martedì 29 agosto 2017

"NEANCHE UNA GOCCIA DI SANGUE": PIRANDELLO, O DELLA CATARSI VIETATA.



Ricorrono quest'anno centocinquant'anni dalla nascita di Luigi Pirandello.

Mi sarei aspettato, da parte del mondo della cultura e dalla Nazione tutta, una maggiore attenzione per quello che è senza alcun dubbio, uno dei quattro, cinque più grandi autori teatrali di sempre e del mondo, fatti salvi i tre sommi classici greci; pare invece che il Nostro sia messo in una sorta di angolo, come accomodato in un cantuccio al quale si pone scarsa attenzione, come un vaso di porcellana o una statuina in bronzo che ci abbia regalato un lontano parente, e per la quale non nutriamo particolare ammirazione. Sta lì, per una forma di cortesia verso chi ce l'ha donata, ma la sua presenza è per noi indifferente.
Se questo è il vostro sentimento nei confronti di Luigi Pirandello, è inutile che mi metta a tessere le sue lodi: far cambiare idea alle persone è complicatissimo, anzi difficilissimo, quasi impossibile; far cambiare le tendenze modaiole è praticamente battaglia persa, si può solo aspettare che passi, e la moda oggi dice che...

è bello bello bello Sciakkespì-re, e quando è estate è bella bella bella pure 'a tragggedia grreka, poi ce sta bene pure er monologo de impegno civile e ar massimo na commmedia che ce fa ride ma co la morale sotto, che ce parla de noi, che si gle vie' bbene poi dopo ce fanno 'n firmetto... il resto è tutta na noia.
Ma che vuole, allora, quer Pirandello lì, co tutto quell'arzigogolo intellettuale, 'no smucinamento che a me, sarò pure ngnorante, ma me rintrona, e poi quella lingua che non si può sentire, quei termini antichi, i verbi tutti strani che nun s'usa ppiù, andasse, direbbe, volessimo... nun s'usa ppiù! Ma te ce vo' uno bbravo, ma uno proprio bravo pe' curatte, perché mica stai messo a posto... E pure agli attori dice che tocca fà na fatica pe dillo... Eh, l'ha detto uno alla televisione, mo' er nome nun me lo ricordo, è quello che fa le finction, è forte.
Cioè, voglio dì: Luigi Pirandello... certamente è stato uno importante perché lo hanno messo pure nella antologia di scuola... Oh, e io me lo ricordo, l'ho studiato, c'ho pure preso 7: "Chi fu Mattia o Pasquale", "Uno, nessuno ha diecimila" "Sei personaggi in cerca d'amore" (che poi co' quel libbro lì è stato praticamente er maestro di Moccia, che me piace 'n sacco. Gennniale!)...
È così, inutile che ce state a girà intorno: Alfieri, Goldoni?... Si se studiano a scola, saranno na roba come I promessi sposi: 'mportante, tocca leggelli, se no poi te pigli er debbito, e io 'st'estate c'ho da fà co' na pischella a Nettuno, mica posso perde' er tempo co' Mattia e Pasquale che 'n' ze capiva chi era morto... Oh, così è, ve piace o nun ve piace! come diceva proprio Pirandello! 
Però, tu voj mette' con 'no Sciakkespì-re? Così fresco, così agile, mo-der-no! Ma guarda che bei film che ce fanno... e sempre diversi... Oh, prendi er film de quando s'era 'nammorato de quella nobbile che nun se la poteva sposà... Ma na commedia proprio bella, me ce so' pure commosso... nfatti se chiamava Sciakkespì-re en love_e. Proprio forte 'sto Sciakkespì-re! E poi gli stranieri sì, gli stranieri davvero sanno fà le cose, mica come noi italiani, che, diciamo la verità, diciamoci la verità na vorta pe' tutte: semo pallooooosi, semo pallooooosi! Sempre rintorcinati, probblematici... mai che te facessero ride' o piagne'... Na Magnani nun c'è ppiù, c'è poco da fà... ma quella mica era italiana, era romana, ro-ma-na! I Taliani ar massimo possiamo fa' la commedia ma la capiamo solo noi perché è la lingua che ci frega. ce manca la lingua! 
Sciakkespì-re, 'nvece, ch'era 'n dritto, scriveva in inglese! 
Che poi, mo' s'è scoperto ch'era de Messina... 
Eh, l'ho letto su internet: era de Messina! 
Quinni siciliani tutt'e ddue: ma Sciakkespì-re, penzace bbene,  scriveva in inglese! 
E l'inglese lo capischeno tutti! Pe' quello c'ha fatto er botto! Ma proprio er botto, ma da subbito!
Un successo che... guarda: c'ha sistemato la famiglia pe sette generazioni! Un grandissimo!


Non sto polemizzando, giuro! Mi guardo soltanto intorno. E pare sia sempre stato così. Ci raccontava Giuseppe Patroni Griffi un esilarante episodio cui aveva assistito a teatro quando era giovane. Erano i primi anni di Pirandello, al teatro Diana, su al Vomero, rappresentazione di una sua commedia. A un certo punto, parte, inesorabile, il classico monologo pirandelliano: "perché io, come sono per me, e non per voi, che mi vedete per quello che io sono per voi, ma non come lo sento io, che ognuno è per sé quello che non è per gli altri e per ciascuno di noi che per noi e per me e per io e per voi e per...", una voce possente arriva dal fondo della platea urlando: "Ooooooooh, ccà ce fa male 'a capa!" (tipico modo napoletano per dire che io già ho i pensieri miei e tu contribuisci a ingarbugliarmeli...).

Ma passiamo oltre.

Rileggendo Enrico IV (di Luigi Pirandello, non di Shakespeare), trovo a un certo punto questo passaggio (atti I):

Belcredi Ma fin da principio! Si figuri che, quando avvenne la disgrazia dopo che cadde da cavallo... Dottore Battè la nuca, è vero?
D. Matilde Ah, che orrore! Era accanto a me! Lo vidi tra le zampe del cavallo che s'era impennato... Belcredi Ma noi non credemmo affatto dapprima, che si fosse fatto un gran male. Sì, ci fu un arresto, un po' di scompiglio nella cavalcata; si voleva vedere che cosa fosse accaduto; ma già era stato raccolto e trasportato nella villa.
D. Matilde Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!

La caduta da cavallo, per coloro che non lo sapessero, avviene durante una mascherata organizzata per un carnevale. Il carnevale è in fondo una festa dionisiaca, o comunque sia un rito di conclusione per una rigenerazione, il caos, la babele che ricondurrà all'ordine, a un nuovo ciclo vitale. Forse la confusione che regna nei nostri tempi deriva anche dall'avere cominciato a preferire quella scemata di Halloween al nostro Carnevale... ma anche qui passiamo oltre.

Un grande autore non scrive mai nulla per caso, nemmeno il più piccolo respiro. Che egli ne sia consapevole o no, cosciente o no, tutto è riconducibile a un senso che perfettamente si incastra con tutti gli altri pezzi che compongono la sua creatura, la sua opera.
Enrico è, tra le tante altre cose, la negazione evidente della tragedia, la rappresentazione del mondo post freudiano, dove, divenuto impossibile compiere la tragedia (Gabbiano checoviano docet, lì dove il protagonista, Kostja, non riuscendo a uccidere la figura paterna, rivolge l'arma contro se stesso), non ci resta che il grottesco del dramma, non ci resta che il violento dissidio interiore che viene a scatenarsi tra il nostro bisogno di purificazione e le regole, le nuove regole sociali, sulle quali, implacabilmente, si innestano anche le convenzioni.
Il "vecchio mondo", il mondo antico per meglio dire, in cui la rinascita passava per il sangue, per il lavacro di sangue, è ormai definitivamente perduto. Può più, in questo nostro mondo, essere mandato assolto Oreste per avere assassinato la madre? No, perché comunque sia l'omicidio non è più il nostro modo per risolvere socialmente le questioni.
Certamente un bel passo in avanti, importante. Ma il dissidio resta dentro e ci macera, che ne siamo coscienti o no. L'invocazione di "Giustizia Giustizia Giustizia" che regolarmente sentiamo da parte dei familiari delle vittime di crimini violenti va proprio nella direzione di una richiesta di purificazione secondo le moderne modalità. Non rispondere a queste invocazioni è compiere un ulteriore delitto: negare all'interiorità del familiare quella purificazione necessaria per continuare dignitosamente a vivere, forse solo a sopravvivere.
Ma in Enrico IV, Pirandello chiaramente ci mostra un modo terribile per ritrovare l'antico lavacro di sangue, un modo crudele e pericolosissimo: la pazzia.
Solo chi è fuori dallo schema che la società si è data può ricorrere a modalità che tale schema negano. L'omicidio che Enrico commette viene giustificato dalla sua pazzia.
Questo, però, agli occhi del mondo in cui egli vive; non agli occhi di noi spettatori, che ben chiaramente sappiamo che l'ignoto chiamato Enrico non è pazzo.
In un gesto d'impeto, l'ignoto compie l'omicidio. Il carcere o il manicomio criminale, possiamo immaginarli come sua futura destinazione; oppure, essendo egli considerato pazzo, rimarrà chiuso nel suo castello per sempre. La scelta della pazzia perenne, agli occhi del mondo, è essa stessa un carcere dal quale Enrico non potrà mai uscire, rimanendo inchiodato all'immagine del grande ritratto che è nella sala del trono, e forse perennemente ripetendo a se stesso quella che è la battuta più straziante del dramma, detta malinconicamente proprio alla donna amata: "Non si possono avere sempre ventisei anni, madonna".
La soluzione, dunque, non c'è. La tragedia è negata. Con la piena e feroce consapevolezza, però, che questa tragedia negata farà esplodere ancor più violentemente il dolore nel corpo e nell'anima del personaggio, impedendogli qualsiasi forma di liberazione.
Scrive Giovanni Macchia nel suo splendido saggio "Pirandello o la stanza della tortura":
"Dov'è la catarsi in Pirandello? Dov'è la liberazione? In qualche colpo di rivoltella ben piazzato? In qualche suicidio? Nell'omicidio di Enrico IV che lo costringerà risibilmente a fare il pazzo per tutta la vita? La crudeltà pirandelliana è nel vietare ai personaggi la tragedia, la via della tragedia, contro il fato o contro gli uomini, e in questo rifiuto è uno dei segni della sua modernità. Così, d'altra parte, una diversa manifestazione di crudeltà era quella di far decadere le sue creature a oggetti di riso e di commiserazione. L'umorismo, visto in questa luce, è una delle forme patenti di una diabolica, dongiovannesca voluttà d'abiezione. Servirsi dell'umorismo per negare all'uomo qualsiasi illusione. Anche l'umorismo, come strumento critico, rientra in questo teatro della tortura." 
La storia, in questo capolavoro di Pirandello, racconta tutto, o esplicitamente, o in maniera subliminale, e tutti i tasselli, a ben vedere, vanno a cadere, leggeri, al loro preciso posto nel puzzle.
Anche la piccola battuta della Marchesa Matilde: "Niente, sa! Neanche la minima ferita! neanche una goccia di sangue!", che pare essere solo un dettaglio che arricchisce il racconto, una nota di colore, si sistema precisa nella simbolica negazione della catarsi, una negazione preannunciata come la battuta è pronunciata ancor prima che l'ignoto/Enrico appaia sulla scena.
Nel racconto finale del ferimento del rivale Tito Belcredi, concluso, classicamente, con la morte di questi fuori scena, la parola sangue, non appare, mai. Noi spettatori, certo possiamo immaginarlo. Come possiamo immaginare quale sarà da lì in poi l'esistenza di quell'ignoto sequestrato dalla sua stessa vita.  

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