martedì 29 marzo 2022

GIUSEPPE PATRONI GRIFFI O DE L'ESTETICA CITAZIONISTA

   Talvolta le conoscenze personali mettono sulla strada sbagliata o quanto meno impediscono di vedere con chiarezza. Aver avuto vent’anni di sincera amicizia e affetto con il M° Giuseppe Patroni Griffi, scrittore, drammaturgo, regista di teatro e cinema, uomo di straordinaria qualità, vasta cultura e creatività sfrenata, mi ha per lungo tempo quasi inibito l’analisi e la comprensione razionale della sua opera. L’ho amato, ammirato, mi sono commosso sui suoi lavori, ne ho riso e goduto, ma solo adesso, a quindici anni dalla sua scomparsa, comincio a comprendere quali fossero gli architravi del suo mondo artistico. 

Patroni Griffi col suo amato cane Dario 


Si annovera quasi sempre Patroni Griffi tra quegli scrittori e registi il cui tratto distintivo sarebbe “l’estetica”, volendo indicare con questa generica definizione una sorta di ricerca del “fatto estetico” fine a se stesso. Diciamo subito che la definizione, per i critici ideologizzati degli ultimi 40 anni, cioè la maggioranza, assume carattere spregiativo.


Esaminando il côté maggiormente noto di Patroni Griffi, quello teatrale, autore e regista, lo si è quasi sempre collocato in quella sorta di “dannunzianesimo registico” che vien fatto risalire a Luchino Visconti; il discorso non è peregrino dato che Patroni Griffi era amico di Visconti e se ne considerava registicamente allievo, così come considerava altrettanto importante nella sua formazione da metteur en scene un altro grande purtroppo dimenticato, Ettore Giannini: “Ho imparato – amava ripetere - stando seduto in platea a guardarli provare”; e negli anni era poi stato “seduto in platea” a guardare le prove di Giorgio De Lullo in cui si mescolavano la lezione viscontiana e quella di Orazio Costa Giovangigli, e del suo grande amico della giovinezza Mario Ferrero, allievo e per anni assistente di Costa. 


Visconti e Patroni Griffi 


A questo punto, in realtà, la domanda da porsi sarebbe: ma Visconti era davvero “dannunziano” come lo si descrive, era davvero un regista per il quale il senso estetico veniva prima di qualsiasi altra cosa? 
 "L'Innocente" di Visconti 

Io sono certo di no: Visconti era tantissime cose, il decadentismo e l’estetismo dannunziano facevano certamente parte del suo mondo, ma coglierne solo questo aspetto è limitarlo colpevolmente (e forse anche con una certa intenzionalità). Il discorso, però, ci porterebbe lontano, sarà meglio rimandarlo ad altra riflessione.


Dunque, come spesso accade, tante strade s’incrociano nella formazione di un vero talento creativo, al punto che quando questo trova la propria autonomia resta difficile indicarne una come preponderante o determinante. Certamente il seme gettato da Visconti, sia in cinema che in teatro, ha prodotto molti frutti e ciascuno con una propria precisa individualità, pensiamo soltanto al gusto per la maestosità e il dettaglio di Zeffirelli, alla maniacalità, sotto ogni aspetto, di De Lullo, o al realismo civilmente impegnato di Rosi.  

Per Patroni Griffi, però, il discorso è leggermente diverso; poiché egli nasce, volendo esserlo, scrittore, e solo in un secondo momento, quasi inconsapevolmente egli accoglie in sé la lezione di Luchino: il suo debutto registico, infatti, è tardo e casuale, a 44 anni con "La governante" di Brancati. Scrittore egli si sentirà sempre e tale si dichiarerà fino alla fine: “Sui miei documenti ho scritto scrittore”, ponendo così una netta cesura tra sé e i registi, invocando la propria alterità come tratto distintivo di una maggiore completezza. 

Il mondo di Patroni Griffi si sviluppa in realtà per percorsi non convenzionali, spesso inaspettati e insospettabili: il non essere entrato in arte come giovane desideroso di diventare regista, ma l’essercisi ritrovato per caso, lo ha probabilmente costretto a elaborare una propria poetica e una propria metodologia di lavoro, recuperando improvvisamente dalla memoria, non solo cosciente, tutto quello cui aveva assistito nelle serate di prove teatrali.

Egualmente, in un percorso precedente a quello registico, in maniera non convenzionale inventa il suo teatro. Un teatro che è già cinema pur rimanendo teatro, lì dove il classico testo teatrale si mescola alla sceneggiatura: un teatro adeguato al suo tempo, alle nuove esigenze e gusti degli spettatori. Basta leggere la sua prima commedia, “D’amore si muore”, per rendersene conto. 

Valli e De Lullo in "D'amore si muore"
(foto da programma di sala T. Eliseo)

Fidandosi quasi ciecamente di quella che oggi definiremmo intelligenza empatica Patroni Griffi si lascia sprofondare senza timori nel suo mondo, procedendo in una sperimentazione costante che non ha e non può avere limiti, e che in poco tempo lo porterà a scrivere quel capolavoro assoluto che è “Metti, una sera a cena”, una commedia senza più luogo e tempo definiti, dove la trama è una non-trama che ciascuno spettatore può liberamente ricostruire nella propria mente.   

E tutto questo non gli impedirà di realizzare commedie nella più tradizionale delle forme, come la commovente e spiritosa “In memoria di una signora amica”, o la scandalosa “Persone naturali e strafottenti”, fino a quella favola antica che è “Una tragedia reale”. 


"Metti, una sera a cena", I rappresentazione 1967
Orsini, Albani, Valli, Giuffré, Falk
(foto da programma di sala Teatro Eliseo)


 














Bene, ma di cosa è fatto il mondo di Giuseppe Patroni Griffi, sia come autore che come regista?

Io lo definirei un mondo di “estetica citazionista”.

Patroni Griffi tesse le sue tele con i mille elementi sedimentati nel suo animo e nella sua memoria, la maggior parte dei quali sono richiamati con piena coscienza, mentre altri emergono con felice inconsapevolezza: un tessuto ornato di prezioso ricamo, la tela di ragno nella quale lo spettatore rimane invischiato.

Attraverso la miriade di citazioni che popolano le sue opere, verbali e visive, palesi o no, Patroni Griffi aggancia empaticamente il lettore-spettatore nel fondo di una memoria comune, in un inconscio culturale collettivo nel quale riconoscersi. “Qualcuno deve averle scritte queste frasi se io le ho lette tante volte”, dice Nina in “Metti, una sera a cena”, commedia che è un vero e proprio florilegio di richiami letterari, pittorici e drammaturgici. Perché come Nina afferma, quelle frasi, quelle storie o immagini, sono dentro di noi, e noi le abbiamo acquisite dalla letteratura, dalla pittura, dalla musica. Pare quasi dirci, Patroni Griffi, in un percorso che sicuramente prosegue quello Pirandelliano, che è l’arte a scrivere la vita; ed ancor più: la sua visione supera Pirandello, poiché è l’arte a scrivere l’arte, arte che, in fondo, non parla di niente altro che di se stessa, e attraverso se stessa si racconta, raccontandoci la vita.    

Ecco, dunque, che la Storia prende a svolgersi su più livelli: c’è quello intellettuale, di chi coglie i vari riferimenti, e c’è quello da inconscio collettivo, di chi ha in sé la citazione pur non avendone memoria. Ma c’è un terzo livello cui Patroni Griffi non rinuncia, ed è quello della pura narrazione che, sostenuta in maniera forte da questa trama memonica, trova una solida base di appoggio per aprirsi allo spettatore nel più semplice dei modi e colpire lì dove deve: nel sentimento, come nella coscienza, come nel pensiero. Chi non coglie le citazioni, è colto però dalla solidità evidente del tessuto narrativo, fatto al contempo di accadimenti e di stile, uno stile ricercato, spesso raffinato, ma sempre funzionale alla storia, storia che sta in piedi perché trova in questo tessuto “citazionista” il terreno fertile nel quale essere coltivata. Ed attenzione: la citazione, il richiamo può essere raffinatissimo o assolutamente popolare, talvolta anche volutamente volgare lì dove ce ne sia una esigenza drammaturgica.

È dunque in questo modo che Patroni Griffi conduce il lettore/spettatore all’emozione, non attraverso “il caldo”, attraverso l’abbraccio rassicurante, ma tramite il gelo della lucidità, lo sbarbaglio di un bisturi, la crudezza della realtà, disvelando una memoria collettiva che è presenza, incarnarsi dell’arte nella nostra esistenza quale elemento pienamente partecipe.

Un “sistema” efficace, dunque, che soddisfa ogni livello di percezione, in una lezione parallela e sovrapponibile a quella di Pier Paolo Pasolini, e che ugualmemte non trova alcuna difficoltà nel descrivere qualsivoglia situazione sociale o storica. 


da "Addio fratello crudele"






"Addio fratello crudele", scenografie di Mario Ceroli








Credo che in questo senso l’opera letteraria, le messe in scena, il cinema ed anche la televisione di Patron Griffi siano marcate dal “discorso estetico”, discorso che non si fa minimamente riduttivo così come intende certa critica in malafede, ma che tende verso una spasmodica ricerca della bellezza.

“La bellezza – ripeteva convintamente Peppino – è oggettiva”, un’affermazione per troppi versi contestabile e che è stata oggetto serale di cento appassionate discussioni dalle quali sono sempre uscito poco convinto; ma mi è chiaro oggi che per lui la bellezza diveniva oggettiva nel momento stesso in cui la identificava come parte imprescindibile del comune sentire degli uomini, elemento condiviso che travalica mode e singole culture di riferimento. 

Ciò che è bello è anche giusto, sano, e morale anche quando pare ammantato di immoralità; essa bellezza è viva, ci appare o perdura in una sorta di comune inconscio primordiale, compito dell’arte e dell’artista è farla riemergere o emergere. 


Stamp e Antonelli in "Divina creatura"

  

 

 

 

 

 







Mi si lasci chiudere con un episodio che mi ha visto coinvolto. 
Preparavamo la diretta televisiva mondovisione di "Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca", era (ahimé!) il lontano 1992, una estate torrida e meravigliosa nella quale facemmo, posso dirlo con orgoglio, la storia della televisione, grazie, innanzi tutto, alla genialità di un grande produttore, Andrea Andermann, inventore del meccanismo che consentì l'operazione. Io ero un giovane e imberbe assistente del regista. 

I luoghi dove lavoravamo erano straordinari: la chiesa di Sant'Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo. Patroni Griffi, forte della solida collaborazione di Vittorio Storaro, cercava in ogni modo inquadrature che, oltre a rendere la precisa idea della storia che egli aveva in mente, potessero mostrare al mondo i nostri capolavori. Mai però come documentario - errore oggi abbastanza frequente in registi senza qualità e cultura - ma sempre come scenografia, come reale ambientazione dell'opera, capolavori a fare da naturale corollario a un capolavoro. 

Le scena del Te Deum, finale I atto, che qui vi lascio è esemplificativa. 


Giunse il coro per le prove, e dopo qualche giorno arrivarono sul set anche le comparse che avrebbero dovuto essere il clero, il popolo, le guardie svizzere... 

Peppino era ovviamente preso dai mille problemi che una tale regia può comportare. 
Tra le comparse, il mio occhio cadde sul viso di un ragazzo, avrà avuto vent'anni, dai lineamenti finissimi, un naso dritto e gli occhi acquosi, azzurro pieno, alto, elegante.

Ne fui molto colpito, c'era un qualcosa di affascinante in lui che però non cogliere pienamente.

Al ragazzo il capo-comparse aveva assegnato, in attesa di conferma da parte della regia, il ruolo di "portatore della croce".

Quando Patroni Griffi arrivò per occuparsi dei movimenti delle comparse, mi avvicinai a lui e con una ammirazione sincera gli dissi: "Peppino, guarda come è bello quel ragazzo". 
Fu un attimo, egli si voltò di scatto e urlò a Stroraro indicando il giovanotto: "Vittorio, dobbiamo fare un primo piano qua! Ma lo vedi, questa è la testa del David di Michelangelo! Ma facciamo vedere che non sono solo opere d'arte, facciamogli vedere che noi queste cose ce le abbiamo nella vita!". Era il suo profondo orgoglio di italiano davanti al mondo, mostrare la nostra bellezza. 



Ecco, la differenza era tutta qua: io, sia pur scusabile nella mia inesperienza, ero rimasto affascinato da una volto senza sapere il perché; Giuseppe Patroni Griffi era istantaneamente volato al collegamento d'arte e di vita, aveva subito compreso dov'era la bellezza che ciascuno di noi, anche inconsapevolmente, si porta dentro come un bene comune dal quale non possiamo staccarci, una bellezza a tutti noi nota e da tutti noi riconosciuta, la sua amata "bellezza oggettiva".


Pier Luigi Pizzi, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio De Lullo, Romolo Valli 
durante le prove di "D'amore di muore", 1958
(foto da un programma di sala del Teatro Eliseo)

domenica 27 marzo 2022

IERI HO AVUTO PAURA

 A un certo punto ieri sera ho avuto paura, il cuore ha cominciato a battermi fortissimo anche se apparentemente ero calmo, molto calmo, sorridente, e da fuori non si vedeva proprio niente, ma ho avuto paura. 

Nel tardo pomeriggio sono uscito di casa per andare a fare la mia solita camminata a passo sostenuto, perché devo assolutamente dimagrire, sono sovrappeso in un modo che non è più tollerabile, e ho scoperto che dimagrire è un lavoro! 
Così, come costanza vuole, nel tardo pomeriggio, messi da parte i vari impegni quotidiani, ho infilato le scarpette di gomma e sono andato. 
A metà strada sono come sempre passato per una piazza, dove ci sono panchine, anziani, badanti, qualche tavolino di bar e tanti ragazzini che giocano a pallone. 
La sera era appena calata e c'erano i lampioni accesi. L'immagine di quei ragazzini, dieci, dodici, forse quindici anni che giocavano a pallone mi ha affascinato, poiché è sempre più raro vedere nelle nostre piazze dei ragazzi che giocano a calcio. Ormai vanno tutti nelle scuole-calcio, nei campetti attrezzati delle parrocchie o dei quartieri popolari, ma i ragazzini che in una piazza, isola pedonale ovviamente, giocano mettendo le giacche in terra per fare le porte è roba che mi riporta alla mia infanzia. 
L'immagine era toccante, e ho deciso di fare una foto che avrei poi postato sui social con qualche bella frase che esprimeva il mio sentimento di dolce nostalgia. 









Ma nel mentre scattavo, un pensiero terribile mi ha attraversato la mente: e se mi prendono per un pedofilo? 
Fatta la foto col cellulare mi sono allontanato, ho visto che c'era una chiamata cui non avevo risposto e ho richiamato. Ma intanto ho sentito i ragazzini urlare un qualcosa di cui non distinguevo tutto, se non poche ma inquietanti parole: "La fotografia... il telefono... è quello là... ha fatto la foto...". 
Il telefono squillava e nessuno all'altro capo rispondeva, e io intanto sentivo i passi di ragazzi che mi rincorrevano. Ho continuato a camminare, ostentando calma e attenzione ai miei affari. 
A un certo punto un ragazzino di un dodici anni, su un monopattino, mi ha affiancato e ha gridato a un altro: "è lui", e un altro dodicenne mi è corso affianco. Ho chiuso l'inutile telefonata e il ragazzino a piedi mi ha chiesto: "ma vi siete preso il telefono?". L'ho guardato, e con un grande sorriso sostenuto da molta calma ho risposto: "no, guarda, è il mio". 
Il ragazzino ha guardato la schermata ed è corso via urlando al compagno: "no, è suo", e si sono allontanati. 
Una coppia che era dietro di me ha incrociato il mio sguardo e mi ha sorriso per la comica scena, ma dentro il mio petto il cuore andava a mille. 
E se mi avessero preso per un pedofilo, per uno che andava facendo foto ai ragazzini per chissà quale vergognoso motivo, se fosse scoppiata una situazione allucinante nella quale come avrei potuto difendermi? 

Non lo avrei creduto mai, ma mi sono calmato a fatica, e ho capito. Ho capito in che schifo di mondo viviamo, e come tutta l'informazione malsana, che condiziona le nostre vite ci entri dentro anche se non vogliamo, si acquatti nel fondo del nostro animo e lo scuota quando meno ce lo aspettiamo come una improvvisa burrasca in mare. 
Come ho potuto avere così paura di due dodicenni? Ne ho avuta perché tutto poteva in un lampo volgersi al peggio e per un nonnulla, perché basta una parola a inchiodare le persone, per metterle alla gogna, perché nessuno di noi ha più un rapporto sereno con il mondo che lo circonda, perché ormai ogni nostro gesto è fortemente condizionato dal pensiero e dagli sguardi che ci circondano. Non siamo più liberi dentro.

Ho cancellato la foto. Che mi era venuta anche male.