venerdì 16 giugno 2023

NAZIONALE DI CALCIO, L'ERRORE E' NELLA FILOSOFIA

Conosco l'obiezione: "Ma ha vinto un Europeo". 
Capita! 
Anche Bearzot vinse un Mondiale, anche Lippi, poi, a un certo punto, difronte ai pessimi risultati, se ne andarono o furono mandati via. 
Capita! 
Questo è il momento che Mancini venga mandato via dalla poltrona di Commissario Tecnico della Nazionale. Anche se le responsabilità non sono soltanto sue, anzi, forse le maggiori responsabilità ce le ha proprio la Federazione. 
Il problema è in una errata filosofia, o se preferite in una sbagliata visione del problema. 

Sappiamo perfettamente che in questo momento il calcio italiano non esprime grandissimi talenti, sappiamo altresì che spesso le squadre di club vanno in campo senza nemmeno un italiano tra le proprie fila. Questi due elementi sono fondamentali per comprendere il problema, assieme a un terzo di uguale importanza: che cosa vuole il tifoso? 
Capire cosa vuole il tifoso è decisamente centrale, forse più importante di tutto il resto, perché fin dagli albori del calcio la risposta è sempre la stessa: il tifoso vuole vincere.
Al tifoso non gliene importa nulla del bel gioco, è falso, falsissimo che se vede la propria squadra perdere ma giocare bene si è divertito lo stesso. Questo può accadere una volta, magari due: ma non è nemmeno questione di vederla giocare bene, è questione di vederla lottare, che è diverso. Ma comunque, uscire dal campo sconfitti ma a testa alta, può andar bene ogni tanto, ma soltanto perché vedi che la tua squadra è viva e presente, e speri nella prossima partita. Per il resto, la teoria sacchiana, che fu funzionale alla nascita delle televisioni commerciali e alla globalizzazione della tattica (e dunque al suo impoverimento), secondo la quale il tifoso se vede la squadra giocare bene anche se perde si è divertito lo stesso, è - lasciatemelo dire - una sesquipedale stronzata! 

Però, come fai a vincere se non hai grandi giocatori?
L'Italia, lo sappiamo, è il paese dei campanili e delle provincie, e proprio dalla provincia venne la risposta a questo annoso quesito, con una tattica che poi il mondo ha conosciuto come "calcio all'italiana" o "italianismo", e che nacque, come storiografia ha riconosciuto, a Salerno, e che poi si consolidò in un'altra piccola provincia del Bel Paese: Padova. Ma non basta, quando poi l'italianismo arrivò nelle grandi squadre, vedi Milan e Inter, dunque avendo a disposizione anche i grandi giocatori, fu un vero e proprio botto sentito da Est a Ovest! 

Orbene: la Federazione è ancora convinta - peccato che risale ai tempi di Matarrese - che sia necessario un allenatore, o meglio un CT, che dia un gioco alla Nazionale perché questa possa fare spettacolo (e quindi ascolti tv e quindi pubblicità e introiti, perché alla fin fine sempre intorno al soldo giriamo).
Ma non abbiamo gli uomini per fare spettacolo. E dunque? 

E dunque proprio adesso, proprio in questo grigio periodo bisognerebbe fare italianismo a tutta forza, fregarsene dello spettacolo e cercare di vincere (che poi è il solo metodo per riprendere a fare ascolti e incassi...). Anche perché, paradosso dei paradossi, mentre noi abbiamo dimenticato il "difesa bloccata e contropiede", questa idea di gioco è ritrovabile bene o male in tutte le altre nazionali. 
Spero sia chiaro che Mancini non è l'uomo giusto per tutto questo. 
Rispettabilissimo tecnico, ma forse quel ruolo non è per lui, o forse ha già esaurito la sua vena migliore. 
Chi mettere al suo posto? Altro problema, perché finché la Federazione non cambia filosofia saremo sempre punto e a capo. Per me, prima che diventi decrepito, l'uomo giusto è Claudio Gentile, ma quando una volta lo suggerì in una trasmissione tv mi dissero che non si poteva, il perché non si è mai saputo. (così sapete anche quali sono le mie preferenze!)

L'altra parte del nostro discorso va rivolta ai club: una Nazionale che fa risultati fa bene al calcio italiano ad ogni livello. I club mal digeriscono il fatto di mandare i calciatori in Nazionale per paura degli infortuni. E dunque, pare che a molti di loro questa inconsistenza della primissima squadra vada anche bene, ma forse dimenticano, i nostri presidenti, che avendo le squadre imbottite di stranieri, se nei tornei di Nazionali non ci vanno gli italiani, ci vanno gli altri loro tesserati. Dunque il problema gli resta sul groppone senza averne i vantaggi.
Non sarebbe meglio avere una Nazionale vincente, e che sia la nostra allora? Lo capiranno? Qualcuno forse sì, qualcun altro... mah! 

In conclusione, la prospettiva di un esonero di Mancini sarebbe auspicabile, ma per quel che vedo e sento anche inutile, perché tanto, finché non cambia la filosofia, c'è poco da stare allegri (senza riferimenti!) e a noi poveri spettatori resterà solo la noia, e un telecomando per cambiare canale.  

lunedì 12 giugno 2023

BERLUSCONI, UNA PICCOLA STORIA CHE POCHI CONOSCERANNO

La storia mi fu raccontata da Vittorio Esposito al tempo della nostra collaborazione al Napoli Teatro Festival. 
Vittorio è scomparso qualche anno fa, è stato uno dei maggiori organizzatori teatrali italiani, figlio di una attrice e sposato con una brava attrice, Dely De Maio, anche lei scomparsa da poco.
Vittorio conosceva il teatro a menadito. 
Fu organizzatore e amministratore per Peppino De Filippo e soprattutto per Vittorio Gassman, che si fidava ciecamente di lui. 
Siamo nei primi anni 80 e Gassman vuole mettere in scena il suo Macbeth. Uno spettacolo importante, dove non si poteva e non si doveva badare al risparmio. Scene, costumi, tanti attori, musiche, effetti speciali... tutta roba che costava. Di quella produzione ci restano video interessanti delle prove, immagini dello spettacolo e soprattutto la meravigliosa traduzione firmata da Gassman stesso, ancor oggi pubblicata da Mondadori, una versione fortemente teatrale, fatta per la scena e che di scena palpita. 
Vittorio (Esposito) parte alla ricerca di un partner economico. Nasceva in quegli anni la tv commerciale berlusconiana, sotto il marchio Rete Italia che aveva per simbolo uno stilizzato biscione. Berlusconi aveva anche rilevato il teatro Manzoni nella sua Milano, salotto della buona borghesia meneghina, altrimenti destinato a divenire un garage o un supermarket. 
Esposito ottiene un appuntamento con il Cavaliere. 
Si reca all'incontro e il presidente non c'è, si scusa ma è preso da mille impegni. Dall'altro lato del tavolo, davanti al nostro organizzatore una schiera di manager pronti a fargli le pulci. 
Vittorio espone tutto il progetto: la cifra necessaria per condurre in porto la produzione è davvero importante, circa due miliardi di lire.
I mega manager cominciano a fare una serie di domande, e soprattutto vogliono essere rassicurati sul fatto che si rientrerà della grossa quota che investiranno, vogliono anzi la certezza! Certezza che, come Vittorio spiegò, non si poteva avere: dipendeva da come sarebbe venuto lo spettacolo e dal successo che avrebbe avuto, insomma da mille variabili. Certo, sulla carta l'operazione era abbastanza sicura, ma è sempre necessario considerare l'imponderabile sopra tutto in teatro. 
I manager nicchiano, la cosa non li convince, il matrimonio non si può fare, non possono avventurarsi in una impresa che non sanno cosa renderà. Inutili le parole di Vittorio Esposito sull'impegno culturale, sulla figura di indiscutibile valore di Gassman, su Shakespeare... nulla da fare. 
Sono quasi due ore che parlano, Esposito capisce che la faccenda non si sblocca, comincia dunque a raccogliere le sue carte per andarsene. Quando la porta si apre, entra il presidente Berlusconi, che con tutta la sua amabilità si scusa con l'ospite per non esser stato presente all'incontro, lo fa riaccomodare e chiede una sintesi della discussione. Vittorio espone nuovamente e rapidamente il progetto, e il Cavaliere dice solo: "Bene, facciamolo". 
A questo punto i suoi uomini si agitano, sono perplessi, espongono i loro dubbi sulla operazione, sui rischi che comporta, e Berlusconi risponde: "Ho capito, ma è Gassman, è una operazione importante. Facciamolo". Stringe la mano a Vittorio Esposito e va via. 
1983, quel Macbeth si fece, col simbolo del "biscione" sui manifesti, fu un clamoroso successo e tutti ci guadagnarono. 
Oggi, lo sappiamo, Silvio Berlusconi ci ha lasciato. Faccio parte di coloro che lo hanno detestato, avversato per poi capirne piano piano il valore sia come politico che come uomo e cambiare il mio giudizio. Quando pensiamo a "Silvio", ci vengono certamente in mente le sue tv commerciali, ma Berlusconi era anche questo, uno che prendeva in mano un importante teatro milanese per non farlo morire, e che non si faceva problemi a dire "facciamolo" e metter mano alla tasca perché era Gassman, era Shakespeare, era una cosa importante. E sono certo che il suo fiuto imprenditoriale gli aveva anche suggerito fin da subito che non ci avrebbe perso. E così fu. 

RIP