mercoledì 12 dicembre 2018

Voglio sempre avere umana pietà

Lentamente si rimettono a posto i pezzi, e quello che un tempo ti pareva decisamente bianco o nero, oppure incomprensibile o credevi fosse perfettamente chiaro, la vita te lo mette sotto altra prospettiva. Sta solo a te decidere di non smettere di imparare o di metterti in discussione.
Grazie a Dio, il solo pregio che posso riconoscermi nella vita è quello di non avere mai avuto delle certezze assolute, e anche attraverso travagli o lunghe meditazioni mi è capitato sovente di cambiare idea. 

Sto conoscendo, invece, andando avanti con gli anni, alcuni che le loro idee di fondo non le hanno mai cambiate, e ora che il mondo palesemente si ribalta sotto i nostri occhi... ecco che rimangono spaesate. E soprattutto disperate. E questa disperazione per il toccare con mano il fallimento della loro ideologia li rende dannatamente aggressivi. Pensavi di avere di fronte un amico, hai di fronte uno che ti disprezza per il solo fatto di essere portatore del suo fallimento.
Voglio sempre avere umana pietà, comprensione e farmi carico di tutta la carità cristiana che posso. Non si tratta di perdonare, che è un atto alto al quale forse non sono ancora giunto, ma solo di comprendere e superare. 
Pazienteremo e attenderemo che anche questi amici oggi incattiviti, risolvano i loro problemi interiori. L'uomo è complesso, fatto di tante cose che chi può permettersi di giudicare e dire quali sono quelle giuste e quelle sbagliate? Ecco perché ringrazio Iddio di avermi sempre reso disponibile al cambiamento di idea, perché questo ha abbassato il mio livello di possibile cattiveria. Posso essere preso da ire, da raptus di rabbia talvolta anche incontrollata, ma da cattiveria credo di non essere mai stato preso. Ho anzi superato e perdonato e assorbito più di quanto io stesso potessi immaginare.
Di tutto questo sono profondamente contento. La vita mi ha ripagato in modi che solo io so, che se li raccontassi potrebbero sembrare sciocchi, e che dunque non racconterò perché quelle piccole cose per me sono importanti. Le tengo per me. 


Sì, lo capisco, a qualcuno dei miei ventisette lettori questo post parrà strano, e fondamentalmente incomprensibile.
Ma la vita è strana, e credo vada accolta per quel che è: una impalpabile miscela di stranezze, ci sono quelle che ti danno gioia e quelle che ti danno amarezze. 

Tutti preferiamo le gioie, ma nessuno può negare la presenza delle amarezze e il fatto che la loro esistenza aiuti a fare apprezzare le gioie.
Lo so, sto scivolando nelle banalità. Eppure abbiamo bisogno di banalità, abbiamo bisogno talvolta di ripeterci l'ovvio perché tendiamo a dimenticarlo e a volere sempre quello che è speciale, fuori dall'ordinario. Ma quando poi tutto è "fuori dall'ordinario" tutto torna ad essere ordinario, e allora un po' di banalità ci vogliono, per rimetterci con i piedi per terra.

Volevo raccontarvi di cosa avevo capito rivedendo il film sui Queen, di come ho mutato la visione... di tante cose. Volevo raccontarvi di come un amico può ferirci...
Ma facciamo così: sarà per un'altra volta, quando avrò scaricato la malinconia. Non mi piace scrivere sull'onda delle emozioni, in particolari sull'onda di quelle negative o quanto meno tristi: è roba che offusca il sentimento, rende sgradevole l'emozione.
Del mio amico sono certo che non vi importa, ma forse di come mi pare che sia cambiata la musica leggera a seguito di certi eventi (cosa che quando avevi venti o trent'anni non potevi comprendere perché ci eri dentro e ti mancava la visione d'insieme)... forse sì, forse vi interessa.
E per coerenza, lascerò qui queste poche righe ed eviterò anche la condivisione social.

PS - ho visto questo quadro, mi è piaciuto. 


domenica 2 dicembre 2018

WE ARE THE CHAMPIONS (Bohemian Rhapsody, un film tutto da amare)

Sono appena tornato dal cinema dove ho visto "Bohemian Rhapsody", il film su Freddie Mercury e i Queen. 
Non so nemmeno dirvi se sia bello o brutto, ma so di sicuro che è una emozione pazzesca, straordinaria, e questo è possibile che me lo faccia per sempre ricordare come un bellissimo film.
Ma che sia bello o brutto non ha quasi importanza.
Le cose che voglio dire sono altre, sono tutte quelle cui il film mi ha fatto pensare.
Come per ogni cosa ci sono in giro i detrattori, in casi come questi poi, di ricostruzioni bibliografiche, i puristi per cui il terzo pelo a sinistra della barba di Freddie era tagliato obliquo e non diritto saltano fuori come funghi.
Francamente, non ce ne frega niente: l'arte è reinvenzione al fine di creare emozione, altrimenti andate in una sala lettura di una biblioteca e... buon divertimento.

Nei giorni scorsi ho letto sui social post entusiasti di miei giovanissimi allievi, diciotto, venti, ventuno anni. Già in altre occasioni li ho visti carichi di passione per "cose dei nostri tempi", quando infatti Bohemian Rhapsody, il disco, usciva, io avevo poco meno di undici anni, e quando Mercury se n'è andato, nel 1991... beh, ne avevo tanti meno di adesso.
Osservo che sempre più spesso questi ragazzi postano o condividono canzoni di De André, o dei Beatles, o di De Gregori, oppure Rolling Stones o Pino Daniele, di David Bowie o Sting...
Mi pareva una cosa strana, e invece stasera, arrivando alla fine del film, quando vengono ricostruiti splendidamente quei venti minuti al grande concerto Live Aid del 1985, ho capito.

Il film è una pazzesca denuncia del totale fallimento della industria discografica mondiale.

Nel corsa pazza al profitto, si è totalmente uccisa la creatività, si è ucciso il valore della musica, la voglia di fare musica, di creare, di sperimentare, di proporre e rischiare, di durare nel tempo per la sola gioia di fare il lavoro che ci si è scelti: il musicista.
La terribile verità che ho visto emergere dal film è nella domanda:

dove sono i Freddie di oggi, i McCartney di oggi, i Pino Daniele o i De André?

E sia chiaro: non parlo di copie, ma di artisti che raccolgano sulle loro spalle le ansie e le gioie di questi nostri tempi, quelle dei nostri ragazzi di sedici o di venti anni e le sappiano raccontare, mettere in musica e in parole, in film e/o in racconti.
Vediamo gruppi che passano più veloci di meteore, cantanti di cui dopo un mese non sappiamo più i nomi, fenomeni da programmi televisivi che ci abboffano le orecchie di acuti e poi più nulla... vediamo solo fenomeni da baraccone. Presi, spremuti, buttati via.
Si sa che se scrivi un buon romanzo, poi la casa editrice ti fa un bel contratto per tre libri in tre anni. Ma un autore non è un juke box dove inserisci la monetina e viene fuori la musica. Ha bisogno dei suoi tempi, che talvolta possono essere sollecitati, a volte bisogna lasciare decantare.
Il risultato è che la creatività è morta, musica in giro non se ne sente più... e i nostri ragazzi impazziscono per artisti di un tempo in cui loro nemmeno erano nati, e si riconoscono in questi. Perché i nostri ragazzi non hanno più la fortuna che abbiamo avuto noi, di avere i loro cantori.

Ma non basta, ci sono tante altre cose nel film. Quella di Mercury è una storia forte di disperazione, amore, esaltazione, soddisfazioni e solitudine, di dissolutezza e ricerca ostinata della perfezione, di trasgressione forte come in quegli anni usava ed era forse anche un po' il clichè che gli artisti dovevano abbracciare. Ma erano anni forti, intensi, ribelli, dove c'erano i Live Aid, dove si vivevano emozioni collettive potenti, dove ti sentivi, nel bene o nel male, parte di "un popolo" emozionato e appassionato, con esperienze artistiche che ti restavano dentro e che oggi non so più dove i nostri ragazzi possano trovarle (e non penso solo alla musica, anche a teatro si correva a vedere delle cose eccezionali e/o folli, ma frutto di una passione palpabile).
L'ultima volta che sono andato a un concerto fu divertente. Sto parlando all'incirca del 2006, a Roma venivano i Depeche Mode. La mia fidanzata di allora prese i biglietti. Io saranno stati venti anni che non entravo in uno stadio se non che per una partita di calcio.
Mi ritrovai in una situazione surreale: ai lati del palco c'erano degli schermi enormi. Risultato, dopo un po' non guardavi più il palco ma gli schermi. Quindi ero venuto fino allo stadio... per guardare la televisione! Assurdo.
Inoltre, ai miei tempi quando ci piaceva una canzone, si dava fuoco all'accendino.
Lì ho visto centinaia di lucine di telefonini che stavano evidentemente facendo foto o filmati. C'era quindi una massa di persone che era venuta fino allo stadio, ma non seguiva nemmeno il concerto sui grandi televisori ai lati del palco, ma sul piccolissimo schermo del telefonino. E con tutto ciò, io devo pensare che sto seguendo un concerto dal vivo? Ma perché? E allora, se permettete, me ne vado alla Filarmonica, almeno è dal vivo sicuramente. Ai miei tempi si andava a sentire musica e non importava se il tuo artista amato era un puntino sul palco, perché tra te e lui non c'erano mediazioni di alcun genere, né visivo, né sonoro. Noi, mi spiace davvero tanto dirvelo, ragazzi miei, siamo stati maledettamente fortunati. E credetemi non vorrei dirvelo, vorrei che anche voi aveste le vostre fortune...

Guardatevi intorno: oggi le nostre vere star, quelle che ancora vanno in giro a riempire gli stadi, sono degli ultra cinquantenni, sono i Vasco Rossi, i Baglioni, Sprigsteen, i Rolling Stones (avete idea di quanti anni abbia Mick Jagger?)... non ci sono più momenti di grande aggregazione collettiva, non c'è rischio, non c'è ricerca... non c'è niente altro che il bussines, il consumo, il consumo veloce e a tutto spiano, con il risultato che la qualità è sparita dai radar.

E allora è chiaro che di fronte a una storia potente, sfrenata, appassionante come quella dei Queen e del suo leader Freddie Mercury, i nostri ragazzi si lasciano prendere da un meraviglioso entusiasmo.
E fanno bene!
Ecco, mi piacerebbe dire ai miei ragazzi: ribellatevi, o per lo meno non state al gioco, mettete in scacco chi vi vorrebbe solo consumatori, affinate il gusto, studiate, ascoltate... Non c'è bisogno di scendere in piazza per fare la rivoluzione, basta non fare quello che il potere subdolamente vorrebbe indurvi a fare. La storia di Mercury ve lo dice chiaro: ha fatto di tutto, anche troppo, per essere quello che voleva, a voi basterebbe almeno non fare quello che vi vogliono far fare.
E siatene orgogliosi, siate orgogliosi sempre di non essere omologati. 

Beh, non so se sia bello o brutto, ma a me è piaciuto tanto, e vi dico: andate a vedere Bohemian Rhapsody. Io ho cominciato a piangere durante il secondo tempo e continuato fino alla fine dei titoli di coda. 

E ora, se volete, godetevi con me questi venti minuti di puro sangue e sesso.



a proposito, io non ho mai amato i Queen quando ero giovane, li trovavo troppo commerciali, ma stasera... Grazie Freddie, grazie ovunque tu sia per ricordarci ancora che eravamo e siamo una generazione straordinaria: 

We are the champions 



(addendum del 9/12/2018: per accompagnare degli amici che volevano vedere il film in lingua originale sono stasera tornato a vederlo. Confermo in toto quanto già scritto, aggiungendo che:
- anche stavolta a fine film è scoppiato l'applauso
- ho ripianto come un vitello
- ancora una volta la gente non si è mossa dalle poltrone fino alla fine dell'ultimo titolo di coda per ascoltare l'ultima canzone
- gente che piangeva dovunque
- che una degli amici è una ragazzi di 22 anni ed era entusiasta, affascinata... appena a casa ha aperto wikipedia per leggere la biografia di Mercury

ma soprattutto: rivedendolo è stato ancora più chiaro quanto sterili siano la polemiche dei puristi, per il semplicissimo motivo che il più intrinseco pregio del film è che è stato costruito per tirare il più classico cazzotto nello stomaco allo spettatore, per suscitare una scossa, una emozione profonda, e ci sono perfettamente riusciti, dalla sceneggiatura, alla regia, agli attori, al montaggio... è come una torta in cui tutti gli ingredienti sono miscelati alla perfezione e il risultato è sublime. Queste cose non si ottengono con la storiografia e le filologie, ma sapendo usare l'arte, mettendo da parte qualsiasi intellettualismo e seguendo quella ben più articolata e profonda intelligenza dell'uomo che è banalmente identificata con l'istinto, costruire ascoltando la propria sensibilità: quello che sanno fare solo gli artisti. Per tutti gli altri c'è sempre la critica... )

venerdì 30 novembre 2018

UN PICCOLO PREMIO IN QUESTI TEMPI GRIGI (per "Enrico solo")





Cari ventisette amici, forse adesso ventinove, che mi seguite con affetto (e vorrei sapere perché), in questi tempi di tenebre e paludi, almeno una piccola soddisfazione personale è arrivata e la prendiamo con gioia quale viatico per migliori percorsi futuri.
Come potrete vedere nel link sono tra i vincitori del premio "Autori Italiani 2018", concorso indetto dalla storica e prestigiosa rivista di teatro "Sipario" diretta da Mario Mattia Giorgetti, in collaborazione con la Fondazione Teatro Carlo Terron.
Così, il 6 dicembre 2018 alle h 15,30 sarò con gli altri selezionati al teatro Manzoni di Milano per la cerimonia di premiazione. 

Mi fa piacere per diversi motivi: il primo è che la mia povera Patrizia che mi sopporta nelle mie esaltazioni e/ abbattimenti quotidiani merita questa piccola gioia che infatti è dedicata a lei.
Poi perché il Manzoni fu il primo teatro dove ho recitato a Milano nella lontana stagione 1989/90, con "Dolce ala della giovinezza" di Tennessee Williams, con Rossella Falk e Lino Capolicchio per la regia di Giuseppe Patroni Griffi.












Ero giovane e inesperto e nulla ancora sapevo del Teatro e della sua vita di tournée, inoltre ero a Milano per la prima volta, così, quando fummo nel residence, la sera, a cena, a un certo punto guardai la finestra e la vide terribilmente opaca, al punto che esclamai: "Madonna, come è sporco 'sto vetro"; aprì la finestra per guardare il vetro nella parte esterna e mi accorsi che era la nebbia, la famosa nebbia che "c'è ma non si vede", e invece la vidi benissimo tra le risate dei colleghi.

Da ultimo, come dicevo, perché questi per il nostro mestiere sono tempi cupi, molto cupi, ed avere anche un piccola soddisfazione è una boccata di ossigeno che ti fa almeno sperare che qualcosa ancora si possa risolvere e riprendere la retta via, non solo per te stesso ma per tutti i veri teatranti.
Voglio confidare in Dio e credere che così sarà.
Per intanto, ringrazio la commissione selezionatrice del premio e tutti coloro che hanno voluto leggere in anteprima questo testo dandomi i loro consigli (in questo caso molto pochi per la verità perché devo dire che, caso unico, mi è venuto bene subito).

A proposito, voi vorrete sapere, giustamente, di cosa si tratta.
Ebbene, è una curiosa storia: si tratta di Enrico IV di Pirandello, 25 anni dopo la prima chiusura di sipario, che fu nel 1922. Siamo quindi nel 1947, fascismo finito, monarchia finita, guerra conclusa e Repubblica italiana neonata. Il povero "Enrico" però, che dopo l'omicidio del Barone Belcredi la famiglia ha deciso di segregare in quella villa quasi irraggiungibile tra i boschi e i monti dell'Umbria, di tutto quando accaduto in realtà sa poco, anzi quasi nulla. I venticinque anni, per lui, sono passati in solitudine e meditazione.
Nella nuova democrazia italiana, una troupe della radio va raccogliendo le strane storie degli anni bui appena superati. Giunge così fin dentro la villa per registrare la testimonianza di questo curioso signore. Egli racconterà la sua storia finalmente in maniera libera e ormai con la piena coscienza del suo dramma, delle sue colpe, degli errori che ha commesso; ma ha anche conservato la bellezza del pensiero, dell’ironia, del gioco, e un’identità che si era dissolta, frantumata nella tragedia, si ricompone nella volontà di essere sempre e comunque nella vita. 

Perché l'ho scritto? Perché amo profondamente Pirandello e perché mi dava quasi fastidio che le riscritture, in teatro, siano sempre dei personaggi della grande classicità. Ma proprio in quel "Dolce ala della giovinezza", Peppino Patroni Griffi ebbe a discutere con Lino Capolicchio, che aveva i suoi normali dubbi di attore rispetto alla costruzione del personaggio, e gli disse: "Caro Lino, voi attori siete convinti che i grandi personaggi siano solo quelli del passato, come Amleto o Edipo, e invece questi sono i nostri grandi personaggi della modernità, e magari tra duecento anni sarà questo l'Amleto di riferimento". Bene, io amo Enrico IV, è il personaggio che mi ha aperto le porte del teatro e della recitazione, e tante volte mi sono divertito a pensare: ma che accade dopo che si è chiuso il sipario? 
Perché allora parlare sempre delle Clitennestre o degli Amleti? Così ho cominciato a immaginare e poi a scrivere. Spero che un giorno ci sarà chi voglia raccontarci la sua visione di Blanche DuBois, o di Vladimiro e Estragone. Sarebbe divertente. 

A proposito, il titolo: "Enrico solo". 
Il 6 dicembre, in contemporanea con la premiazione, sarà pubblicato sulla rivista e sul portale della rivista www.sipario.it. Vi resterà per 12 mesi, e speriamo che non solo il mio testo ma anche altri dei premiati, trovino qualcuno che voglia metterli in scena.
Sarebbe un bel segnale per tutti noi teatranti. 

Ci vediamo a Milano. L'ingresso è libero.

E grazie ancora a Sipario. 
E a Patrizia.














martedì 30 ottobre 2018

SE IL MIUR LI CERCA, DOVE SONO I PROFESSIONISTI? (perché è ora necessaria un'agile svolta dando vita a un'associazione degli attori professionisti)

Chiedo in anticipo scusa a tutti se quello che racconterò non dovesse corrispondere al vero. 
Il fatto è che: questo mi è accaduto e questo vi dico. 
Perché per quanto abbia cercato sui siti istituzionali una conferma, non mi è stato possibile trovarne. Ed è molto probabile ch'io non sia capace. 
Così, attraverso questo raccontino, chiedo aiuto a voi, miei quarantasette audaci lettori, ché possiate fornirmi, se ce l'avete, un corretto riscontro. 

Un paio di giorni fa, passeggiando per il centro, incontro un conoscente, un ingegnere con la passione del teatro che ha una compagnia amatoriale. Mi dice dell'accordo tra il Ministero dell'Istruzione e il Fita cui la sua compagnia è associata. 
Questo conoscente (non posso dire sia un amico), mi invita a preparare un progetto per le scuole, che, mi dice, certamente verrà approvato. Alla fine dell'anno, poi, il MIUR valuterà i dieci migliori progetti, e questi saranno premiati con € 1500,00 l'uno. 
Mi mostro interessato e gli rispondo che nel giro di qualche giorno gli farò sapere. 

Ora, io spero vivamente che quanto raccontatami, vi assicuro con un certa qual baldanza, non sia vero. Ma come si dice: è assurdo quindi vuol dir che è vero! 
E così mi metto alla ricerca di una conferma, cerco, come si dice, di verificare la notizia... 
nulla. 
Ecco perché ho deciso di chiedervi aiuto. Su internet trovate decine di siti che rimandano al protocollo Miur-Fita, ma non una riga che spieghi come questo protocollo si attui. 
E invece credo sia importante saperlo. Perché se è così come mi è stato raccontato ci sono una serie di considerazioni da fare. 
A cominciare dalla paradossale situazione nella quale ci si può ritrovare: una compagnia amatoriale che dà lavoro a un attore professionista; per proseguire con la "valorizzazione della Cultura" fatta praticamente a costo zero (dieci progetti a 1500 euro l'uno, fa quindicimila leuri, se qualcuno mi vuole calcolare la percentuale sul bilancio del Ministero per non dire dello Stato...); finendo alla attuazione di un progetto "sfruttando" la passione di qualcuno, in questo caso il dilettante, e solleticandone l'ego ("ho vinto il premio!"); il tutto sempre - mai dimenticarlo - a detrimento del lavoro dei professionisti. 

Ma resta il problema: non avendo trovato un riscontro nei siti ufficiali, quel che mi hanno raccontato è vero???

Dopodiché, c'è una considerazione che va fatta a prescindere da tutto. 
Il Ministero dell'Istruzione Università e Ricerca, ha stretto un accordo con la Federazione Italiana Teatro Amatori. Ma perché? Per un banalissimo motivo: 

Perché il Fita ESISTE!!! 

Gli attori professionisti possono dire quel che vogliono, ma qui c'è un dato certo e 
inoppugnabile: una associazione delle compagnie amatoriali ESISTE! 

Un'associazione degli attori professionisti 
NON ESISTE!!!

E questo è un altro dato certo e inoppugnabile. 

Dunque, rendiamoci conto: ammesso che il MIUR avesse voluto chiudere un protocollo con i professionisti, con chi avrebbe potuto farlo? 
Quello che penso di questo accordo e di tutto quello che ha guidato l'emanazione di una serie di normative sullo spettacolo dal vivo l'ho già scritto, per cui non credo che, pur esistendo, i ministeri si sarebbero rivolti direttamente ai professionisti. 
Ma credo anche che se un riferimento certo, giuridico, strutturato fosse stato presente, non avrebbero potuto ignorarlo. 

Tralasciamo per ora il discorso per cui se si vogliono risolvere le problematiche teatrali SI DEVE ASSOLUTAMENTE PARTIRE DA UN PUNTO: la costituzione dell'Albo dei Lavoratori dello Spettacolo; anche se io ne sono fermamente convinto - ho riflettuto a lungo su come si possa fare e questo vorrà essere materia di prossimi post - è una cosa decisamente complessa che non può in questo momento essere la priorità
Prioritaria è la costruzione di opportunità lavorative.
E proprio in tal senso può essere importante decisamente importante - e mi rivolgo qui anche agli amici di Facciamolaconta - avere una semplicissima associazione di attori professionisti. Una cosa agile, leggera, veloce, da fare subito, con pochissime regole, chiare e inappellabili, per cui se la direzione dice che non sei ammesso non sei ammesso, punto! Cosa possibile, a mio parere, proprio perché si parla di Associazione e non di Albo. 
Di Albo poi si parlerà, e magari una associazione così fatta può essere un punto di partenza (costo di iscrizione annuale, una cosa bassissima del tipo dieci euro l'anno, o un euro al mese...). 

A questo punto, una... AIAP (Associazione Italiana Attori Professionisti - il primo nome che mi è venuto, ma il nome è l'ultimo dei problemi) diviene necessaria
Necessaria per dare alle Istituzioni un riferimento strutturato anche giuridicamente. 
Ma ci tengo a sottolineare che per fare questa "AIAP o come ve pare", è necessario pure, in questo momento, farsi poche masturbazioni mentali, fare pochi dibattiti, cavillare poco e andare dritti sull'obiettivo dettato dall'interesse comune. 
Una associazione "sbagliata" si scioglie, un protocollo firmato da un Ministero... beh, è un po' più problematico buttarlo giù...   

PS - un giorno sarà necessaria anche una riflessione sul perché gli amatoriali sono così strutturati e agguerriti, come e perché presidiano il territorio e che rapporti possono avere con la politica in genere locale... 

sabato 27 ottobre 2018

UN SOTTILE MALESSERE (conversazione con un caro collega)

Oggi mi è accaduta una cosa strana, che non mi sarei aspettato: ho dovuto confortare un collega, ma un collega più grande di me, vivo mentalmente e politicamente, non una ameba strisciante di quelle che non si fanno domande, uno che si interroga e si domanda perché le cose vanno così come stanno andando. 
Il mio collega è uno che ha sempre lavorato, da quando è scoppiata la crisi anche più di altri, ma sono un paio di anni che anch'egli ha, purtroppo, cominciato ad arrancare, ed ora si ritrova senza prospettiva lavorativa. Come tanti di noi, ma nella mia testa il mal comune non è mezzo gaudio, è solo mal comune. Fortunatamente, egli ha cominciato a farsi delle domande prima di arrivare in fondo. 
Quelli così, in genere, non hanno grandi episodi di depressione, perché l'inquisizione li tiene svegli, allerta, e non gli permette di ripiegarsi su loro stessi. Eppure, con me si è lasciato andare e mi ha confessato di star male, di essere in ansia, di capire che quello che gli accade intorno, quello che in particolare accade nel nostro lavoro lo sta portando a star male, capisce che è vittima di un perverso meccanismo che lo induce al malessere, e questo, mi ha detto, non gli piaceva. 
Non ne ero meravigliato, per due motivi: il primo è che ci sono passato anche io, il secondo è che se uno è consapevole del malessere strisciante che di lui si sta impossessando, la situazione è meno grave di quel che può sembrare. 
"Vedi - gli ho detto - il motivo per cui sono grato ad Alberto Bagnai come a un fratello, e al suo blog con tutti quelli che lo frequentano abitualmente, è proprio questo, stavo per ammalarmi, con le stesse sensazioni che tu provi ora, e invece ho capito che non avrebbe avuto senso, perché non dipendeva da me; il sistema è costruito in modo tale, vedi, da farti credere che se ti impegni arriverai, ma poi, quando non arrivi, la colpa resta solo tua, perché la sensazione netta che il sistema ti rimanda è che non ti sei impegnato abbastanza; e invece non è così - capii - perché tu fai tutto quello che è nelle tue possibilità e anche qualcosa in più, eppure Il Sistema non ti fa passare; è la bufala della meritocrazia: tutti sono certi di essere meritevoli (perché nessuno direbbe di se stesso che non lo merita), ma questo comporta anche che poi tutte le colpe di un possibile fallimento ricadranno solo su di te. E invece non è così, non sei tu il colpevole, è Il Sistema che è fatto male o per meglio dire, è malato. Ed è contagioso, per cui il risultato è proprio questo: che alla fine sei tu che ti ammali." 
"Sì, è vero - mi ha risposto il collega - ci stavo ragionando proprio in questi giorni, tu fai mille sforzi, eppure ci sono una serie di cose che ti schiacciano, ti sopraffanno. E noi non siamo gente che non ha fatto nulla in vita sua, che non ha meritato, che non ha raggiunto risultati. Cazzo, abbiamo fatto ruoli, protagonisti, coprotagonisti. Quindi non avrebbe senso pensare che sei uno che non ha mai fatto un tubo, semplicemente ora ti stanno come espellendo piano piano, a mano a mano. Io, in questo momento, sono come un esodato. Ho qualche anno più di te, un tempo sarei arrivato finalmente alla pensione. Ora invece in pensione non mi ci mandano, ma non ho un lavoro, quindi non ho un reddito. Tecnicamente sono come un esodato. E siccome, oltre tutto, ho una compagna che invece lavora e guadagna discretamente, non posso nemmeno accedere a tutta una serie di forme di sostegno statale, perché fai l'Isee e praticamente non risulti povero, perché la tua famiglia ti può mantenere. Ma si può pensare alla soglia dei 60 anni di essere mantenuto dalla famiglia? Sei tu che dovresti mantenere la famiglia, o quanto meno dare il tuo giusto contributo."
"Concordo, sono nella medesima situazione. Questa cosa dell'Isee, sarà pure un parametro equo che hanno trovato, ma io la trovo irrispettosa della dignità personale."
"Ma certo, perché tu non puoi dare il tuo contributo alla vita di famiglia, e la cosa assurda che sei incatenato all'altra persona, come in uno stato di dipendenza, di sudditanza. Non so se riesco a spiegarmi."
"Perfettamente. Se un giorno ti svegli e capisci "non ti amo più", non te ne puoi andare perché... non hai una indipendenza economica..."

"O per lo meno un minimo di autonomia. Ora, io non ho intenzione di andarmene..."
"E nemmeno io..."
"...e c'è anche mio figlio, ecc. Ma capisci che questo fatto dell'Isee, dovrebbe fare giustizia sociale, e invece toglie dignità personale."
"E lo capisco sì. Pensa che io dovrei fare il processo alla Sacra Rota per il mio primo matrimonio, ho tutto quello che serve, motivazioni, testimonianze... tutto. Ma per forza di cose devo accedere al gratuito patrocinio. Solo che la mia Curia non lo dà se non gli porto l'Isee. E per farlo devo chiedere alla mia compagna di darmi tutte le sue carte, tutto, anche se ha un libretto di risparmio con duecento euro sopra, io lo devo sapere e portare i documenti a loro... E a me non mi va. Quella è una cosa mia, un problema della mia gioventù, che io voglio risolvere da solo, perché devo coinvolgere lei in un fatto che non la riguarda, un fatto di quando lei non c'era... E tutto questo pur essendo chiaro che il mio reddito ha bisogno della bombola d'ossigeno. Capisco che è una idea paradossale la mia, che uno dice pure: "Ma è la tua compagna, perché deve nasconderti le cose". Ma non è così..."
"Certo, è una tua forma di rispetto..."
"E il risultato è che la causa non parte... e pazienza, il Signore capirà." 

"Secondo me, pure lui ogni tanto guarda qua sotto e si chiede: "Ma che state a combinà?", nemmeno lui ci capisce niente, a volte".
E ci siamo fatti una risata. 

Perché per fortuna noi ridiamo ancora, sorridiamo ancora, in barba a tutto, in barba al mondo, in barba agli uomini che ci hanno tolto un pezzo di tempo che avremmo potuto usare per fare forse qualcosa di buono, o per lo meno di onesto. 
La mia consapevolezza è che non potremo dire che "ci rifaremo" perché il tempo non torna. Potremo solo essere nel presente e vivere tutto quello che c'è da vivere, fino in fondo. 
Anche questa nostra faticosa risalita. 
Sorridi, compare, noi ci facciamo domande, noi in qualche modo ce la faremo, è sicuro. 

lunedì 15 ottobre 2018

LA PREBENDA DEL TEATRANTE

È evidentemente un momento di grandi cambiamenti, di pulsioni, tensioni, ribaltamenti. Comunque la si voglia vedere, qualcosa sta accadendo, e sta accadendo a livello internazionale. Nulla, appare sempre più chiaro, è racchiuso nel nostro piccolo mondo, e mai come adesso si può letteralmente vedere quanto una cosa che accade negli USA o in Germania finisce per influenzare la nostra quotidianità. 
Il globalismo è nei fatti. La sua gestione, invece, è una decisione politica. 
Perché questo benedetto globalismo c'è sempre stato, non è una caratteristica del nostro tempo. 
Si muoveva con ritmi diversi, perché legati a quella della vita in cui i fatti si sviluppavano, ma cos'è Marco Polo che va in Cina, il commercio delle spezie, le guerre per il predominio su certe rotte, l'invasione di altri territorio perché ricchi di alcune materie prime... cos'è tutto questo se non globalismo? 
Il problema è la gestione politica del fenomeno: puoi lasciartene assorbire totalmente e far sì che ogni tuo ristorante diventi un McDonald, porre dei limiti per una equa suddivisione degli spazi, impedire alla multinazionale di arrivare sul tuo territorio... In ogni caso si tratta di scelte politiche. 

Ultimamente anche la mia categoria, gli attori, è in gran fermento. E questo dato non può che essere accolto positivamente, anzi felicemente. In trenta e più anni di frequentazione del mondo teatrale, ho visto spesso gli attori cercare di compattarsi intorno a una qualche rivendicazione sacrosanta, ma regolarmente tutto finiva in una bolla di sapone. Perché? Perché fino a un certo punto c'è stato "pane per tutti", e quando hai la scrittura ogni altro problema passa in secondo piano. "Quando torno dalla tournée ci penso", pareva essere lo slogan del teatrante medio nei tempi andati (oltre tutto non c'erano nemmeno cellulari e computer), e regolarmente "le grandi battaglie" finivano come tutti i pater... 
L'attivismo di oggi, dicevo, è sicuramente forte, e si sviluppa in più direzioni. C'è da un lato chi fa delle precise richieste di tipo professionale, una serie, cioè, di modifiche alle leggi che riconoscano le specificità lavorative della categoria attoriale; c'è chi rivendica il valore della Cultura nel Paese, puntando su un piano puramente concettuale; e c'è chi si affanna in incontri con politici locali e talvolta nazionali rivendicando la necessità di maggiori investimenti. 
Ecco, questi ultimi sono quelli che suscitano in me il maggior sentimento di tenerezza. 
La mia opinione è che ciascuna delle macrocategorie che ho indicato, richiede interventi su elementi importanti, fondamentali; non tutti si pongono il fondamentale interrogativo: "Perché siamo giunti a questo punto?", o quando se lo pongono - è la mia impressione - o non vanno a fondo, o non affrontano il problema in maniera adeguata. È invece - questa sempre la mia opinione - di vitale importanza comprendere i motivi che hanno condotto alla devastazione attuale. Che non sono solo le leggi che sono state fatte, ma il motivo per cui sono state fatte. Su questo, mi spiace dirlo, ragionano in pochi. 
Ma quelli che continuano a chiedere alla politica più investimenti - dicevo - sono quelli che mi fanno maggiore tenerezza. Perché la sensazione che si ha a leggere i resoconti degli incontri o alcune loro esternazioni, è di un qualcuno che viva totalmente sganciato dalla realtà. 
"Il Governo DEVE investire in Cultura"... siamo d'accordo. 
"La Regione DEVE investire in Cultura"... e siamo ancora d'accordo.
"Il Comune DEVE investire in Cultura"... e arisiamo d'accordo. 
Fortunatamente per costoro le Provincie sono state "abolite" dal Governo Renzi, così si possono risparmiare un passaggio (meno fortunatamente per chi non sa più a chi rivolgersi per l'erogazione di determinati servizi). 

Già. Ma se le Istituzioni i soldi non ce li hanno?
Il convincimento di costoro è che i soldi ci siano ma non vengono investiti nei loro settori quasi per una forma di infantil dispetto. Pare quasi una scaramuccia tra bambini: "Dammi il pallone", "Non ce l'ho", "Non è vero, lo hai nascosto", "No, non è vero...", "Sì, è vero, dammelo...". 
Deve essere per questo che mi fanno tenerezza, come tutti i cuccioli. 
E se fosse vero che i soldi non ci sono? Non sarà forse il caso di chiedersi il perché non ci siano? 

In verità, l'azione di questa frangia è più pericolosa di quanto si immagini, poiché dà alla politica una immagine della categoria decisamente misera, da accattoni, e non di professionisti o di imprenditori attivi e vitali, pronti a rischiare e ad assumersi delle responsabilità, ma solo alla ricerca di una sussistenza, mascherata dal discorso culturale.
Trovo encomiabili le azioni di altri gruppi che agiscono, per esempio, per il riconoscimento professionale della categoria degli attori, perché in qualche modo cercano di modificare il sistema, un'azione dalla quale tutti trarranno giovamento e per un periodo lungo.
Il contributo momentanea e non strutturale, invece, legato al politico di turno e alle situazioni contingenti, darà ossigeno oggi, ma domani si tornerà in affanno, e pian piano la sola destinazione è quella dell'oblio. 

Spero vivamente che costoro non trovino sponda nella politica (tanto, denaro in giro non ce n'è) e che si debbano ritrovare spalle al muro a chiedersi almeno per una volta: "Ma perché i soldi non ci sono?".   

giovedì 11 ottobre 2018

NON PRENDETEVELA CON I GIOVANI (è questo il mondo che gli abbiamo consegnato)

Dunque il 6 di ottobre c'è stata la grande manifestazione per la Cultura. Mi dicono sia stato un successo, ma soprattutto ho il piacere di comunicare che mi ero sbagliato: la protesta non è stata strumentalizzata. Semmai un po' ignorata dai Media, ma comunque non strumentalizzata contro l'attuale Governo. 
Mentre un risultato importante i manifestanti lo hanno ottenuto, con una audizione in VII Commissione, Commissione Cultura, al Senato della Repubblica, nella quale i vari gruppi partecipanti hanno potuto presentare le loro istanze. 

Una cosa bella, un momento alto della nostra democrazia. 
Al quale non ha partecipato, come hanno evidenziato alcuni senatori presenti, il Partito Democratico. 
Le motivazioni sono diverse, ci è stato detto in un orecchio, per esempio il fatto che la manifestazione sia stata giudicata da qualcuno un po' troppo grillina; ma molto probabilmente, come da altra "soffiatina", perché il principale "imputato" era proprio il PD con le sue riforme, e nello specifico l'ex ministro Franceschini. Siccome il piddino non si smentisce mai (vedi alla specifica voce del Glossario), non ammette colpe o errori, si ritiene perfetto in pensieri opere e parole... semplicemente non ascolta e rifiuta il confronto. 
Poco danno, tanto ormai il re è nudo. 

Qualcuno ha mestamente notato che alla manifestazione non c'erano giovani attori, che si è provato a coinvolgerli, ma chi ha tentato è stato "guardato come un marziano che parlava un linguaggio antico e incomprensibile". 
Confesso che non mi meraviglia. Mi spiace molto, moltissimo, ma non mi meraviglia. Da anni ormai, gli obiettivi delle giovani generazioni di attori non sono i nostri e con franchezza non si sa più nemmeno bene quali siano. Io per lo meno non l'ho capito, se mai l'ho capito, e sicuramente non lo comprendo più. Forse la notorietà, nemmeno il successo, ma la notorietà. 
Non è colpa loro, è il mondo che gli abbiamo consegnato, anche noi, che avevamo la loro età quando "tutto è cominciato", colpevoli di non avere compreso, di esserci anche noi disinteressati, di aver guardato solo al nostro ombelico... Colpevoli di essere stati, insomma, come loro. 
Forse con una sostanziale differenza: il nostro era ancora il mondo dello Stato Sociale, una serie di cose erano praticamente scontate, come l'efficienza della scuola, della sanità pubblica o del sistema pensionistico, checché se ne dicesse; insomma, se non ci fosse proprio andata bene, sapevamo, quasi inconsciamente, di poter contare almeno su una mano amica che in qualche modo ci avrebbe sostenuto; l'effetto di tutto ciò era che nella nostra esistenza il danaro non era propriamente così importante. I soldi certamente contavano, averne faceva più piacere che non averne per mille motivi facilmente immaginabili, ma a quanti di noi veniva in mente, a meno di trent'anni, che forse era il caso di farsi una pensione integrativa o una assicurazione sanitaria? i nostri pensieri principali erano dedicati ad altro, soprattutto al lavoro e al piacere che ne traevamo, complice anche un'altra consapevolezza: c'erano spazi di vita per tutti. 
In fondo, a guardarlo bene, il nostro mondo non era competitivo, e questo, a differenza di quanto potrebbe credersi, liberava e moltiplicava la creatività. L'urgenza creativa era una necessità dell'anima e non della sopravvivenza quotidiana.
Oggi, invece, questi ragazzi sono immersi in un mondo che è assolutamente basato sulla competitività (che per sua natura non comprende la socialità se non come "elemosina"), e tutto quello che li salva e li salverà è solo il danaro. Chi ne avrà, potrà risolvere la maggior parte dei suoi problemi, altrimenti sarà una vita di serie e continue difficoltà. 

Essi sono immersi in questo mondo, ne sono impregnati, totalmente, e con grande difficoltà arrivano a rendersi conto che il loro nemico non è il collega con cui si ritrovano in competizione, ma il sistema nel suo complesso che li ha posti in una competizione perenne. 
Il mondo in cui sono nati e cresciuti non prevedeva già i diritti dei lavoratori, o se li prevedeva li andava annacquando e/o sbriciolando, sono stati prima "generazione mille euro" e oggi sono "generazione riders", la cui massima prospettiva è andare all'estero, divenire migranti, divenire sradicati nella illusione di essersi costruiti una vita migliore. 
Il distacco che questi giovani hanno con noi è prima di tutto culturale, e dunque linguistico, come notava giustamente il collega del post su FB; per loro, noi, che abbiamo solo 50 anni, siamo già antichi e incomprensibili. Come potete pensare che sappiano cos'è un "comitato di Compagnia" quando non hanno mai visto una vera Compagnia?! Come si può immaginare che partecipino a manifestazioni sui diritti quando non li hanno mai visti i diritti; sarebbe come chiedere ai "riders" di manifestare per il ripristino della scala mobile. 
Tutto quello che questi giovani conoscono è la rabbia

L'operazione cercata dal potere globalista di sradicare, di troncare i legami di fondo con le proprie origini culturali è quasi riuscita, e in questo quasi c'è la nostra possibilità di rimettere tutto nella giusta carreggiata. E al di là di quello che certe ideologie politiche possono avere fatto alla nostra professione, dovremo un giorno, noi "antichi e incomprensibili", interrogarci profondamente su cosa abbiamo fatto noi alla nostra professione, ché se è certo che la politica ci ha fatto molto male, molti, troppi di noi hanno fatto nulla per evitarlo (anche perché non avrebbero mai messo in discussione la loro parte politica), mentre gli altri restavano indifferenti. 
Ancora oggi, di fronte a questa palese debacle trovo colleghi il cui unico interesse è vedere come possono rimediare una scrittura, senza domandarsi perché non la trovino e perché non la trovino per come un tempo era, lunga e correttamente retribuita. Non sono tanti, ma ancora ci sono... e con franchezza sono situazioni nelle quali c'è poco da fare: o non ci arrivano o non ci vogliono arrivare, in entrambi i casi ci si perderebbe tempo. Chi opera per un cambiamento lo fa anche per costoro e non ha alcun problema nel farlo, perché tutti hanno diritto, tutti. 
Con i giovani, però, possiamo prendercela fino a un certo punto, semmai, come il collega nel post, dispiacerci, ma non altro. 
Siamo noi che in qualche modo abbiamo contribuito alla creazione del "casino", a noi, finché ne avremo le forze, tocca porvi rimedio, prima ancora che a loro. Tutto quello che va in questa direzione, come la bella audizione in commissione Senato, è un ottimo passo. 

domenica 30 settembre 2018

DILETTANTI IN CATTEDRA, ACCORDO MIUR-FITA (cari attori, dal 6 ottobre trovatevi un lavoro)


Cominciamo col dire che questo sarà l’ennesimo post lungo.
A me non piace fare post lunghi come non mi piace leggerli (e soprattutto rileggere i miei dopo che li ho scritti!), ma le cose che devo raccontare, non sono purtroppo note a tutti, a volte nemmeno a tutti gli addetti ai lavori, e quindi c’è la necessità di far capire e di far capire bene. Inoltre, in casi come quello che state per leggere, le cose da dire sono molte e intrecciate tra loro, stesso dicasi per le considerazioni da fare. Con estrema franchezza preferirei cavarmela in venti righe ed economizzare anche sul tempo (che mi è prezioso), ma pare proprio che non si possa fare, e questo mi fa incavolare più di quanto possiate immaginare, più di quanto già non lo sia proprio per quel che mi tocca raccontarvi.



Diciamo che sono arrabbiato.
Diciamo che sono molto arrabbiato.
È uno di quei periodi che “mai ‘na gioia”, nemmeno nelle cose accessorie come il Mondiale di pallavolo o di ciclismo, il Napoli che sbanda pesantemente a Torino con la Juve e i numeri del Lotto che non si fanno vedere nemmeno col binocolo, la festa di San Matteo a Salerno è stata di una noia tremenda e quando ci sono state le ultime giornate buone per andare al mare erano quei fine settimana targati: “Non avvicinarti se non vuoi essere inghiottito dalle sabbie popoli”.
Ma il condimento dei condimenti arriva stamattina, in una bella domenica di settembre.
Già. Si avvicina questa benedetta Manifestazione per la Cultura, il 6 ottobre a Roma, che vedrà insieme tutti i comparti del mondo culturale italiano, dai museali ai teatranti, e ti sbucano fuori notizie che prima ti lasciano di sasso, poi ti fanno perdere le staffe.
Così, in questa intervista "multipla", nel pezzo dedicato al rappresentante degli attori, gruppo Facciamo La Conta (di cui anch’io farei parte, porca paletta!), scopro che, per l’insegnamento del Teatro nelle scuole, il MIUR ha stretto un accordo con il FITA.
In questo momento qualcuno starà pensando: “E chi se ne frega”, qualcun altro: “E chi sono ‘sti due”.
Rispondo a tutti, compresi i mister chissenefrega, perché questi sono poi sempre i primi che quando scoppiano i problemi si lamentano. E dunque non ci vengano poi a dire che nessuno glielo aveva detto.

Il MIUR è, come dovreste sapere se siete cittadini di questa Nazione, il Ministero Istruzione Università e Ricerca, cioè quello che una volta chiamavano molto più semplicemente Ministero della pubblica istruzione, poi ci hanno messo insieme l’Università e la Ricerca e ne è venuto fuori l’acronimo. Perché una cosa vi deve essere chiara: noi non accorpiamo i ministeri per pubblica utilità, ma sulla base della bellezza dell’acronimo: MPI (ministero pubblica istruzione) non suonava bene, e quindi, dopo vari esperimenti, siamo giunti a MIUR, con l’accento sulla I e non sulla U, mi raccomando altrimenti sembra il miagolio di un gatto, o il chiù di pascoliana memoria.
Poi c’è il FITA, cioè: la Federazione Italiana Teatro Amatori.
Praticamente una federazione di gruppi teatrali di dilettanti.

Bene. Più di due anni fa, prima dell’arrivo del Ministro Valeria Fedeli al MIUR, quando c’era il Ministro Stefania Giannini, furono emanate delle linee direttive per l’insegnamento del teatro nelle scuole, non più inteso come materia extrascolastica, ma come un insegnamento con la stessa dignità degli altri, con il pieno diritto di essere nei programmi scolastici e non più nelle “attività del pomeriggio”.
Un salto di qualità enorme, soprattutto perché si riconosceva che la Recitazione, ancor prima che il Teatro, è una vera disciplina formativa.
Io che ho insegnato Recitazione nell'unico liceo teatrale d’Italia, il “G. Erba” di Torino, tutto questo lo sapevo già, ma figurati se qualche capoccione viene a chiedere a chi fa le cose che tipo di valore possono avere…
Ho visto ragazzi con tre in matematica o quattro in storia, recuperare voti su voti dopo un serio percorso di formazione teatrale.
Perché a differenza di quello che si crede, la recitazione non è gioco e divertimento, la recitazione è disciplina, una disciplina che ti entra nell’animo e ti modifica senza che tu te ne accorga. Così come ho visto ragazzi appassionarsi non tanto al teatro quanto alla letteratura e alla scrittura, o imparare a mettere ordine nelle loro cose, interiori e esteriori. Ho visto con piacere, ragazzi smetterla di farsi “le canne”.  
L’insegnamento della recitazione non prevede che tutti debbano diventare attori, perché non tutti possono diventare attori, come non tutti possono fare i pittori o i ballerini o gli architetti o gli avvocati, ma prevede che tu compia un esercizio di disciplina e sulla disciplina, che tra le altre cose ti insegna che per raggiungere un risultato, per ottenere un piacere devi fare una fatica.

Io so benissimo che a molti di voi sembra un fatto normale, ma guardate che per la gioventù di oggi, abituata ad ottenere facilmente le cose (e non propriamente per loro colpa), questi non sono dati scontati. Un giovane di oggi che cerca per esempio il significato di una parola, non deve alzare il culo dalla sedia per andare a prendere il vocabolario nella libreria come dovevamo fare noi. Apre il suo smartphone collegato a internet, digita la parola, trova la risposta. Ed è così per tutto, per tut-to!
Certo, ci sono quelli che studiano danza, o che fanno sport o si esercitano con la musica che apprendono le stesse cose. La vulgata, purtroppo alimentata da troppi nostri importanti attori, è che invece con la recitazione ci si diverta. I miei ragazzi, posso portarveli quali testimoni, hanno imparato che non è così, e hanno appreso il gusto del piacere che arriva dal sudore, e dalla corretta speculazione intellettuale.
Perché l’organo maggiormente sollecitato nella recitazione è il cervello, in mille modi che ora vi risparmio, come il comprendere, il pensare, il prevedere, il programmare, il rilevare lo spazio, allenare l’ascolto, il percepire il suono e il suo senso, ecc. ecc. ecc.
(e “l’immedesimazione” non c’entra un cazzo,
“l’immedesimazione” non c’entra ...,
“l’immedesimazione” non c’entra ...,
“l’immedesimazione” non c’entra ...,
“l’immedesimazione” non c’entra ...,
così come “l’improvvisazione”,
così come “l’improvvisazione”,
così come “l’improvvisazione”,
così come “l’improvvisazione”,
così forse ci capiamo subito anche su queste stronzate cosmiche delle quale un giorno ci toccherà pesantemente fare giustizia!).

La Recitazione è un esercizio di rigore e di controllo potentissimo che agisce nel profondo dell’anima strutturandola e aiutandola a crescere.

Ora: tutta questa roba, evidentemente di una delicatezza estrema, vi pare possa essere messa nelle mani di un gruppo di dilettanti?
Vi pare che l’animo dei vostri figli possa essere messo nelle mani di un gruppo di dilettanti?
Se il medico vi ordina dei massaggi dal fisioterapista, andate da un fisioterapista laureato o andate dalla cinesina che vi massaggia sulla spiaggia sotto l’ombrellone?
Se un vostro caro ha bisogno di fare delle flebo, cercate un infermiere professionale o fate venire la portiera del palazzo che sa fare le iniezioni?
Il signore che tiene la scuola calcio, o insegna nuoto nella piscina dove portate il vostro bambino, ce l’ha o no uno straccio di diploma che attesti una sua specifica competenza passata attraverso un minimo di studi, oppure mettete il corpo di vostro figlio nel periodo della crescita, nelle mani del vostro amico cassiere di banca appassionato di calcio che guarda tutte le partite alla tv?
Quando pagate le lezioni di piano, volete o no uno che abbia almeno uno straccio di diploma al conservatorio? E immagino che lo stesso pretendiate per la danza, dato che non vorrete che la vostra bella bimba si rovini qualche tendine…
Potremmo continuare per ore.
Quando però si parla di Recitazione, quando si parla dell’arte del fingere (“il teatro è finto, non falso!”), allora va bene chiunque?
Anche uno che se vostra figlia ha un difetto di pronuncia magari glielo fa peggiorare?
O che magari le fa compiere dei movimenti azzardati che possono crearle problemi?
O che le faccia compiere azioni “spregiudicate” sotto molti punti di vista così da crearle inibizioni invece che aiutarla a togliere timidezze?
Perché è questo, cari genitori, che non vi è chiaro, e che vi dovrebbe spingere a richiedere la professionalità del fisioterapista laureato: recitare vuol dire toccarsi, abbracciarsi, entrare in una intimità dell’animo ancor prima che del corpo, che non ha limiti; o se ne ha, questi possono essere splendidamente interessanti o decisamente pericolosi; che sia farsa o tragedia ci si allena a spingersi sul baratro delle emozioni, sempre, si lavora sui sentimenti, sempre.
E vi pare che tutto questo, nel momento in cui sono coinvolti i vostri figli, magari in quella difficile età di formazione tra i quattordici e i diciotto anni, possa essere messa in mano alla simpatica cinesina che fa il massaggio sulla spiaggia? Perché è di questo che stiamo parlando.

Ma tranquilli, se non ve ne volete occupare, ebbene il Ministero ha deciso per voi, e io voglio sperare che voi non lo troviate normale.
Noi attori non lo troviamo normale, anche se – ed è qui che inizia la mia arrabbiatura – abbiamo dato poco, pochissimo spazio a una questione così delicata sotto più punti di vista: quelli esposti che riguardano il profondo valore delle professionalità, e quelli pratico-lavorativi, perché è evidente che questo dell’insegnamento nelle Scuole, in un momento di crisi economica così profonda, poteva essere un interessante sbocco per molti di noi.
Invece lo Stato, anzi i Governi, anzi nello specifico i governi del Partito Democratico, stabiliscono che un professionista o un amatoriale sono la stessa cosa, decidono che quando il medico vi dirà di fare della fisioterapia potrete anche andare dalla simpatica cinesina sulla spiaggia.

Il protocollo d’intesa MIUR – FITA  è datato 27 marzo 2018, con un curioso esergo: “Rafforzare il rapporto tra scuola e mondo del lavoro”.
L’ennesimo regaluccio fattoci, dunque, poco prima che il Governo Gentiloni lasciasse le stanze dei bottoni? In particolare vorremmo tanto che ci fosse data la certezza che non sia stato per fare un piacere a qualcuno. Vorremmo davvero tanto essere rassicurati in tal senso, perché ci sono curiose assonanze che portano a pensar male e, seppure peccatori, non vogliamo in alcun modo azzeccarci; come ad esempio il fatto che il tesoriere del FITA si chiama Giuseppe Minniti ed è, da quanto leggiamo in internet, di Reggio Calabria come l’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. Solo un caso? Speriamo di sì.
Ma tralasciando dietrologie e complottismi, ci piacerebbe che nel concreto i responsabili di questo accordo ci spiegassero l’esergo. “Rafforzare il rapporto tra scuole e mondo del lavoro”. Ecco: qual è il mondo del lavoro dei dilettanti?
Perché nel sito, come potete vedere, tale FITA si dichiara come associazione di compagnie amatoriali.
Ma poi nel protocollo potrete trovare che: “è una federazione di associazione che ha la finalità di stimolare e sostenere la crescita culturale (…) si propone altresì di favorire lo sviluppo di iniziative destinate alla formazione artistico-culturale e sociale (…) già da anni ha avviato percorsi di alternanza scuola lavoro con diverse realtà scolastiche in tutta Italia e, a tal fine, ha già organizzato incontri di formazione per i propri iscritti, nella piena consapevolezza che l’alternanza scuola lavoro è una metodologia didattica, con finalità di motivazione e accrescimento delle competenze delle studentesse e degli studenti (…) rende disponibili le professionalità della propria struttura organizzativa e del proprio management, per favorire lo sviluppo di percorsi di alternanza scuola lavoro”.
La lettura di queste sedici pagine è particolarmente interessante e vi invito a farla (oltre tutto non è particolarmente complicata), ma c’è un punto, all’art. 3, che mi ha decisamente interessato; quando si dice che la FITA si impegna a: “ricercare e selezionare, anche attraverso accordi di rete, i comitati regionali e/o provinciali e le associazioni ad essa iscritte che, a livello territoriale, si rendano disponibili ad accogliere studentesse e studenti in progetti di alternanza scuola lavoro”.
Ora, devo essere io che non capisco. La FITA dice nel suo sito di essere “una federazione di associazioni culturali, artistiche e in particolare di teatro amatoriale senza fini di lucro, apartitica e aconfessionale”. Però si occupa di progetti alternanza scuola lavoro, di fare praticamente da mediatore (se ben ho compreso) tra la scuola e chi volesse studenti per l’alternanza, ma soprattutto, la FITA pare davvero essere consapevole di essere una associazione di amatoriali, cioè di dilettanti, infatti dice nel protocollo che ha organizzato incontri di formazione per i propri iscritti perché sanno che l’alternanza è una metodologia didattica. Che dunque ai suoi iscritti manca?
E a tal fine: rende disponibili le professionalità della propria struttura organizzativa e del proprio management, per favorire lo sviluppo di percorsi di alternanza scuola lavoro.
Ma insomma il MIUR con chi ha sottoscritto un protocollo: con una associazione di amatoriali o con un gruppo di professionisti?

Resterà un mistero, come mille altre cose in questo Paese se… se qualcuno non ci metterà seriamente le mani. Si spera vivamente lo faccia questo Governo dal quale in tanti ci aspettiamo tante cose, col rischio che non abbiano nemmeno il tempo per farle.
Di sicuro, mettere le mani nella materia teatrale è un vero problema, un ginepraio orrendo che si è incancrenito strato su strato, incrostazione dopo incrostazione.
E la colpa di questo, come ho già avuto modo di scrivere, è anche dei teatranti stessi, che vivono ai margini del mondo, preoccupati solo del loro personalissimo contingente e strafottendosene di tutto quello che gli accade intorno, salvo poi lamentarsi del fatto che il mondo non si occupa di loro.
Quanto vi ho sommariamente raccontato su questo accordo MIUR – FITA è di una gravità inenarrabile, ma ho il vago sospetto che i miei colleghi non lo abbiano compreso, e soprattutto non abbiano compreso il perché di certe azioni politiche. Che sono studiate, mirate, che fanno parte di un piano, che non nasce dalla generica cattiveria o dalla stupidità di un ministro, ma da un progetto preciso di…
Che c’è? Ora volete sapere?
Sapete cosa vi dico? Che non ve lo dirò. Perché ve l’ho detto tante di quelle volte, in pubblico e in privato che sono stufo di ripetere a chi non solo non vuole ascoltare, ma quando ascolta e dice di avere capito poi non agisce in conseguenza. E allora a cosa serve?
Qui, miei cari, la colpa non è del FITA che fa giustamente il suo gioco, il suo interesse, ma di chi non ha voluto ascoltare e studiare e ragionare e apprendere quando era il momento, di chi ancora oggi si rifiuta di comprendere le cause in nome di ideologie che gli scattano dentro in automatico come il pulsante spostato da On-Off.
Che continuino pure, costoro, a nutrirsi della informazione, che pure sanno essere distorta, dei giornaloni e dei telegiornaloni di regime, il destino che li attende è esattamente quello programmato dal Potere: la morte del professionismo artistico; fatto salvo un gruppo ristretto che servirà a propagandare la “cultura di regime”, il circolo dei buoni. Il resto saranno solo dilettanti. Trovatevi un lavoro, è meglio, perché il vostro caro teatro diverrà soltanto il divertimento dei fine settimana.
Lo so, in cuor vostro siete certi che voi entrerete in quel ristretto numero di eletti della “cultura di regime”, e starete protetti.
Vi do una notizia: ne siete già fuori. Il Potere ha già fatto i suoi giochi e voi non siete nel novero dei prescelti. Forse insistendo, prostrandovi molto, abdicando totalmente il senso della vostra dignità potrete sperare nelle briciole che cadranno dal tavolo. E forse qualcuno di voi avrà anche un breve periodo di fama, se servirà al Potere, che una volta che vi avrà spremuti vi getterà via.
Tante volte mi è capitato di ripeterlo: di deflazione salariale in deflazione salariale, alla fine vincono gli amatoriali. E così è successo, al punto che adesso lo Stato lo ha scritto in un suo documento ufficiale.

Ma c’è un’altra cosa più grave sulla quale dovreste riflettere, cari i miei colleghi, e che dovrebbe investire tutte le vostre convinzioni, portandovi finalmente a tagliare quel cordone ombelicale col voi stessi di prima conducendovi alla salvezza del teatro italiano e quindi anche vostra: ricordate tutti la triste frase del ministro Tremonti: “Con la Cultura non si mangia”; la tenete di sicuro a mente, visto che la disse uno del governo di quello, e che ci avete costruito decine di pubbliche rimostranze.
Bene, Tremonti lo disse, ma i nostri cari amici de sinistra, i governi del vostro caro PD, quelli degli ultimi sette anni da Monti a Letta a Renzi a Gentiloni, ‘a sinistra che avrebbe dovuto difendere i lavoratori, i valori della Cultura, della Storia del Paese, delle sue ricchezze e bellezze, della sua Arte, lo hanno fatto: hanno strutturato un sistema nel quale “con la Cultura non si mangia, e non mangerete”.
Trovatevi un lavoro, nuovo popolo di dilettanti.  


PS - Come ho già avuto modo di dire in pubblico e in privato, alla manifestazione del 6 ottobre non ci sarò. Ho altro da fare, andare a San Giorgio Canavese a un incontro con Gero Grassi sul "caso Moro" che mi sta molto a cuore, forse più a cuore delle sorti della Cultura italiana perché credo che se la Cultura sta come sta... le ragioni vanno anche cercate in quel brutto fatto.
E poi perché come ho detto, sempre in pubblico e in privato, in questa manifestazione non credo. Per due motivi:
1° le manifestazioni non servono più a un tubo, lasciano il tempo che trovano e sono anche odiate da quelli che vanno in macchina "e nun ponno passà perché ce sta 'a manifestazione mortacci loro", ma soprattutto: se sono pacifiche finiscono a pag. 20 di Repubblica, se diventano violente finiscono in prima pagina perché i violenti, i fascisti, gli scontri, i black block ecc. Questa volta, essendo Cultura, avrà il richiamino in prima, l'eco dura un giorno, massimo due e finisce lì.
2° perché in questo momento, la manifestazione sarà strumentalizzata dai Media di regime che la agiteranno come "la manifestazione degli operatori della cultura contro il governo dei buzzurri"; lasceranno anche parlare i rappresentanti delle varie categorie, i quali potranno anche specificare che è contro le leggi fatte da Francescini (160/2016), ma poi continueranno imperterriti per la loro strada. 
Scusate, ma io alle strumentalizzazioni di chi ha sostenuto e sostiene le politiche e i politici che ci hanno ridotto come ci hanno ridotto NON CI STO.
E con il vostro permesso me ne vado da Gero Grassi, a parlare di Aldo Moro. 

giovedì 6 settembre 2018

LA MENZOGNA CULTURALE - LÌ DOVE IL TEATRO MUORE (5)

Questo è un curioso Paese, dove la menzogna trova generalmente terreno più fertile della Verità. Non so se in altre nazioni sia lo stesso, per carità, ma devo osservare, purtroppo, che dai noi è così.
Il perché non me lo sono ancora spiegato, deve far parte del sentimento di autorazzismo italico. Di sicuro nel mio settore (che ricordo essere il Teatro) è passata una favola, gonfiatasi soprattutto negli ultimi anni, secondo la quale la Cultura (quella con la famosa C maiuscola) si sia fatta nel teatro pubblico (gli Stabili) e il privato (le Compagnie di giro) abbia invece fatto un teatro più popolare e mirato al guadagno, dunque di più basso valore culturale (e conseguente c minuscola).


Non so perché, ma la mia nettissima sensazione è che la riprova del funzionamento del Paese passa per la constatazione che il suo Teatro sta andando in senso opposto.
In questo periodo, infatti, il Paese è spinto sul piano del "libero mercato" e lo stesso si è fatto con le ultime normative sul Teatro. E come si può notare, le cose non vanno per niente bene. 

Più crudelmente, da quando i bancari hanno cominciato a conrnificarsi e divorziare con la velocità di una catena di montaggio chapliniana, gli attori hanno preso a far famiglia stabile, non si separano, allevano i figli e pagano il mutuo. 
Non me ne vogliano i bancari - presi da sempre ad esempio del più manierato piccolo borghesismo - ma questi sono davvero i terribili segnali che qualcosa non funziona! 

Facendo dunque una piccola riflessione mi sono dato la riprova che la storia del Teatro Stabile come luogo deputato della produzione culturale è una emerita bufala. 
Basta infatti pensare alle tante produzioni del Teatro Eliseo di Roma che hanno avuto nel corso degli anni protagonisti come Visconti, Stoppa-Morelli, la Compagnia dei Giovani, la Compagnia Lavia, ecc. Era compagnia privata la “Compagnia dei quattro” di Franco Eriquez, poi suddivisasi in Compagnia Mauri, Compagnia Moriconi, ecc. Erano private le Compagnie di Eduardo e di Peppino De Filippo, quelle milanesi del Teatro Carcano di Giulio Bosetti o del Pier Lombardo di Franco Parenti, così come private erano le compagnie di Vittorio Gassman, di Giorgio Albertazzi, di Carmelo Bene…

Potremmo continuare per intere pagine, ma credo bastino questi pochi nomi per smontare la favoletta che la Cultura sia passata in questo Paese solo per i teatri stabili. 
Mi si dirà che molti di quei protagonisti sono spesso stai scritturati dal Teatro pubblico. Vero! Ma questo abbatte l'idea che il contributo culturale delle compagnie teatrali private in questo Paese sia stato immenso? NO! NO! NO! 
Vogliamo fare l'elenco di testi e autori portati in scena da compagnie come Visconti-Stoppa-Morelli, le innovazioni di De Lullo- Falk-Valli e soci, il coraggio culturale di Gassman, di Bene, o Parenti?
Lasciamo perdere, vero? 

Occorrerà invece fare una piccola meditazione su quale sia, realmente, in teatro, il valore culturale.
Nel frattempo, io so che a molti di voi, soprattutto teatranti, questa mia nota parrà scontata, quasi inutile. Però, proprio a costoro io sento di volere rivolgere un invito: a riflettere sul fatto che le cose date per scontate sono certamente vere come in questo caso, ma spesso il non ripeterle consente alla menzogna ripetuta mille volte e mille volte sostenuta, di sostituirsi ad esse come una novella verità.