martedì 26 aprile 2016

EMMA BONINO NELLA PUBBLICITÀ DI "PIAZZA PULITA": LĖGGERE LE PAROLE TRA NOI LEGGĖRE

Buongiorno!
Buongiorno con un rapido pensiero.

Sono ultimamente affascinato dalla pubblicità della trasmissione di Corrado Formigli, "Piazza Pulita", nella quale si vede e ascolta una appassionata Emma Bonino che, con una assertività che dovrebbe escludere qualsivoglia dubbio, afferma: "Non vogliamo avere una politica che parta dalla realtà".
Madame Emma Bonino fa parte, è cosa nota al di là dei complottismi, di quella élite che da più di trent'anni ci propone, e propina, come unica possibilità di futuro, irreversibile e ineludibile, il SOGNO europeo.
Ad ascoltarla ci si chiede se costoro siano totalmente in malafede, o se cambino idea con la stessa facilità con la cui la cambiano i bambini che fanno i capricci, passando con levità da un desiderio all'altro, da un concetto all'altro.
Non so cosa frulli nella testa della Signora Bonino, ma ho qualche sospetto su cosa passi nel suo animo, e francamente trovo la frase assertiva dell'ex ministro irrimediabilmente imbarazzante e contraddittoria.
Accusare noi tutti, gli Italiani e i loro politici, assommati per una volta in uno schema unico come comunità di persone che insiste a vivere nelle illusioni, e che rifiuta il concetto di realtà, da parte di chi fa partire la propria visione politica da quello che quotidianamente è stato denominato come SOGNO, fa francamente ridere.
Il SOGNO europeo mostra ormai tutte le proprie crepe, frana irrimediabilmente da ogni lato, si contrappone alla realtà in tutta la sua inconsistenza e irrealizzabilità. Sta facendo eruttare, come dal fondo di un vulcano spento da secoli, tutto il peggior magma dei nazionalismi destrorsi, soffocando e uccidendo anche i nazionalismi sani (che ci sono, esistono, e sono rispettabili e di semplice buon senso), sta portando le varie comunità del continente a odiarsi (io stesso rilevo in me, negli ultimi anni, una insopportazione verso i tedeschi e i vari popoli "civili" del Nord Europa), si è passati dalle normali frontiere normalmente controllate ai fili spinati e ai muri, eppure, c'è qualcuno - chissà per quali motivi - che continua a propagandare come sola prospettiva quella della globalizzazione e degli Stati Uniti d'Europa.

La contraddizione, nelle parole di una signora delle élite, come Madame Bonino, è evidente: "Non vogliamo avere una politica che parta dalla REALTÀ". Evidente che sono loro che credono nel SOGNO a non volere una politica che parta dalla REALTÀ, poiché è chiaro anche agli europeisti che la REALTÀ dice altro e indica altro, e se si volesse davvero partire da essa, la politica da fare sarebbe tutt'altra.
A meno che...







A meno che, la visione di cui la signora Bonino è portatrice sia altra. Quella secondo cui è il SOGNO ad essere la realtà, e la REALTÀ ad essere l'illusione. In questo caso, non è il SOGNO a doversi modellare sulla REALTÀ, ma la REALTÀ a doversi piegare al SOGNO, non importa quanto questo costi in termini di sofferenze e vite umane.
E qui mi preoccupo!
Perché è evidente che una persona sana adatta il proprio sogno alla realtà, ma se qualcuno pretende di piegare la realtà al sogno... siamo di fronte alla psicopatologia. E non è casuale che lo dica in tv, che è realtà traslata, falsata, mediata, sfalsata, e la tv è l'anticamera del video game.
Viviamo in un enorme video game, e ci siamo abituati a confondere realtà e finzione, anzi ad acquisire la seconda al posto della prima.
Hai visto mai che qualcuno creda ancora che la Bonino, e i suoi sodali, abbiano ragione, che siamo noi a non volere una politica che parta dalla "REALTÀ"?

E ora... PUBBLICITÀ!

lunedì 18 aprile 2016

LA CIVILTÀ DELLA MERDA DEI CANI

Ci sarebbero tante cose da dire, ma non ve le dirò perché tanto so che non vi interessano. Se vi avessero interessato avreste fatto altre scelte. 
Ve ne dirò una sola.

Io sono nato in un tempo in cui i marciapiedi erano pieni di merde dei cani.
Io sono nato in un Paese in cui la merda del cane per la strada era  regola. 
Era quello strano Paese in cui, invece di raccogliere le merde dei cani dalla strada, si pensava a discutere di politica nelle sezioni, a comprare il giornale tutti i giorni, a scioperare perché ti volevano togliere un diritto o per conquistarne uno; oppure, invece di impiegare civilmente il tempo a raccogliere le merde dei cani per la strada, si “scioperava per solidarietà”: pensa, che i professori si preoccupavano se c’era lo sciopero degli autisti degli autobus, non perché “subivano un disagio” e “non veniva garantito il servizio essenziale”, ma perchè sapevano che se un torto veniva fatto a un lavoratore di una qualsiasi categoria, domani quello stesso torto poteva essere fatto a loro, alla loro categoria, al singolo professore. E lo stesso atteggiamento folle avevano gli autisti di autobus con i professori, o con gli impiegati del catasto.
Io sono nato in un Paese che si poteva e doveva definire incivile perché la gente invece di impiegare civilmente il tempo a raccogliere la merda dei cani per la strada, perdeva il tempo a combattere per i diritti del malato, e i malati stessi si davano allo sciopero della fame negli ospedali perché pretendavano pasti decenti; così incivile che si perdeva il tempo, invece che a raccogliere le merde dei cani per la strada, a fare i cortei, le occupazioni; dove invece che raccogliere la merda dei cani per la strada ci si picchiava per motivi politici.
Pensa che io sono nato in un Paese così incivile che invece di impiegare il tempo civilmente a raccogliere le merde dei cani per la strada, lo impiegava per andare a votare. Era una vera piaga: anche l’80% dei cittadini che si recavano alle urne, che preferivano mettere una croce su una scheda, piuttosto che chinarsi a raccogliere le merde dei cani per la strada. Pensa, ma pensa che follia!
Oggi sono finalmente in un Paese civile, e vedo tanta, tantissima gente china, culo all’aria, a raccogliere con le mani la merda dei loro cani.
E capisco finalmente che è vero: molto più civile chinarsi a raccogliere con le mani la merda dei propri cani che andare a mettere una croce su un pezzo di carta.
Grazie Signore, perché mi fai vivere in paese divenuto finalmente civile. 

  

venerdì 15 aprile 2016

L'INCONSCIO DEL TESTO

Se cercate sul dizionario la parola "Sottotesto" scoprirete che non c'è. 
Ho cercato su più vocabolari "cartacei" ed anche on line. Nulla!
Eppure, è forse la parola più usata in teatro. 

Il termine è spesso frainteso anche fra gli addetti ai lavori (teatrali). 
Molti, infatti, confondono il termine "sottotesto" con la più banale "parafrasi". 

Possiamo invece specificamente delineare il Sottotesto come tutto ciò che dal testo emerge, lievita per descriverci, delineare, disegnare, mostrarci l'effettivo sub-strato che lo sorregge e ne costituisce l'impalcatura, il modello portante, la struttura viva e pulsante che, seppure non rappresentabile, ne esplicita ragioni, valori, motivazioni. In altre parole, "il Senso". 

Una trama sottile e non lineare che salta da una parola all'altra, apparentemente in modo disordinato, che si nutre di rimandi e di disallineamenti, di allusioni e riodini, una pagina bianca costellata di puntini che una volta uniti mostrano una inaspettata figura proprio come nel gioco famoso della enigmistica. 

La lettura, dunque, non può essere storicistica, se non in minima parte, ed è tutta interna al testo. 
Esso vive in se stesso e per se stesso, e non ha bisogno di strumenti altri (se è un vero testo) per stare in piedi, in un dialogo sempre complesso ma rilevabile che viene ad instaurarsi quasi tra l'autore e il suo inconscio, spesso nella inconsapevolezza dello stesso autore, che non saprebbe dare spiegazione di tutte le immagini che ha sentito la necessità di porre sulla carta. 

Chi ha affrontato la psicoterapia sente delle vaghe somiglianze con la propria esperienza. E ha ragione. 
Poiché il processo di destrutturazione, e poi di ricostruzione, è nettamente simile a quello che il terapeuta compie sul e con il paziente, cogliendo egli, forte dei propri strumenti professionali, parole che appaiono insignificanti al paziente, passaggi minimi cui non si darebbe importanza, disegnando un quadro sistemico che il paziente ignora, essendovi dentro, e accompagnandolo alla presa di coscienza. Portare "l'inconscio" al "conscio".

In tal senso, invece della parola "Sottotesto", preferisco usare la definizione "Inconscio del Testo". 

Il Teatro, come tutta l'arte, è cosa, però, che "si fa" e non di cui "si parla". 
Quale sarà, dunque, l'aspetto interessante di tale procedimento? 
Per la parte registica certamente quella di comprendere ragioni che altrimenti resterebbero occulte e cercare così i motivi della propria costruzione scenica. 
Per l'attore fondamental-mente, quella della presa di coscienza del senso che è sotteso al testo, alla battuta, alla parola, alla espressione. 
Quasi mai sarà possibile restituire al pubblico il senso completo di ciò che si è compreso. Ma questo, anche se parrà strano, non ha alcuna importanza. Ciò che conta è che lo spettatore senta, sicura-mente, che la recitazione dell'attore e alla messa in scena del regista siano invase da una pienezza espressiva, che la parola che ascolta, il corpo che vede muoversi, siano colmi di un pensiero vivo, pur se non identificabile. 
Cercare di comunicare "l'inconscio del testo" può voler dire sconfinare nell' "intellettualismo". 
Intellettualismo e Teatro sono nemici. 

Ricordando Pirandello, "Sei personaggi in cerca d'autore": 
"Ma un fatto è come un sacco: vuoto non si regge. Perché si regga bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato".

GUERRE: FUGGIRE O ALLONTANARSI (e se fossero tutti migranti economici?)

Ieri mi sono fermato a chiacchierare con Egidio.
È proprietario, Egidio, un simpatico sessantenne, del piccolo supermercato di fronte la scuola dove sto lavorando. Ci vediamo praticamente tutti i giorni, assieme al figlio, la moglie, la figlia, e il rapporto è divenuto cordiale.
Così, capita che Egidio, o il figlio Tommaso, mi raccontino della difficoltà di gestione della loro attività e di tutti gli impicci burocratici che si frappongono tra loro e un sereno lavoro. Talvolta il discorso si allarga e si finisce, senza grandi pretese, alla macroeconomia (di cui Tommaso ho capito essere un vero appassionato), alla politica italiana o alla politica estera.

Ieri il discorso è caduto sui migranti, ed Egidio mi ha raccontato che suo nonno, durante la guerra, avendo anche una discreta posizione economica, prese la famiglia e la portò in Svizzera (dal Piemonte è un passo).
Il nonno tornò in Italia, in un primo momento solo per lavorare, poi per unirsi alla lotta partigiana.
Quando tutto fu finito, il nonno di Egidio andò in Svizzera, ariprese la famiglia e fecero tutti serenamente ritorno nel loro Paese. "Così si fa, secondo me - diceva Egidio - non che te ne vai e se la devono piangere gli altri, perché se tu te ne vai e altri non possono, vuol dire pure che tu puoi e altri no, e non è giusto".

Il ragionamento di Egidio era semplice e di buon senso, e con la semplicità e il buon senso, frutto di esperienze di vita, non si riesce a non essere d'accordo. Io, infatti, non lo sono (in disaccordo con lui), e il suo racconto pone tanti punti su cui dovremmo riflettere.

Per prima cosa la questione economica, che forse è determinante anche oggi per coloro che "fuggono" dalle guerre. Se infatti per quei terribili viaggi devi affrontare costi esorbitanti, è vero, come si dice, che vendi tutto, ma quel "tutto" lo devi pur avere. E chi ha pochissimo, chi non ha nulla, o chi anche vendendo non riuscirebbe a mettere insieme le cifre che servono, cosa può fare? È forse automaticamente discriminato perché povero e dovrà "schiattare" sotto le bombe?
Se la sig.a Merkel vuole solo i Siriani, perché già "alfabetizzati", un motivo abbiamo capito che c'era: quegli "alfabetizzati", infatti, abbiamo poi saputo essere per in maggioranza, ingegneri, avvocati... borghesi, insomma, che dunque oltre alla preparazione, avevano un minimo di possibilità monetaria per affrontare l'esodo. E un contadino, un operaio, uno spazzino? Dove sono rimasti costoro, dove sono, sono riusciti anche loro a fuggire? Può dunque esserci, in questo, un primo elemento tristemente classista. Come d'altronde - lo ammetteva lo stesso Egidio - era successo in Italia durante l'ultimo conflitto (fatto salvo quello che stiamo vivendo...), quando la Svizzera era la meta di coloro che potevano permetterselo. E anche di coloro che erano geograficamente ben posizionati. Difficilmente, è comprensibile, una famiglia di Bari o di Catanzaro poteva pensare di fuggire in Svizzera, problema, dunque, che si aggiungeva a problema. 

La mia opinione è che dalle guerre non si fugge, le guerre si combattono (anche noi, adesso, stiamo combattendo la nostra, sebbene in troppi non se ne rendano conto). E ci sono molti modi per combattere una guerra, non soltanto prendere un fucile in mano. Il primo punto è certamente l'opposizione ideologica, la non aderenza al regime. Combattevano i partigiani sui monti, ma anche coloro che facevano le staffette, ma pure coloro che in un qualche sperduto ufficio statale rallentavano l'iter di una pratica magari raccomandata da un gerarca... Ricordo un professore della Sapienza, un grande storico dell'arte, di cui, mi scuso, ora mi sfugge il nome, che raccontava che loro, giovanotti, per opposizione al fascismo avevano deciso di tacere tassativamente, anche tra loro, di qualsiasi conquista femminile avessero fatto. Nel regime "machista", quei ragazzi diciottenni, si opponevano così. 

Le guerre, dunque, si combattono, non se ne fugge. Se fuggi vuol dire solo che non ti importa della tua casa, della tua Patria, della tua terra, e per te un posto vale l'altro. Oggi abbandoni il tuo Paese, domani abbandonerai quello nuovo che ti ha accolto. Vogliamo dire che sei un apolide? Ma se sei apolide, oggi, sei il perfetto cittadino-consumatore desiderato dalla élite mondialista delle multinazionali, votato solo al "lavoro unico" sottopagato e schiavizzato, "consumo unico" globalizzato, "pensiero unico" senza confini. 
Se fuggi, dunque, non hai perso solo la guerra a "casa tua", ma quella in qualsiasi posto andrai perché non hai più nessun valore come cittadino. Ti sei donato come schiavo. 

Ma veniamo a noi e alla questione migranti. 
Li sentiamo dividere in "coloro che fuggono dalle guerre" e "migranti economici". Si tende a volere accogliere i primi e a pensare di respingere o selezionare o controllare i secondi. 
Solo che Egidio mi ha fatto riflettere. 

Ipotizziamo che tu non abbia il coraggio di combattere una guerra. Anche questa è cosa assolutamente lecita. Avere paura è un diritto sacrosanto dell'uomo. Soprattutto se hai moglie e figli e pensi di doverli proteggere. 
Ma la mia domanda è: nel momento in cui parti perché a casa tua c'è la guerra, pensi di tornare una volta che la guerra sia finita? 
Diciamo che la guerra dura sette anni. Io non voglio sapere cosa penserai alla fine dei sette anni. È possibile che tu, dopo un tempo così lungo, ti sia bene integrato, che i tuoi figli studino e abbiano un futuro sereno davanti a loro, e che tu abbia nel tempo deciso di rimanere. Questo, a mio vedere, è atteggiamento lecito e comprensibile, atteggiamento che io accolgo pienamente. 
Ma al momento di partire, cosa pensi? Parti pensando di tornare? 
Perché se parti pensando di tornare, non di "fuggire", ma di "allontanarti", come il nonno di Egidio, allora sei uno che fugge da una guerra; ma se pensi solo di spostarti, di trasferirti perché a casa tua c'è la guerra, allora, mi spiace dirtelo, sei un migrante economico come tutti gli altri. E i migranti economici sono "esercito di riserva del capitale", e come tali non possono condividere le mie stesse battaglie per i diritti sociali e per la democrazia. 

A noi, italiani o europei, la democrazia c'è costata lotte e sangue, i diritti ci sono costati lotte e sangue, se non pensi di lottare per democrazia e diritti a casa tua, potrai un domani pensare di lottare per democrazia e diritti nella tua nuova casa?
È quello che io chiamo "il tuo trasferimento", non "la tua fuga" a darmi la risposta, e allora non so se sono disposto a condividere con te la mia terra. Perché se, come adesso, si deve combattere per preservare diritti e democrazia, tu starai già dalla parte di un qualsiasi padrona che ti mette una elemosina in mano. 
Non sei mio compagno, sei concorrente nella spartizione della fame che il padrone cerca di imporci. 

martedì 12 aprile 2016

L'ILLUSIONE NEL CINEMA AMERICANO

"Ci avete fatto caso?". Il buon Aldo Fabrizi cominciava quasi sempre così i suoi monologhi di satira del tempo in cui faceva l'avanspettacolo in quella Roma della guerra.
Ebbene, facevo caso, negli ultimi tempi, che il cinema americano, quello di maggiore fruibilità, ha pesantemente intrapreso il percorso del "complottismo". Decine di film in cui protagonista non occulta è la CIA, o l'FBI, nei quali si dipanano misteriosi intrighi, si correlano pesantemente "poteri forti", influenza della finanza, guerra, vendita di armi, sangue sui diamanti, spaccio di droga a livelli planetari, senatori super corrotti, avvocati venduti, spie senza scrupoli e chi più ne ha più ne metta.
I riferimenti al quotidiano, al mondo che ci circonda e sovrasta sono frequenti quanto il sale nell'acqua per la pasta.
Rivedevo, qualche giorno fa quel bel film che si intitola "Network", per noi italiani "Quinto potere". Già lì si parlava, e siamo nel 1976, di arabi che si comprano mezza Inghilterra e centri nevralgici dell'economia statunitense. Da allora fino ai giorni nostri centinaia di pellicole che parlano e mostrano complotti su complotti.
Che il cinema americano abbia sempre avuto una vocazione complottista? Non credo.
Credo, invece, ci sia un altro problema e sopra tutto un altra finalità.



Arrivati ai nostri giorni, dove tanto apertamente si parla di complotti e complottisti, di strane trame e di interessi celati dietro una miriade di operazioni politiche e non, la gente sia ancora lì a guardare il cinema americano, eppure non riesca a... unire i puntini.
Ci si aspetterebbe che, viste tutte queste storie, qualche dubbio, nel mondo reale ci venga, che ogni tanto ci si chieda se magari per quel dato accadimento non ci sia una diversa spiegazione e non si possa ritrovare un interesse occulto. Eppure tantissime persone, fruitori abituali di quel cinema, non prendono in considerazione, nel quotidiano, certe possibilità. E se lo fanno, avviene con quell'aria di rassegnata sufficienza che già dice che è così e non c'è nulla da fare.
Da fare c'è sempre qualcosa.
Ma lasciando "il fare" per ora da parte, mi domando come questo sia possibile.

È possibile, a mio vedere, perché il cinema americano è sempre, costantemente, implacabilmente rassicurante. Voglio dire che: ti posso mostrare le cose più feroci, l'intrigo più perverso e assurdo, violento e schifoso, ma alla fine, fateci caso... la Giustizia trionfa sempre.
Il buono vince sempre, e se non vince, il cattivo, comunque, subisce una punizione. Che sia morte accidentale, arresto, sparizione, suicidio, che sia il pubblico ludibrio o anche il solo svergognamento in privato... la Giustizia arriva sempre.

Il dramma, l'ansia che ci può cogliere, la sfiducia o la speranza, sono sempre, alla fine, cancellati con un possente colpo di spugna, a volte equilibrato, a volte esagerato anche, ma sempre liberatorio.
Il "lieto fine", insomma, tipico della commedia, è stato rigirato e subdolamente innestato anche nel versante drammatico, rendendo - e qui è l'aspetto interessante - il cinema americano palesemente funzionale al sistema di quel Paese.


Ci pare, da qui, così bella l'Ammmerika, terra di libertà e di opportunità, di spazi ampi e respiro largo, la terra dove "chi vuole può". La cronaca ci racconta chiaramente che non è così.
Ma noi, paradossalmente, non crediamo alla cronaca, e crediamo ai film. Perché la cronaca colpisce la nostra intelligenza e/o i nostri sentimenti. Il film colpisce il nostro inconscio, lo scuote e lo risistema, lo spettina e ri-pettina.
E in fin di tutto, quello che ci resta è la sensazione di quieta, la sensazione che l'eroe non solo esiste, ma vince, e sopra tutto porta Giustizia.

Giustizia. Lo scrivo con la maiuscola appositamente. Perché la giustizia della realtà ci appare piccola e piena di falle, a volte ingiusta, spesso debole, incapace il più delle volte di soddisfare il nostro bisogno interiore.
Quella del film americano è una Giustizia, grande, implacabile, che arriva sempre puntuale e soddisfa ogni nostro bisogno, la nostra sete.

Noi siamo decisamente più disincantati, il nostro cinema, quello europeo intendo, racconta di amare verità spesso e volentieri, mostra finali irrisolti, porge amarezze, mostra la vita nel suo essere dura e acre.
Il mito americano, il mito di un popolo giovane, troppo giovane praticamente bambino rispetto a noi, anzi neonato, continua ad alimentarsi di lieti fini, e a propagandare il sogno americano. Le eccezioni sono talmente poche da mostrarsi irrilevanti. E il sogno, quando ci si cala nella realtà è palesemente un incubo.

lunedì 11 aprile 2016

CONFINI AUSTRIACI: ASSALTO ALLA DIVERSITA'

La notizia che qui trovate, degli scontri tra un gruppo nutrito di giovani e la polizia austriaca per la decisione di quel Paese - fino a prova contraria ancor sovrano - di chiudere la frontiera onde impedire il passaggio di migranti.
Tutti i quotidiani che ho potuto scorrere parlano di "attivisti dei centri sociali", i giornali più "destrorsi" lo sparano nel titolo, gli altri molto semplicemente lo scrivono nel pezzo.
Non mi interessa parlar male o bene dei centri sociali. Il fatto mi incuriosisce per un altro motivo.

L'Austria, dicevo, è fino a prova contraria un Paese sovrano. Si potrebbe disquisire sul fatto che aderendo essa alla UE la sovranità se l'è praticamente giocata, ma francamente lascerei perdere e starei su quello che ancora oggi i documenti ufficiali ci dicono: l'Austri è un Paese sovrano.

A casa mia, quando qualcuno di noi si alza la notte per andare in bagno, usiamo azionare lo scarico anche se questo può disturbare il sonno di qualcuno della famiglia. Nel tempo, tutti ci siamo abituati e nessuno ci fa caso.
So che in case di amici, in altre famiglie, si è scelto di usare un sistema diverso: quando la casa dorme lo scarico non lo usiamo (salvo situazioni "gravi") e il primo che arriva in bagno la mattina, scarica per tutti.
Sono scelte, sono solo scelte di convivenza concordate tra i membri della famiglia.
Chi avrà ragione? Chi è nel giusto? La mia famiglia o quella di qualche amico?
Non lo so. Non giudico. penso solo che io a casa mia preferisco fare come faccio, gli altri hanno pieno diritto di organizzarsi come credono.

Che c'entra il cesso notturno con l'Austria?
I ragazzi dei social avranno immediatamente spiritosi pensieri. Io penso che c'entri per il semplicissimo fatto che tutti troviamo normale che a casa propria ognuno si organizzi come meglio crede. Se questo non crea reale danno agli altri, ai vicini, al condominio, al quartiere, ognuno si organizza come meglio crede. E tutti lo troviamo normale e giusto.

L'Austria ha deciso di chiudere le sue frontiere e non far passare i migranti.
Il nostro giudizio morale può essere pessimo. Ma questo ci autorizza a manifestare in maniera così forte da arrivare allo scontro con la polizia di un altro Paese? A lanciare lacrimogeni e sassi, che per forza di cose arrivano in quell'altro Paese?
Decisamente penso di NO. Penso che l'Austria - ci piaccia o no - come Paese Sovrano ha il diritto di decidere a casa propria come organizzarsi.

Ma questo è ancora ancora un problema limitato. Il problema vero, grande, inquietante per me, è quello che c'è dietro quel che è accaduto.
Nessun complottismo, solo una osservazione collegando dei fatti apparentemente lontani: sapete tutti della vicenda dei due giornalisti italiani Nuzzi e Fittipaldi che sono sotto inchiesta nella Città del Vaticano (uno Stato sovrano, per chi lo avesse dimenticato), a causa delle loro pubblicazioni.
C'è in giro molta - comprensibile - indignazione. La stampa deve essere libera e deve poter fare il proprio lavoro assumendosene onori ed oneri. Siamo d'accordo.
Solo che... solo che spesso, anzi quasi sempre, nelle perorazioni - per me giuste - a favore dei due giornalisti, ci si dimentica che quello.... è uno Stato sovrano! Che ha altre leggi, altre regole, che possono piacerci o non piacerci, ma sono le loro.
Insistere col dire che questa è una ingiustizia, che è vergognoso mettere sotto accusa due giornalisti perché hanno fatto il loro lavoro, ecc. è vedere il problema solo dal nostro punto di vista, e non considerare quel fatto semplice semplice: la Città del Vaticano ne ha un altro.

Da questi due accadimenti (ed in realtà anche da molti altri), mi sorge una infinita tristezza: non per l'atteggiamento dell'Austria e/o della Citta del Vaticano, ma perché mi pare evidente che siamo, noi, invasi da un pensiero unico, da una morale unica, da un etica unica, che non solo ci ha invaso, ma che noi, strenuamente vogliamo, secondo me inconsciamente, imporre agli altri, giudicando chi non aderisce a questo nostro pensiero come incivile, inferiore, deficitario, fuori dal mondo, fascista, nemico, assassino, criminale ecc. ecc. ecc. Gli aggettivi si sprecano.
Ci siamo convinti, o ci hanno convinto, che l'unica morale valida è la nostra, che la civiltà è solo la nostra, e chi non la pensa o agisce come noi, chi non è nel nostro cerchio di pensiero è uno che fa male. Punto.

È veramente paradossale che chi dice di battersi per i diritti e la libertà di tutti e per tutti, non consideri che altri possono interpretare questi principi in modo diverso, o che possano non condividerli o non accettare i nostri. Farlo dovrebbe essere cardine della lotta. Considerare che uno la pensa e/o si organizza diversamente da te dovrebbe essere il fulcro di questo pensiero libero, questa diversità, cui sempre tanto si inneggia come valore, viene poi miseramente ad essere annullata quando qualcuno non la pensa come noi.

L'Austria, in questo caso, decide che non vuole persone che passino dai suoi confini: è un Paese in cui sappiamo esserci una dittatura sanguinaria e criminale? La riconosciamo come una democratica al pari della nostra?
Se la risposta è Sì, allora il suo diritto a decidere come e cosa fare a casa propria, in nome di quella libertà di pensiero che vogliamo garantire a tutti, va difeso e non attaccato. Che ci piacciano o no le loro decisioni.

Altrimenti siamo al pensiero unico.
E se sopprimiamo la diversità, sopprimiamo il dissenso.
I ragazzi dei centri sociali, paradossalmente, hanno assaltato loro stessi, la loro stessa ragione di essere.

martedì 5 aprile 2016

SALEMME E LA RISATA COME OPPOSIZIONE POLITICA

Sabato sera sono stato al Teatro Alfieri di Torino a vedere lo spettacolo di Vincenzo Salemme. Ma che dico “a vedere”, a godere dello spettacolo dell’attore e drammaturgo napoletano: sala stracolma, risate e applausi a profusione, commozione finale. Per un teatrante come me, un vero piacere dell’anima.
Vincenzo Salemme
“Sogni e bisogni”, scritto, diretto e interpretato da Salemme, insieme ad una compagnia di bravi attori – tra i quali Nicola Acunzo, Domenico Aria, Sergio D'Auria, Susy Del Giudice, Antonio Guerriero – è decisamente una simpatica storia.
Il richiamo a “Io e Lui” di Alberto è abbastanza facile, si tratta, infatti, della irruzione nella vita di un uomo del proprio pène, che staccatosi dal “proprietario” si ribella a una situazione personale, familiare, sessuale di degrado morale e fisico. Un pène, insomma, che protesta per la propria umiliante inattività e per lo spegnimento, nell’animo del suo padrone, di qualsivoglia desiderio.
Da tale paradossale assunto, nascono, è facile comprenderlo, una serie di comiche situazioni che spingono il “proprietario” a rivedere tutta la propria esistenza, situazioni condotte non solo con la forza dirompente della commedia comica di grande tradizione napoletana, ma con un gusto che incanta. Non ostante la “scabrosità” dell’argomento, mai una volgarità, basti segnalare che al Lui, con spiritosissima levità è dato il nome di “Tronchetto della felicità” .

Non ho mai scritto una recensione teatrale in vita mia, e non comincerò ora. Mi è sempre parso come un conclamato “conflitto di interessi” (ognuno ha i propri!), e concluso questo breve tratto necessario per farvi comprendere di cosa sto parlando, passo al vero motivo di riflessione suscitatomi dalla visione dello spettacolo di Salemme.

Lo spettacolo si conclude con un monologo del protagonista, malinconico, dolente, triste, nel quale egli espone i motivi di una paura collettiva che è ormai dentro di noi e che noi consapevolmente o no trasmettiamo e insegnamo ai nostri figli. È il misero segno dei tempi, tempi che corrono in modo così veloce che chiunque voglia porsi il compito di essere un buon padre non riesce comunque a stargli dietro. Qualcosa è, in noi e attorno a noi, che ci conduce su una strada di sconfitta e tristezza. E noi siamo spaesati, senza più punti di riferimento, superati nel nostro stesso essere uomini da un qualcosa che resta oscuro e che sentiamo sulle nostre stesse spalle. Ne sentiamo il peso e non lo vediamo, non lo conosciamo.
Un pezzo bello, intenso, scritto quasi tutto in versi come un amaro canto dell’anima.

Due stagioni fa ero scritturato con Sebastiano Lo Monaco per un delizioso (scusate l’auto incensamento) “Non è vero... ma ci credo” di Peppino De Filippo, con la regia di Michele Mirabella, e la partecipazione di Lelia Mangano De Filippo, e altri bravi compagni di lavoro. Anche lì teatri pieni e gente che rideva e rideva con sublime piacere.

Liguori e Lo Monaco in "Non è vero... ma ci credo"
È bello, bellissimo sentir ridere la gente, ve lo assicuro, ti dà la netta sensazione, immediata, concreta, che stai davvero donando qualcosa. Il Dramma, la Tragedia hanno altri piaceri, a volte anche più intensi, profondi, forse “a scoppio ritardato”, ma certamente diversi.
Comunque sia, sentir ridere è bellissimo.
E ridere è bellissimo. Ridere – è ormai comprovato – fa bene, fa bene alla nostra salute. C’è addirittura una branca dello yoga, ne parlai qui denominata lo “Yoga del sorriso”, che insegna proprio questo, a usare il riso per migliorare la nostra condizione fisica e mentale.
La sensazione è quindi quella che stai somministrando una benefica medicina.

Ecco, lo intuii durante quelle repliche di “Non è vero... ma ci credo”, e sabato sera da Salemme ne ho avuto netta conferma: in questi tempi grigi, tristi, talvolta decisa-mente noiosi, in questi tempi dove si ha la netta sensazione che “il Potere” ci voglia tristi e impauriti, che qualcosa e qualcuno ci governino attraverso l’instillazione di una paura continuata e diffusa, far ridere la gente diviene un piccolo ma significativo atto sovversivo, la dichiarazione possente, da parte del pubblico, di un “noi non abbiamo paura, noi ridiamo, di noi, di voi e di tutto”!

Bello, vero? Bellissmo.
Ma... c’è un piccolo ma fondamentale “ma”.

Non basta il “far ridere”, in questi tempi di degrado diviene fondamentale il come si fa ridere.
Il livello delle professionalità, l’ho raccontato altre volte, si sta maledettamente abbassando, il libero mercato non esalta le professionalità, le abbassa sempre più, poiché la chiave determinante è “il costo”, e di ribasso in ribasso si corre sempre più velocemente verso la vittoria del teatro amatoriale sul teatro d’arte e professionale.
I meccanismi del teatro comico sono antichi e difficili, vanno appresi, frequentati, rigenerati in noi continuamente, passati di mano in mano come un artigianato antico che conosce solo il passaggio attraverso l’oralità e la pratica. Affondano le loro radici in schemi e stilemi, in moduli operativi perfezionati e consolidati dal tempo e dalla pratica di centinaia di bravi attori che hanno frequentato il genere prima di noi.
È un “mestiere”, una forza che si rigenera di volta in volta e che nessuno può improvvisare, e che spesso nemmeno la formazione accademica ti consegna. Io stesso, che faccio questo lavoro da quasi 35 anni, ho appreso extra accademia quelle tecniche, stando accanto a mostri sacri come Carlo Giuffrè, Regina Bianchi, Antonio Casagrande, e a bravi attori di grande mestiere come Sergio Solli o Antonella Morea. Eppure, sento chiaramente, c’è ancora tanto da apprendere.
Chiesi una volta a Giuffrè, quasi indispettito perché non riuscivo a capire, a schematizzare, a intellettualizzare: “Maestro, mi spieghi per favore, come fate voi (tra napoletani ci si dà del Voi) a dire con tanta sicurezza: se fai così viene la risata, se fai così viene la risata e l’applauso?”. Era un mistero, una tecnica che volevo, volevo apprendere. Giuffrè sorrise, e mi seppe solo dire: “Eh... è una cosa che... non so spiegartelo... Tu hai fatto poco teatro comico, è vero? È una cosa che si impara... facendolo, non te lo so dire. Un istinto che si impara...”. 

"L'intelletto" andava messo da parte, e  in quel “non te lo so dire, si impara sul campo”, c’è tutta la professionalità del far ridere.
Non basta uno Zelig, o un Made in Sud, la becera velocità di quattro battute del tritacarne televisivo, ci vuole un mestiere che non si improvvisa, e che incontrovertibilmente si apprende da quelli più grandi di noi.

Far ridere i compagni di scuola con l’imitazione dei professori non è far ridere da attori, è far ridere da dilettanti. E il mio vecchio maestro, Mario Ferrero, ripeteva sempre che diffidava degli attori che facevano le imitazioni. Allora non capivo, oggi sì.

In quelle risate allo spettacolo di Salemme c’era una doppia opposizione al potere: quella che ci vuole tutti impauriti, ma pure quella che si oppone al degrado della nostra professione.