venerdì 22 maggio 2015

La strategia del PD: lasciare che De Luca vada a sbattere.


L’ormai nota imitazione, teatralmente efficace, ottima, centrata, del candidato alla presidenza della regione Campania del PD, Vincenzo De Luca, proposta da Maurizio Crozza, ha fatto lievitare il dibattito sulla questione “impresentabili” e amplificato, non certo in bene, la visibilità del Primo cittadino di Salerno. 
Soprattutto si sono moltiplicate le domande su come il partito formalmente erede della questione morale possa sopravvivere a tanto “imbarazzo”.
Una risposta possiamo darcela se riguardiamo i rapporti passati tra PD e De Luca. Che è passato dal sostegno a un candidato segretario all’altro, ha lanciato critiche feroci al suo stesso partito, sia a livello nazionale che locale, ha creato non pochi problemi quando era sottosegretario, condanna, processi in corso... Insomma, Vincenzo De Luca, per Partito Democratico è fondamentalmente un problema.
E allora?
Allora la mia ipotesi è questa: il PD rischia, e rischia a ragion veduta.
Se De Luca dovesse essere eletto, al grido di “lo ha scelto la gente” la vittoria entrerà nel carniere di un Renzi, che certo non appare uomo dai grandi scrupoli morali; a quel punto: per la poltrona di presidente, che De Luca se la veda con il TAR, per gli “impresentabili”, la colpa sarà del popolo che li ha votati.
Se dovesse perdere, il partito si sarà tolto una volta per sempre il problema De Luca dal groppone. E sì, perché ricordiamoci che De Luca è la seconda volta che tenta la via della Regione, e sempre contro lo stesso principale avversario, Stefano Caldoro. Dati dunque tutti i precedenti, data la consecutiva disfatta, il nostro potrà più pretendere nulla.
La sconfitta è lo scenario più probabile, e senza volere addentrarci in complottismi da Patto del Nazareno, il PD lo sa e lascia strategicamente che Vincenzo De Luca vada a sbattere.
È politica, niente altro che politica, niente di cui meravigliarsi, visione a lungo termine, giocare una carta oggi per un risultato nel domani.
Tifo per nessuno. Mi chiedo solo, mestamente, quando la Politica riprenderà questa sua capacità di guardare lontano in funzione del bene dei cittadini. Perchè questa capacità pare, invece, averla completamente persa. 
   

lunedì 18 maggio 2015

È gratis? Va bene!


Dopo il lavoro, passare al bar prima di tornare a casa. È abitudine comune.
Gli attori lo fanno prima di andare al lavoro. Un caffè o un toast, qualcuno un prosecchino per tirarsi su.
Dunque: Milano, seduti al bar di fianco al teatro aspettando di entrare al lavoro.
Tutti consumano, la cameriera chiede anche a me, arrivato da poco, se voglio qualcosa.
In verità mi va nulla, tranne un semplice bicchiere d’acqua.
“Sì, ecco: mi porti, per favore, un bicchiere d’acqua. Ma, per cortesia, non dalla bottiglia, dal rubinetto. Mi raccomando, dal rubinetto, niente bottiglie. È questione di temperatura. Preferisco”.
“Va bene.”, rispose proprio così: “Va bene”! Invece andò bene per nulla!
Arriva un bel bicchierone colmo, poggio le labbra. Fermo subito la signorina: “Scusi, questa non è acqua del rubinetto”. Che ci posso fare, io sono così, me ne accorgo...
“Ah, sa, noi l’acqua del rubinetto non la diamo... non sappiamo che acqua è...”
“Scusi, come sarebbe non sapete che acqua è? È potabile, è quella del comune, è l’acqua con cui lavate i bicchieri, i piatti... che vuol dire non so che acqua è? E poi, bastava dirmelo.”, mi guardò senza sapere cosa rispondere.
Le allungai il bicchiere: “Grazie, non lo voglio”. Se lo riportà indietro.
I colleghi, sopra tutto quelli giovani, mi guardarono perplessi.
Una disse: “Ma scusa, che ti importa, tanto mica la paghi”.
Ancora più perplesso la guardai io: “Che significa? Allora se vai al ristorante e chiedi un riso in bianco perché stai male con lo stomaco, e quello ci mette su il sugo di pomodoro, siccome non lo paghi, siccome il prezzo è lo stesso, tu lo mangi? E poi: io ti ho chiesto una cosa specifica, tu mi hai detto “va bene”, perché poi fai come ti pare?”.
Nessuno seppe cosa rispondere, si passò ad altro.
Logica dei nostri tempi: il cliente a parole è uno che ha sempre ragione, ma in verità è solo uno da prendere per i fondelli, deve essere per questo che la politica ci ha trasformati da cittadini in clienti/consumatori; l’elemento economico è la discriminante, su tutto: è gratis? E allora comunque va bene.
A proposito, cara collega: ieri uno strano figuro mi ha regalato 1 milione di euro. Dice: “Fanne quello che vuoi, spendili...”. Un tempo si chiamava riciclaggio, oggi come lo chiamiamo? Non importa, tanto è gratis. 

giovedì 14 maggio 2015

L’agire dell’attore sulla scena è riflesso di una intera società.



     Scrive Mejerchol'd (Vsevolod Ėmil'evič): “Il teatro non è illustrazione, ma un'arte a sé stante, dotata di leggi valide unicamente al suo interno, e richiede una specifica maestria.
Quante “Madonna con Bambino” sono state dipinte da quando sulla terra è apparso il Cristianesimo? Un numero incalcolabile. E come sempre accade, qualcuna continuiamo a guardarla, ammirarla, a lasciarcene emozionare, qualcun altra no.
Migliaia, poi, sono letteralmente finite nel dimenticatoio.
Il contenuto è sempre lo stesso.
Se dunque valesse il contenuto, dovremmo guardarle tutte.
Se non lo facciamo è, evidentemente, perché il contenuto vale molto meno di quel che pensiamo, o che siamo stati indotti a pensare.
Edipo, Re Lear, Tartufo, Sei personaggi, Tre sorelle... quante edizioni abbiamo visto passare sui palcoscenici? Centinaia e centinaia.
Una volta, in un incontro all’Accademia d’Arte Drammatica S. D’Amico, alla domanda: “Perché quest’anno lei ha voluto fare Edipo?”, Gabriele Lavia rispose: “Innanzi tutto perché un attore che non vuol fare Edipo non è un attore. E poi perché ci sono una serie di fatti miei...”.
Giustissimo per due motivi: un attore, per definirsi tale, deve avere un ego smisurato, e dunque deve desiderare di fare il protagonista. Poi, se riuscirà a farlo è altro discorso, legato a migliaia di fattori che vengono inevitabilmente a innestarsi: avere o non avere il talento giusto, circostanze fortunose, l’età o il fisico, ecc. ecc.
Ma fatto salvo tutto ciò deve restare limpido il suo desiderio di volervlo fare, pur nella coscienza, magari, che mai ci riuscirà.
E poi perché ognuno deve volere “disegnare il suo quadro”, in quel momento e in quel solo atto performativo. Proprio perché, come dice  Mejerchol'd, l’arte teatrale ha suoi canoni esclusivi.
Questo breve ragionamento per dire cosa?
Che forse dovremmo concretamente e costruittivamente cominciare a considerare l’ipotesi, che pure noi spettatori ogni volta che torniamo a teatro per vedere una storia che già ben conosciamo, prendi ad esempio, Edipo, o Amleto, lo facciamo non tanto per sapere “come va a finire, chi vive e chi muore”, ma per ammirare, per lasciarci sorprendere, affascinare, dall’arte di un attore. Arte che si esplicità solo attraverso i suoi canoni intrinseci, e solo in quello specifico momento in cui noi lo guardiamo.
L’arte dell’attore, l’arte del recitare, viene, alla fin fine, prima di tutto.
Ecco perché ci lasciamo prendere da una farsa, piuttosto che da una tragedia, piuttosto che da una commedia o dramma o da una “orazione civile” (come usa oggi... una volta si sarebbe detto semplicemente “monologo”), perché il primo e ultimo elemento che osserviamo e dal quale vogliamo lasciarci prendere è l’arte dell’attore.
So cosa sta pensando qualcuno di voi, miei pochi e affezionati lettori: “Con questo ragionamento è giusto che qualcuno si metta, allora, a leggere, come si dice, l’elenco del telefono”.
Paradossalmente sì, ma cosa è il paradosso se non che una spinta estrema per costringerci a guardare lì dove non riusciamo, magari molto ma molto vicino a noi?
La riprova di questo mio credere me la fornisce, ancor più evidentemente della Prosa, la Lirica: puoi fare la regia più bella del mondo, ma se i cantanti cantano male, il pubblico uscendo non parlerà certo del tuo splendido allestimento... e men che meno della storia di Violetta che tanto conosce a mena dito.
Uscendo da una commedia nuova, il pubblico, se soddisfatto dalla recitazione tenderà a parlare un po’ del contenuto, un po’ della prova degli attori; al contrario, con una cattiva recitazione, si dimenticherà anche del contenuto... o magari dirà: “La commedia sarebbe anche interessante ma...”.
Il teatro è l’attore, null’altro. E l’atto meditativo che sempre ne nasce, quando è buon teatro, apparentemente, per quel che le nostre parole possono riprodurre, si posa sui temi trattati; ma detti temi, sono già, sempre, insiti nell’azione recitativa, che non cogliamo se non nel subconscio, se non a livello subliminale, se non che a un livello altro dal quale le parole restano escluse. Quel livello è il livello rimandatoci dall’azione dell’attore.
L’agire dell’attore sulla scena è riflesso di una intera società.
Deve essere per questo che in giro c’è così tanta cattiva recitazione.  

martedì 12 maggio 2015

"Durante la guerra non mi mancava il mangiare, adesso mi manca il mangiare"


        Anni fa feci uno spettacolo traendolo dai Saggi danteschi di Borges e da altri scritti del poeta argentino. Una gran fatica, ovviamente, imparare tutto a memoria con il tipo di precisione che piace a me.
Poi, come sempre succede quando le repliche finiscono, tutto è andato nel dimenticatoio o in un qualche angolo remoto della mia memoria che non vuole più essere disturbato, al punto che quando oggi, raramente, mi chiedono di rifare quel monologo, lo sforzo per rimettere insieme i pezzi è quasi peggiore di quella prima memorizzazione.
Tutto è andato nel dimenticatoio – o nell’oblio, come amerebbe dire Borges – tranne un passaggio che curiosamente resta sempre con me: “Il caso (ma forse non esiste il caso, a meno che quello che chiamiamo caso non sia la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità) mi fece incontrare tre piccoli volumi nella Libreria Mitchell, oggi scomparsa, e che mi evoca tanti ricordi. Quei tre volumi (avrei dovuto portarne uno come talismano, oggi) erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da Carlyle (non Thomas Carlyle, di cui parlerò più tardi).”
Stamane, h 8,20 circa, dopo avere seguito una rassegna stampa, ho deciso di fare una cosa che, pur essendo io anche un giornalista, ormai faccio molto raramente: scendere a comprare il giornale, per l’esattezza Libero – che per me, uomo non certo di destra e da un po’ di anni poco atletico, è come fare un doppio salto mortale – dove c’erano due articoli che mi interessavano, uno nel quale si spiegava questa curiosa (eufemismo!) storia del numero dei nuovi contratti di lavoro dall’inizio dell’anno calcolato dall’INPS del sig. Tito Boeri; l’altro del prof. Paolo Savona.
Ne approfitto per andare anche a comprare le sigarette.
Realizzo ora, mentre scrivo che, uscito dal portone, per andare dal giornalaio devo svoltare a destra, per il tabaccaio a sinistra, e sempre qui, ora, mi ricordo che Borges in quegli stessi saggi, quando racconta del viaggio di Ulisse dice che “a sinistra, sul lato sinistro, nella Commedia significa il male: per scendere all’Inferno si va a sinistra, per salire sul Purgatorio si va a destra.”. Passate le colonne d’Ercole, Ulisse vira a sinistra, con tutto quello che ne conseguirà.
No, non sto associando il male alle sigarette, come sarebbe ovvio e giusto, ma al fatto che dovevo cambiare venti leuri, e per non sentire il giornalaio rifarmi simpaticamente la tiritera di quando compro la Settimana Enigmistica - unico sfizio cartaceo settimanale rimastomi, a meno che non decida di comprare il Blocco Enigmistico, così, invece di € 1,50 alla settimana, ci metto su solo € 1,80 al mese... - la tiritera del “venite tutti con i pezzi grossi di prima mattina, passate prima a prendere il caffè”, decido di svoltare a sinistra e andare prima dal tabaccaio.
Povero il mio giornalaio! Lui non sa che io il caffè nei bar non lo bevo quasi più, perché fondamentalmente mi fa incazzare dovere regalare tra gli ottanta centesimi e l’euro per un caffè che nel 95% dei casi fa schifo, mentre confesso di non avere problemi a lasciare ben € 1,10 ad una panetteria-bar del centro di Torino che ha una miscela particolare e fa un caffè buonissimo. Perché come ho imparato da un tal prof. Bagnai Alberto, la competizione non si fa sul prezzo, ma sul rapporto qualità/prezzo.
Io lo so che l’editoria è in forte crisi. Dei giornali e dei giornalisti, data tutta la propaganda falsa e distruttiva, data la menzogna troppo spesso sistematica e sistematizzata, me ne frega francamente poco: che paghino per le loro colpe. Ma per il povero giornalaio, che è pure simpatico, mi spiace, mi spiace dover fargli sommare rabbia (quella quotidiana perché non vende, fondamentalmente i quotidiani...) al dispetto di presentarmi lì con un “pezzo grande” per una spesa di poco più di un euro. E così, prima destinazione “tabaccaio!”, esco dal portone e svolto a sinistra.
Ahi, Ulisse! Mal me ne incolse.
All’angolo del palazzo, con la coda dell’occhio vedo due anziani signori, un uomo e una donna che chiacchierano. Non presto molta attenzione, li supero, ma la voce della donna mi raggiunge implacabile, chiara come a volte anche fastidiosamente lo sono le voci dei torinesi, sempre “lanciate”, sempre, frutto forse della pronuncia di derivazione francese che inconsepevolmente le spinge, acute, a superare il palato molle, e le parole sono nettissime: “Durante la guerra non mi mancava il mangiare, adesso mi manca il mangiare!”.
Quelle parole che da lei fuor porte, mi fermano. Mi giro, la guardo. È una signora compita, modesta, nella quale si legge grande dignità, che dice il suo pensiero, non con tristezza, o ricercando pietà, ma con un senso profondo di sbalordimento, di incomprensione verso quello che le sta succedendo. L’uomo di fronte a lei la guarda, in silenzio. Si capisce che non sa cosa rispondere...
Vorrei avvicinarmi, parlarle, ma vado via. Sento chiaramente che da un lato me ne manca il coraggio, dall’altro non saprei cosa dirle, da un altro ancora sono preso dalle mie commissioni, perché devo andare al lavoro, rapito anche io dalla trappola che “io forse mi salverò” e abdicando così in un solo momento al mio pensiero guida di questi tempi, quello che predico, ma che poi, mi rendo conto, al momento opportuno anche io non so mettere in pratica: “Nessuno si salva da solo”. E tradendo inoltre – lo realizzo ora – anche quel cristiano spirito di cui dico di essere portatore, ché forse una sola parola di conforto le sarebbe bastata. Non l’ho fatto, la vita – ma solo la mia – era più urgente.
Un senso profondo di fastidio, di irrequietudine mi accompagna da stamattina e quelle parole di una donna che poteva essere mia madre, non mi escono dalla mente: “Durante la guerra non mi mancava il mangiare, adesso mi manca il mangiare!”.
Torno a casa, lo racconto alla mia compagna, che è sulla porta per andare anche lei al lavoro. Scuote la testa... alza le spalle avvilita... capisco che non sa proprio cosa dire... si avvia, e prima di sparire nella svolta della rampa della scale, mi guarda ancora un attimo... scuote la testa...
Continuo a pensarci. Arrivo a scuola. Comincio lezione, ma a un certo punto non posso fare a meno di raccontarlo ai miei ragazzi.
Tacciono tutti. Uno, forse capendo il mio stato d’animo, mi chiede: “Beh, prof, è un confronto un po’ forte.”, “È per quello mi ha colpito – gli dico – parlava della guerra non di una cosa qualsiasi. Quando era piccola e c’era la guerra mangiava, ora ha problemi... non è normale.“, “No, prof, non è normale...”
Sono svegli i miei ragazzi, in gamba, discoli come si deve essere alla loro età, ma appassionati, e quando vogliono molto disciplinati. Un giorno hanno voluto sapere perché ce l’ho sempre con l’euro. Gli ho spiegato. Quattro principi base di economia che tutti dovrebbero conoscere. Erano attenti e turbati. “Che si può fare, prof?”, “Credo che la sola cosa da fare – gli ho detto – è capire. Non pensare di delegare, a questo o quel politico, a questo o quel partito, ma capire e impegnarsi in prima persona... non so dirvi altro”. “”Grazie, prof”.
Non so se ho fatto bene, se gli ho spiegato bene, ma visto che potevo “metterli in allarme” l’ho fatto, e poi... “avvenga che può”, come dice Pirandello.
La prova è filata via liscia, ma, mi è parso, con un velo di tristezza, tanto che non l’abbiamo nemmeno finita. Chissà se era vero o ero io, nel mio stato d’animo, a leggerla così. E prima della prova hanno ascoltato in silenzio e con tanta attenzione tutto quello che sapevo raccontargli sul problema delle prossemica... La paga è poca, ma loro ti riempiono il cuore. Gli do tutto quello che posso, sapendo che tanto capiranno tra anni e anni, come è successo a me e a tanti amici/colleghi, perché è così l’insegnamento dell’arte: una semina che, se fruttuosa, prima o poi troverà il suo germoglio, anche se non sapremo quando... si deve solo lavorare, attendere, meditare, e quando meno te lo aspetti trovi la risposta.
Sono uscito da scuola soddisfatto.
Ma quella signora anziana, distinta e perplessa, che poteva essere mia madre, pure se questo non fa comunanza, non mi esce dalla mente. Di tante parole che ho usato oggi, una la potevo usare per lei. Non l’ho fatto...
Scrivo perché lo sappiate. E per non dimenticare.



giovedì 7 maggio 2015

Perché dico NO alla Solidarietà.


La parola d’ordine dell’ultimo 1° maggio dei sindacati è stata “solidarietà”.
Una possente eco, quasi si fossero messi d’accordo, cosa ovviamente improbabile, gli è giunta dal Santo Padre.
Il concetto è decisamente bello e importante. Quel che mi chiedo non è tanto il senso di questa parola con annesso concetto, ma da chi a chi dovrebbe attuarsi questa solidarietà. Forse nella testa di chi l’ha propagandato era chiaro. Ma la confusione prodotta quotidianamente dalla contemporanea informazione, rischia di confondere le acque.
Personalmente sono un “nemico” del volontariato.
I motivi sono semplici: lo Stato ha abbandonato una serie di “campi” dove deve operare perché... tanto c’è il volontariato. Il volontario deve svolgere una azione di supporto a ciò che lo Stato già fa di suo, al punto che quel volontario dovrebbe risultare quasi inutile; invece, così come i cittadini troppo spesso delegano la loro azione politica quotidiana, lo Stato ha delegato ai volontari azioni che gli competevano.
Un esempio? La Protezione Civile: guardate come e perché  nata, e cosa è diventata.
Allo stesso modo non vorrei che il concetto di solidarietà sollevasse lo Stato, e dunque la Politica, dalle proprie responsabilità.
Impossibile pensare che la “solidarietà” sia la ridda di sms al 455... di turno, ce ne sono a iosa, e non considerare, invece, che dietro tale concetto deve essere chiara una cosa: lo Stato sono tutti i cittadini di questa Repubblica, dunque è lo Stato che deve operare una azione concreta e costante di Solidarietà.
Non siamo innanzi tutto noi singoli a dover mettere “le mani in tasca” per aiutare il nostro prossimo - dovrebbe essere operazione aggiuntiva e non necessaria, ribadisco - ma il consesso comune ad operare per il semplice motivo che il problema di uno, oggi, può essere domani il nostro problema.
L’abbatimento dello Stato Sociale sta divenendo sistematico, e il travisamento di alcuni concetti, come quello di Solidarietà, può contribuire a tale abbattimento.
Non accolgo il concetto di Volontariato, così come quello di Solidarietà, se questi significano sostituirsi ai compiti dello Stato. E se ciò deve avvenire, diciamocelo subito, per favore, che non siamo più una Repubblica così come la Costituente l’aveva pensata e la Politica dei primi trent’anni di vita di questo Paese l’aveva messa in campo.
Rifiuto il concetto Volontariato, rifiuto il concetto di Solidarietà per opposizione civile e salvaguardia dello Stato Sociale. Non pensi la Politica, rispetto a una serie di problemi, di potersene lavare le mani perché tanto “ci sono i volontari”...
Se un giorno i volontari e le azioni di solidarietà non ci dovessero essere più, finiremmo per sentire la Politica, dirci ancora una volta che “è colpa vostra!”. Già noi Italiani siamo additati come brutti, sporchi, cattivi, corrotti, indisciplinati, ingovernabili, evasori, scansafatiche, improduttivi... anche egoisti? No, grazie.