non dopo un lungo, interminabile, faticoso percorso, una sorta di Matrix del quale sarà difficile individuare cause, origini e natura. 
Le parole, dice Barhes, sono una chimica impalpabile che ti entra dentro e, che tu lo voglia o no, ti modifica. Ci troveremo modificati, forse, molto improbabilmente, un giorno, e ne comprenderemo le ragioni. 
I dont want to speak english, it's a social, political and economics opposition! (e che si scriva così o no, non mi importa)