mercoledì 21 settembre 2016

Era la festa di San Matteo.













Oggi a Salerno è San Matteo, è la festa del santo patrono.
Oggi a casa mia è San Matteo.
Casa mia è tutta la città.
La gente uscirà per le strade sin dalla mattina presto come se fosse un giorno normale, ma in cuor loro tutti sanno che non è un giorno normale. Si lavorerà mezza giornata, e qualcuno non andrà proprio al lavoro ma saranno pochi; poi a pranzo ci saranno quei tanti, tantissimi che rispetteranno le tradizioni, e allora sulle tavole imbandite arriveranno gli spaghetti con le vongole, possibilmente le nostre, quelle del nostro mare se ancora se ne trovano, e poi le mezze triglie fritte, e poi la regina delle regine: la milza. Ma la milza come la facciamo noi, cotta affogata nell'aceto, che la sgrassa, e imbottita di prezzemolo aglio e peperoncino che "toglilo il ripieno, ch'è pesante, poi non lo digerisci", "ma è buono...", "Lo so ma è pesante, poi non ti lamentare". E alla fine le paste che ognuno prenderà dal proprio pasticcere di fiducia, ma non potrà mancare la Santa Rosa, la mamma della sfogliatella, grande fragrante, imbottita di crema e con quell'amarena sopra che i bambini si contenderanno.
Sono giorni, io lo so, che si sente avvicinarsi la festa, lo senti nei vicoli, quando l'odore dell'aceto che cuoce la milza si spande per le strade, ed è un profumo che ti inebria, leggero e forte insieme, aspro e dolce come la città. E ti fermi, a annusare per strada, un profumo che sai essere solo tuo, solo della tua città, questo è sicuro. Perché i palermitani la friggono la milza, magari nella sugna, solo noi la facciamo così. Solo noi.


Poi faremo un riposino, perché il pranzo è stato sostanzioso. Ma non rilassarti del tutto, perché oggi pomeriggio si scende, si va verso il cento ché bisogna andare a vedere la processione, bisogna andare a salutare il santo. Il santo e gli altri quattro santi che lo accompagnano, ché tanto tutti gli anni ci tocca chiedere come si chiamano, ché sempre uno ce lo dimentichiamo o tutti e quattro, ma gli vogliamo bene lo stesso perché sono i santi che stanno col nostro santo. Però non lo so se ci andiamo in centro, mica mi va di prendermi tutta quella confusione e quella ressa di gente, che poi la processione passa e finisce che non si vede niente, i bambini piangono, il parcheggio non si trova, "Nina, torniamo a casa", "E aspe', fammi vedere un altro poco", "Ma che vuoi vedere che qua non si respira; Nina, 'a criatura sta chiagnenno", " E aspe'..."
Passa la processione, il vescovo, canti, saluti, benedizioni... poi ce ne torniamo a casa, ma io stasera non ceno, tengo ancora la pasta sullo stomaco. La pasta? Tu ti sei mangiato due Santa Rosa intere da solo che hai fatto schifo e mo' la colpa è della pasta che davvero ne ho fatta poca poca? Noo, ma che dici, quella è la pasta...
E piano piano tutto torna normale.


Ma non del tutto, un ultimo brivido resta, ed è per i più ostinati. la mezzanotte, i fuochi a mare.
Restiamo in giro e aspettiamo, o andiamo a casa e poi scendiamo a vedere, tanto il golfo è grande, aperto, bello, liscio come una mezza luna, e per vedere i fuochi ci possiamo mettere dove vogliamo basta che stiamo vicini al mare che quelli si vedono anche dall'altro capo della città...
Io la patente l'avevo presa da poco, e papà mi chiese se lo accompagnavo a Brindisi, perché era di servizio per la partita. Non ricordo chi giocasse col Brindisi, ma non era la Salernitana, altrimenti me lo ricorderei, forse era la Nocerina, o la Cavese. Ma comunque sia lui era di servizio. Ed era domenica. Fu la prima volta che andai oltre Bari. E scoprii la superstrada che scende sul lato oriente delle Puglie. Mi sembrò una strada da far west, dritta dritta, in mezzo alla natura selvaggia, con le case che apparivano di tanto in tanto ai lati della strada come nei film di John  Wayne.
La partita finì con un pareggio, questo lo ricordo, papà scrisse il pezzo, telefonò al giornale per dettarlo, poi ripartimmo.


Quasi arrivati a Salerno, mi disse di non prendere per il centro che chissà che confusione c'era. Ah, già, è vero, pensai, è San Matteo. "Vai per dietro - mi disse papà - su per il Masso della Signora" una collina che guarda centralmente la città.
A un certo punto un botto. "I fuochi!" esclamò papà. "Aspe', aspe', fermati!".
Accostammo, e scendemmo dall'auto.
Eravamo in una posizione da principi: in alto, la città ai nostri piedi, il mare perfettamente di fronte, e nessuno, proprio nessuno intorno a noi. Eravamo soli.
Guardammo i fuochi in silenzio, come due bimbi che guardano il prestigiatore. Verso la fine papà urlò: " 'O colpo scuro, 'o colpo scuro!": invocava il gran botto finale, solo rumore, niente luce, solo rumore. E in tempo perfetto, il botto arrivò. Era finita.
"Bene - commentò - ci siamo visti pure i fuochi, meno male, ce simme fatte San Matteo, possiamo andare".
Pochi minuti, e fummo a casa, anche se lo eravamo già.

Oggi a casa mia è San Matteo, la festa del santo patrono.
Immagino quel che succederà, e non voglio sapere altro. Il tempo cambia luoghi e persone. E io immagino, e resto lontano.
Forse è meglio.
A mezzanotte dormirò: voglio sognarmi i fuochi, visti da sopra 'O masso d''a signora cu papà.
Po' ce ne turnammo a' casa. E ch' 'a Maronna c'accumpagne...
















domenica 11 settembre 2016

ANDARE A BOTTEGA: TORNARE ALL'ANTICO RESTA SEMPRE IL MIGLIOR PROGRESSO.

Trovo stamane su FB, grazie alla cara amica Giorgia Ricagni, storica dell'arte, questo interessantissimo articolo che vi propongo.
La fondamentale domanda da cui si parte è: si può insegnare a essere artisti?
Luoise Bourgeois, raffinata artista contemporanea, dalle cui riflessioni il pezzo, come vedrete prende mossa, sostiene, in un primo momento, che a divenire artisti non si insegna: lo si è o non lo si è.
In un secondo tempo il suo ragionamento si fa più articolato, ammettendo che qualcosa si può insegnare, e sono le metodologie, le tecniche.

Per quanto possa contare, sono pienamente d'accordo. Attori, per stare al mio campo, non si diventa, si nasce, si nasce per una forma di disturbo che a un certo punto ti si inchiavarda dentro e si manifesta ossessivamente. Se lo sei, sarà molto possibile che tu lo sia anche se non eserciti la professione. Altrimenti, come ripeteva sempre il buon Giulio Bosetti: "Posso fare dieci scuole di pittura, ma se non sono un pittore non lo sarò mai". La rabbia di Giulio si sfogava poi, con la domanda chiave: " Perché con il Teatro si pensa, invece, che basti studiare? Se non sei attore non lo sei!".

La "soluzione" che la Bourgeois offre alla fine è decisamente apprezzabile, e anche questa mi era già stata detta da Giorgio Pressburger, segno che gli artisti tutti, in un modo o nell'altro, meditano su questo problema: "Non si può insegnare a recitare, si possono insegnare delle tecniche, e poi ognuno deve fare da sé".

Stravinskj ebbe a dire: "La Sagra mi è passata attraverso".
Io credo proprio che funzioni così: si va a bottega, come un tempo, e si apprende un mestiere, si diviene artigiani; si fa il proprio lavoro quotidianamente, con coscienza e disciplina; poi, un bel giorno, l'arte ti attraversa, e tu nemmeno lo sai. Se è arte lo si scopre dopo, e forse non sei nemmeno tu artista a scoprirlo. I nostri avi avevano già risolto il problema: andiamo a bottega, poi si vedrà. Forse dovremmo ripensare seriamente e serenamente il passato.

Buona lettura.

PERCHÉ NON RIESCO AD AMARE SHAKESPEARE




Ci ho messo più di trent’anni per capirlo, ma finalmente credo di esserci arrivato: perché non riesco a relazionarmi con Shakespeare, con uno dei quattro, cinque più grandi autori teatrali di sempre, esclusi i tre sommi tragici greci?
Quando ero ragazzo, avrò avuto quattordici o quindici anni, non di più, la Rai trasmetteva su una neonata Rai3 un ciclo di opere del Bardo realizzate dalla BBC, ovviamente doppiate in italiano. In perfetto sicrono, la radio mandava l’audio originale inglese. Una operazione intelligente che anticipava le svariate funzioni che oggi possiamo avere con un dvd.
Seguire quelle messe in scena era davvero facile, bastava conoscere la trama, poi abbassavi il volume del televisore e alzavi quello della radio. Così facevo, e godevo, mi ricordo che davvero godevo.
“Giunto in Arte”, il rapporto con Shakespeare si è mortalmente complicato per me: non riuscivo e ancora non riesco a relazionarmi emotivamente con la sua scrittura che trovo ampollosa, prolissa, spesso al limite della noia. I miei favori vanno decisamente ad altri autori, a Cechov per esempio, ma sopra tutto a Pirandello e Goldoni. Perfino il romantico Alfieri si incastra meglio con il mio animo.
Quando mi parlano del Guglielmo, sono solito dire: “Rispetto e riconosco il genio, ma non mi piace”, stessa cosa mi accade con il Mozart operistico.
Potevo fermarmi qui, a questa semplice e lecita constatazione. Ma non sarei quel che sono se non mi fossi perpetuamente sotto sotto chiesto come mai.
Ebbene, credo di avere trovato la risposta.
Sfogliavo ieri il “Sogno di una notte di mezza estate”, opera a mio vedere noiosissima! Nulla mi interessa di fate e elfi e incantesimi e sotterfugi e magie... Tra le parti tradotte in prosa, mi compaiono sotto gli occhi delle parti in versi. Le leggo, e mi torna alla mente un passaggio dei Saggi danteschi di Borges: “Milton è stato paragonato a Dante, ma Milton non ha che una sola musica: è ciò che in inglese si chiama “uno stile sublime”. Quella musica è sempre la stessa al di là delle emozioni dei personaggi. In Dante invece, come in Shakespeare, la musica segue le emozioni. L’intonazione e l’accentazione sono ciò che conta di più”.
Ecco, mi sono detto, il problema è qui. Oggi, come allora, da ragazzo, ascoltare in originale mi affascina, la traduzione mi annoia mortalmente. Perché? Perché è evidente che prima ancora di essere Teatro, Shakespeare è Poesia, e io – non so voi – la poesia tradotta non riesco a leggerla, mi pare sempre di percorrere una strada sconnessa, dove in più punti l’asfalto ha ceduto e devi stare attento a dove metti i piedi invece di camminare senza pensieri, lasciando che il passo vada fluido e leggero. Tu e la strada non riuscite mai a essere uno.
Non conosco l’inglese - se non quelle quattro parole che tutti oggi siamo quasi costretti a masticare - ma l’ascolto dell’originale forse mi fa pienamente percepire che lì c’è una musica, musica che in italiano perde la propria intonazione, la propria accentazione, per quanto il traduttore possa essere bravo. Tradurre poesia vuol dire consentire a un’automobile di camminare, ma dopo averle dovuto togliere un pistone. E dunque può accadere che un senso di noia ti pervada perché senti chiaramente che sempre un passaggio manca al raggiungimento della pienezza.
Le tragedie o le commedie di Shakespeare che riesco a vedere e amare in teatro sono sempre state quelle che avevano un grande attore a muovere il gioco, perché il fascino derivava dall’arte di lui, prima ancora che dal testo. Ma quando lo leggo, il Bardo mi resta lontano, come una meraviglioso dipinto, che un velo posto davanti, o una faro mal piazzato, o un gruppo di turisti idioti quanto la loro guida ti impedisce di cogliere nella sua goduriosa pienezza.

È Poesia, e la poesia non si può tradurre. Non trovo altra spiegazione.