venerdì 27 novembre 2015

NEL NOME DEL FIGLIO.

Usiamo dire che la vita è strana.
Ma forse sono strani i nostri sentimenti. Che ci legano a cose o persone che magari non conosciamo e ce le fanno sentire di famiglia.
Con Eduardo era così, e per un gioco misterioso proprio dei sentimenti era così anche con suo figlio Luca, che oggi, per un brutto male, di quelli feroci e fulminanti, ci ha lasciato
Giovane, troppo giovane, in questi tempi in cui vecchi bastardi ostinati continuano a volere indirizzare le sorti del mondo a danno di tanta e tanta povera gente.
E forse anche per questo motivo, per l'averci regalato sorrisi e lacrime e cuore, tanto cuore, soltanto per amore dell'umanità, vogliamo bene, pur senza conoscerli di persona, a quegli Eduardo che passano nella nostra vita.
Perché chi ama e vive il teatro con amore, ama il mondo.
Luca non c'è più. E qualcuno dirà: "Luca non era Eduardo".
Sbaglia. Nel nostro cuore, Luca era Eduardo; ed Eduardo era Luca.
Confessiamolo: chi di noi scindeva il figlio dal padre, e il padre dal figlio?
Nessuno si agiti, so benissimo che non c'è alcuno Spirito Santo. Niente Trinità, o sciocchi tentativi di beatificazione. Erano umani, per fortuna nostra, altrimenti non ci avrebbero regalato tutto l'amore umano di cui erano capaci; e purtroppo lo erano, perché altrimenti non staremmo qui a contemplare questa profonda tristezza nel nostro petto.
Ma forse ora il dolore è più forte.
Perché per quel legame misterioso che solo i nostri sentimenti possono creare, quando Eduardo morì in cuor nostro sentimmo che c'era Luca, e quando vedevamo Luca sentivamo che con lui c'era Eduardo.
Quella immagine di Luca, sette anni, in braccio a Eduardo, dall'Odeon di Milano, è come se, ai nostri occhi li avesse legati per sempre, ancor più di Lucariello e Tummasino.
Qualcosa di profondamente umano era in quella immagine, non una Madonna con bambino, ma un padre con suo figlio, un mistero improvvisamente laico, civile, non del cielo, ma della terra.
Forse è per tutto questo che oggi il dolore è ancora più grande, perché abbiamo la straziante sensazione che tutto sia davvero finito.
Da questo nostro infinitesimale punto del mondo, osiamo dire, per una volta che tutto non è nel nome del padre, ma nel nome del figlio.

venerdì 20 novembre 2015

COME L'AMERIKANO TI SMONTA L'AMERIKANO: LO YOGA DELLA RISATA.

Trovo su FB questo interessante post del grande Hal Yamanouchi. Ve lo propongo. Ho corretto solo poche parole, lasciando tutto il resto come Hal, nel suo simpatico italo-nipponico ha scritto, evidenziando alcuni passaggi particolari e inserendo link di supporto.
"Con la "Teoria periferica delle emozioni", William James capovolge l'idea comune secondo cui alla percezione di uno stimolo segue un'emozione, che è anche accompagnata da manifestazioni a livello somatico; James sostiene al contrario che la manifestazione somatica precede l'emozione, che successivamente viene riconosciuta a livello "cognitivo". L'uomo non ride perché è felice; ma è felice, perché ride. L'uomo non fugge perché ha paura; ha paura perché fugge.
Quando ero alle Elementari in Giappone, uno strano tizio venne a scuola e insegnò a noi scolari a ridere partendo dai movimenti. Prima lo pensavamo un pazzo. Dopo 60 anni, mi rendo conto che era un saggio, un'entità illuminata che andava in giro incoraggiando i giapponesi del dopo-guerra. Si chiama Rakan Oikawa.
Ora dall'India è partito un movimento dello Yoga della Risata, promosso da maestro Madan Kataria. Un grande movimento terapeutico che sfida l'enorme difficoltà che l'umanità sta affrontando, nel periodo di transizione epocale. "Motion creates emotion", dice Kataria. Un'altra entità che è venuta per incoraggiarci.
Tanti esercizi che io propongo nei miei workshop sfruttano questa dinamica. Attraverso movimenti gioiosi, armoniosi e biophili, vengono stimolati circuiti nervosi che rinforzano questi sentimenti e che ci orientano in tale modalità d'agire. Diventiamo sempre più auto-propositivi, giocosi, sperimentali, auto-apprezzanti e auto-sufficienti.
La civiltà corrente ha sottolineato troppo sulla dinamica di dipendenza reciproca tra individui, come se credesse che per "amare" altri, dobbiamo essere dipendenti e frustrati. E' tutto contrario. Solo coloro che sono auto-sufficienti e auto-contenti sanno amare in modi equilibrati.
Così stanno girando un altro tipo di voce e una cultura alternativa, che basandosi sull'auto-sufficienza e sull'auto-illuminazione stanno divulgando in ombra della cultura dominante (quella consumista, competitiva, lamentosa, scontrosa ed ossessionata).
Yoga della Risata è una di questi movimenti alternativi.
Per chi vuole, qui il video del maestro Kataria. 
Al di là di questa particolare pratica Yoga che ho provato ed è effettivamente molto divertente, l'aspetto che mi interessa è quello attoriale che dalla teoria di James possiamo dedurre. 
Soprattutto considerando che James è statunitense. Negli USA è nata la teoria di Lee Strasberg e il suo arcinoto Actor's Studio che ci ha certamente regalato decine di magnifici attori. 
Ma il presupposto della totale immedesimazione di Strasberg - a chi ha un minimo di dimestichezza con la materia appare subito evidente - viene ad essere palesemente smontato da James. Involontariamente smontato da James, il quale non solo è vissuto decenni prima, ma non si occupava certo di formazione d'attori. 
Concentrarsi, immedesimarsi, scendere nel profondo delle proprie emozioni, scavare alla ricerca di ricordi, riportare alla luce dal fondo dell'animo le emozioni, gli accadimenti che vanno in sovrapposizioni o in parallelo con le azioni da rappresentare, ecc. Dunque, potremmo sintetizzare sia pur sbrigativamente, cercare una emozione da cui scaturisca l'azione: piango perché sono triste (e quindi ricerco in me una tristezza per scatenare il pianto). 
C'è invece un piccolo aspetto che si rileva nella "recitazione europea" che viene spesso dagli attori sintetizzato in questa semplice frase: "cavolo, mi sono proprio emozionato questa sera". 
Forse il primo punto che va chiarito è che: se tu attore sei o non sei emozionato, a noi pubblico ce ne frega niente. Io spettatore non pago il biglietto per vedere te che ti emozioni ma per emozionarmi io. Una verità semplice che ci ricorda che il nostro primo obiettivo è suscitare emozioni fuori di noi, e ciò che avviene dentro di noi è irrilevante, o comunque non interessante
Ecco che allora, dalla ricostruzione "matematica" del percorso, noi attiviamo azioni (se mi consentite questo bisticcio di parole), utilizziamo fondamentalmente strumenti della comunicazione verbale e non verbale perché chi è in platea "legga" un determinato senso, quel senso che noi, su base interpretativa compiuta quasi tutta aprioristicamente (il quasi è importante), abbiamo scelto di indicare. Per far questo, come magnificamente Barba ci ricorda metodologizzandolo sulla base di una esperienza secolare e universale, per far questo il controllo diviene l'aspetto fondamentale. E il "lasciare andare l'emozione" diviene successivo alla perfetta scrittura e esecuzione della "partitura" fisico-vocale-mentale (mettete le tre parole nell'ordine che preferite il risultato non cambia). 
Ma cosa vorrà dire questo "lasciare andare le emozioni"? Che lasceremo uscire il pianto o la gioia senza che più si attivi il controllo? 
Non credo. Credo invece che si voglia intendere, in questo gergo teatrale mai scientifico ma sempre artigianale, che una volta sicuri della esecuzione controllata si lascia un minimo margine di libera esecuzione alla "partitura" stessa, facendo sì che, a quel punto, non si agisca la "partitura" ma se ne venga agiti onde non soffocare la possibilità di scoperta di un ulteriore spazio di esecuzione non previsto e che nasca nel tempo presente dell'azione. E quella scoperta si rivela spesso irripetibile in altra esecuzione. 
"L'emozione" lasciata andare, dunque, non è vita reale riprodotta in palcoscenico, ma sbilanciamento momentaneo della forma non prevista dalla razionalità. E' l'ingresso dell'irrazionale nel razionale preordinato e assimilato. Indichiamo, io credo, come "emozione" non il dolore o la pena o l'allegria, ma la "non razionalità" che si manifesta nella esecuzione. 
Se la teoria di James ha un fondo di verità, e io credo che ne abbia proprio sulla base delle esperienze mie e di migliaia di attori, la ricerca del "gesto narrativo" sganciato dalle personali emozioni dell'interprete, non solo provocherà emozione nello spettatore, ma per l'interessante meccanismo illustrato da James, potrebbe provocare anche stati emozionali reali, di vita quotidiana, nell'interprete. 
Se dunque cerchiamo una emozione - nel senso quotidiano - una emozione sulla quale "poggiare i piedi" da porre a base per la nostra costruzione, per amplificare la possibilità di lettura del senso che vogliamo indicare, per sperimentare la validità di un percorso innanzi tutto su noi stessi (e non perché la nostra emozione sia più importante di quella dello spettatore, questo ricordiamolo sempre), sarà l'agire un abbraccio a suscitare il calore, il disegnarci un sorriso sul volto a generare una allegria, l'allontanarci a lasciar "leggere" un timore... 
Ecco perché mi pare chiaro che James lo statunitense smonti Strasberg l'amerikano. 
Che poi, alla fin fine, tre ore di post e sette chili e mezzo di parole per dire ciò che Laurence Olivier disse di Dustin Hoffman sul set de "il maratoneta": 
Olivier - "Dov'è il sig. Hoffman? Dobbiamo girare la scena"
Assistente "Sta correndo qui intorno per farsi venire l'affanno"
... 
Olivier: "Dov'è il sig. Hoffman?"
Altro assistente: "Corre per la scena in cui deve avere l'affanno"
... 
Olivier: "Ma dov'è il sig. Hoffman?"
Un altro assistente: "Arriva, è andato a correre per fare la scena dell'affanno"
Olivier: "Dio santo, ma perché non prova a recitarla?!" 


   

lunedì 16 novembre 2015

LA MORTE SI SCONTA PENSANDO...

Siamo tutti toccati - sarebbe inutile negarlo o fingere - da quanto è accaduto nella capitale francese.
Per un attimo almeno, tutte le nostre altre riflessioni sono andate a farsi benedire.
Ci si interroga su "cosa fare?", ma i fatti sono ancora troppo caldi. Lo capiremo pian piano.
E forse pian piano capiremo anche se le cose sono solo come appaiono o ci sono altre questioni dietro, come ormai abbiamo imparato.
Ieri sera ho seguito il video mostrato a Piazza Pulita sull'Isis e sulle sue tecniche comunicative, sulle sue modalità di propaganda. Mi stupiva il notare che nei commenti in studio troppo poco ci si domandasse da dove questi signori abbiano preso soldi e mezzi per mettere in piedi questa possente struttura comunicativa e soprattutto quali menti raffinate ci possano essere dietro a una così raffinata costruzione.
Pare proprio che si sia persa l'abitudine al ragionamento complesso, e che anche i giornalisti non riescano più a chiedersi che cosa ci sia dietro, cosa che invece sarebbe loro compito o dovrebbe essere loro normale attitudine. E' come se fossimo invasi dalla necessità di ricercare sempre un rapporto causa-effetto di banale semplicità, come se non fossimo più noi a dovere andare verso i fatti e le loro ragioni, ma i fatti a doversi adattare alle nostre capacità o ai nostri preordinati schemi mentali. Questo pure di fronte alla evidenza che dall'altra parte c'è qualcuno che "pensa complesso, pensa complicato".
E - cosa peggiore - quando troviamo qualcuno che prova a rispondere con un "pensiero complesso", si defiliamo già stanchi prima ancora di ascoltare.
Diciamo che potremmo sintetizzare così: chi ci sconfigge è colui, o coloro, che pensano più e meglio di noi. La guerra sembra essere tutta lì, nel pensiero. E su questo terreno noi abbiamo già perso.
E' colpa nostra? Non lo è?... Un po' l'una e un po' l'altra cosa. Perché è pur vero che il Sistema ha agito in questi decenni in modo tale che il nostro cervello si appiattisse su posizioni di facile comprensione, ma noi abbiamo anche fatto in modo che accadesse.
Qualche sera prima dei fatti parigini, sono cascato, in tv, sul solito dibattito politico: un commentatore diceva che questa politica aveva allontanato la gente in particolar modo i giovani, l'altro rispondeva che non era poi tanto vero se si guardava a quanti giovani si erano messi a partecipare alla attività dei 5Stelle.
Era di questo che volevo parlarvi, poi l'Isis ci si è messa di mezzo.
Ma in qualche modo le cose si tengono se pensate alla nettezza con cui si sviluppano i dibattiti sul dopo: è colpa dell'Islam - no non lo è; ci hanno sparato - e noi bombardiamo; c'è pericolo - rinunciamo a un po' di libertà per la sicurezza; e via dicendo.
Con un simile format mentale, le risposte che alcuni movimenti politici propongono sono ugualmente facilitanti nella loro (falsa!) comprensione dei problemi: sei onesto - non sei onesto; mi alleo - non mi alleo; voti a favore - voti contro; la mia legge e buona - la tua legge è cattiva; i soldi ci sono - i soldi non ci sono; compri gli F35 - no, non li compri; sposta i soldi da qui a lì - no, spostali da lì a qui...
Tutto è chiaro, facile, comprensibile, accessibile a tutti. Accessibile al punto che chiunque può fare tutto: occuparsi della cosa pubblica, come recitare in una commedia. Sì, perché questa idea che tutto è per tutti, che puoi fare un video con il tuo cellulare, fotografare con l'Ipad come un professionista, occuparti di economia tanto si tratta solo di fare il conto della serva, si sta pericolosamente spandendo su tutto, con un preciso risultato: il costante svilimento delle professionalità e delle specifiche competenze.
Non penso ce ci siano cose per pochi, tutto è per tutti, ma nella misura in cui (espressione che dichiara i miei anni... sic) restiamo coscienti del nostro proprio e vero stato di apprendimento, e dei limiti che questo ci pone. Tutti possiamo capire delle cose di economia o di arte, ma leggere dieci post di Bagnai non farà di me un economista. Farà solo di me un cittadino più consapevole, più informato; poi, oltre un certo livello, devo essere io stesso a voler lasciare la palla a chi a quella disciplina ha dedicato la vita.
La politica è certamente per tutti e di tutti, altrimenti non sarebbe Democrazia, ma questa condizione comunitaria resta collegata strettamente al fatto di volersi informare (mettere nella forma), di non accontentarsi della più facile conseguenzialità causa-effetto, di non fermarsi, insomma, alla prima cosa che ci viene detta o che ci balza agli occhi.
A volte i morti sono il risultato del disfacimento del nostro pensiero.
Capire è fatica. Quanto siamo disposti, oggi, a faticare?

lunedì 9 novembre 2015

Fassina, la Sinistra, i Dialetti

La notiziona sarebbe che è nato il nuovo soggetto politico della Sinistra, denominato Sinistra Italiana. 
Per ora è solo un gruppo parlamentare, ma è pensabile che evolva in un partito. 
I denigratori sono già all'opera: trasformismo, caccia di poltrone, inutilità politica, ecc. Ormai il vocabolario lo conosciamo tutto, è sempre lo stesso verso chi provi a fare qualcosa di nuovo. 
Dire a Stefano Fassina e suo compagno di viaggio D'Attorre che cercano poltrone è certamente un tantinello fuori luogo. Le loro storie parlano per da sole.
Quello che è certamente interessante è che, dopo avere lasciato per anni la critica all'euro e al sistema ad esso collegato alla destra italiana, qualcosa a sinistra, in tal senso, si muove, e forse, anzi sicuramente leggendo i propositi di Fassina, in quel "Italiana" c'è più di quanto si possa immaginare. 

Se infatti per superare i nazionalismi si deve creare una super nazione (come fa spesso notare il prof. Bagnai), non si capisce dove sia il superamento del nazionalismo. Anzi, questa idea della super nazione, nello specifico, per chi non lo avesse compreso, gli Stati Uniti d'Europa, sarebbe un ulteriore rafforzamento del concetto di nazione e di abbattimento progressivo della "ricchezza delle diversità", seme primario dell'Europa.
Proprio a questa ricchezza, nonché bellezza delle diversità, si è legata spasmodicamente, ansiosamente, e direi anche irrazionalmente la sinistra del nostro paese, lasciando così, anche in questo caso, la difesa delle particolarità territoriali, nelle mani delle destre.
Insomma, a fare il conto, tutto ciò che la sinistra lascia la destra raccoglie. 

Riflettevo - se ne sono ancora capace - proprio sulla questione delle diversità, in particolare su quelle linguistiche. E già, perché nella sua sovreccitazione di andare verso il "mondo a colori", la sinistra (che dalla destra, al contrario, prende sempre le cose di cui si potrebbe fare a meno) ha sostenuto la tesi del "dobbiamo conoscere la lingua inglese". Anche qui con un doppio effetto nefasto: l'italiano è divenuto una ipotesi, i dialetti sono ormai fantasmi. 
Bene, mi piacerebbe, una volta che Fassina abbia convinto quelli di SEL che a lui si sono aggregati a fare profonda ammenda sulla religione dell'euro, che questo nuova Sinistra abbracci l'idea che nella difesa del popolo c'è anche la difesa delle sue radici, e quindi della lingua patria e quindi dei dialetti. Parlare le lingue straniere è una gran bella cosa, ma questo non significa che si debbano perdere le tradizioni. 
Perché se da un lato la comunicazione globale ci consente di accedere al mondo globale, è pur vero che l'inglese che noi parliamo (come ci ricorda il filosofo marxista Fusaro) non è quello di Shakespeare o di Wilde, ma quello della finanza. In realtà, secondo me, non è nemmeno inglese, è americano.
Dunque, un primo modo per opporsi al mondo capitalistico è quello di opporsi all'uso indiscriminato della lingua inglese. Ho detto "indiscriminato", non "totale"! (anche io studio l'english... sic)

Dall'altro lato va considerato che se conosco ed abito perfettamente le mie radici, se so chi sono senza tentennamenti, non avrò mai problemi o paura ad andare in giro per il mondo a confrontarmi con chicchessia. 
C'è poi il secondo aspetto: se sono a difesa, tutela e sostegno del popolo, se sono dalla parte dei contadini (tanto per capirci), non posso essere contro "la terra", e siccome la lingua nasce dalla terra, l'abbandono costante del dialetto è abbandono costante della terra e dunque dei contadini. L'esempio si potrebbe fare anche con gli operai e con i piccoli artigiani e con i piccoli commercianti, e via dicendo. 
Considerando anche che: se il potere comincia a usare una lingua che non tutti conoscono, c'è una parte di popolazione che rischia di rimanere fuori dalla Democrazia, per una palese incapacità di accedere alle informazioni e/o spiegazioni. 
Il concetto liberista/capitalista sarebbe, in questo caso, che: è colpa tua se non sai l'inglese. 
Il concetto di chi dice di essere dalla parte del popolo spero sarà: dobbiamo considerare che non tutti hanno potuto accedere a certi studi, che non tutti hanno le stesse capacità (viva le diversità), che non tutti sono tenuti alle stesse cose (ari-viva le diversità).
Io penso che difendere le etnie, difendere le radici, difendere i dialetti o la lingua patria, non sia un concetto di Destra, ma di Sinistra, che non esclude la comunicazione e l'interazione globale. Il diritto all'autonomia dei Veneti, o dei Catalani, dovrebbe essere nel cuore di una sinistra che difende il diritto dei popoli all'autodeterminazione, il diritto alle scelte democratiche di ciascuno. 

Fino ad ora si è invocata la bellezza delle diversità solo per spingere all'omologazione, se lo si è fatto inconsapevolmente è molto grave, spero ci sia stata buona fede.
Sarebbe il caso di cominciare a difendere sul serio le diversità, come ricchezza vera e profonda, come ricchezza dei poveri.
Spero qualcuno raccolga questa specie di appello.