domenica 17 novembre 2019

VENEZIA, DANNI DALLA LOGICA DELL'EVENTO!

Nel mio ultimo post vi avevo parlato della predilezione per L'EVENTO che una certa politica ha avuto nel settore Cultura, in realtà a discapito del lavoro e della effettiva protezione del Patrimonio della Nazione.

Il disastro di Venezia è sotto gli occhi di tutti e non c'è bisogno che aggiunga altro, Ma trovo in rete il post di questo signore, il dott. Massimo Acanfora Torrefranca, e si scopre che... la Biblioteca del Conservatorio Benedetto Marcello, finita sott'acqua con danni incalcolabili a manoscritti e preziosissimi documenti, era ai piani alti, poi qualcuno per liberare uno spazio per "GLI EVENTI", l'ha spostata a piano terra. A VENEZIA!
Domanda semplice: DOBBIAMO AGGIUNGERE ALTRO?
Nel link la testimonianza completa, per i pigri si agevola screenshot

Passo e chiudo

https://www.facebook.com/matorrefranca/posts/10220546596364293














martedì 12 novembre 2019

CRISI DEL TEATRO, LA STRADA DA INTRAPRENDERE PER UN RITORNO AL FUTURO

Post lungo. Mi spiace. Necessario. Non parliamo sempre e solo ai teatranti.   

Che il nostro Teatro sia in crisi, crisi nera, quasi mortale, non è una novità. In questo blog ne ho parlato molte volte, criticandoo gli aspetti delle ultime leggi fatte, criticando alcuni comportamenti della nostra categoria, facendo le pulci ad accordi ed accordicchi che niente hanno portato alla causa dei lavoratori, e anche puntando il dito verso coloro che dicendo di fare gli interessi della categoria in realtà fanno i loro
A volte ho sentito necessario fornire qualche spiegazione, a volte andarmene per i fatti miei poiché sentivo che poco ve ne fregava di quel che dicevo.
Perché la categoria ha questa fantastica connotazione: si lamenta per la maggior parte della giornata, salvo poi non acquisire mai, operativamente, punti di vista e opinioni diverse da quelle che già ha. In soldoni: "La colpa è di Achille!", "Bene. Chi voti alle prossime elezioni?", "Achille!". Ok, auguri.  


Non ostante questa sfiducia generalizzata - lo ammetto - nella categoria, alcune cose le avevo tra i miei appunti, e sento dunque necessario comunicarvele, poiché credo che siamo quasi a toccare il fondo e dunque tra poco sarà necessario avere strumenti in mano per organizzare la risalita. 
E sarebbe finalmente il caso che gli attori, e con loro i tecnici, questa risalita se la costruissero da soli, lasciando per una volta in un angolo professori universitari e burocrati teatrali, i quali campano sulla nostra pelle senza in realtà saper nulla della nostra vita e soprattutto della nostra professione

Una premessa
La logica sulla quale si è proceduto negli ultimi 25 anni, dai ministri Ronchey in poi, passando per Veltroni, Melandri, Bray, fino a Franceschini (tralascio nomiare quelli di centrodestra perché tendenzialmente inconcludenti), è stata quella della Cultura come "nostro petrolio". 
Ma con il petrolio cosa si fa? Lo si sfrutta! Il nostro patrimonio culturale e i suoi lavoratori, invece, sono da conservare in quanto siamo noi, è la nostra cultura, la nostra storia, le nostre radici (si potrà ancora dire questa parola in senso non botanico?). E questa opera di preservazione e studio e consolidamento va messa in campo anche se non portasse denaro. Ma il giochino magico è che se tu conservi bene il tuo patrimonio poi ti potrà portare anche introito economico. Figo, vero?

Si è invece sempre più proceduto verso il solo sfruttamento, verso il consolidamento di vere e proprie Disneyland della cultura, da Pompei a Venezia, e quel che non dà incasso lo si lascia in disparte. Lo sanno bene gli archeologi, o i museali, o i restauratori, che vivono ormai in una perenne condizione di precariato. E lo sanno anche bene quelli che ancora vivono o viveano nei centri storici delle nostre città storiche e più importanti ridotte ormai a centri vacanze per cafonissimi turisti in bermuda. 

Sul teatro si è adottata una medesima logica, facendo man mano svuotare la tradizionale compagnia di giro e puntando sempre di più sul concetto di "EVENTO". Quindi su spettacoli di breve durata, festival per lo più e alto numero di produzione con breve vita, nonché le tante cose che anche in queste pagine virtuali abbiamo già esaminato.
Non a caso, alla fine del giro, il ministero della Cultura è andato a riunificarsi a quello del  Turismo. Il PIL ha bisogno di attrarre turisti e i turisti li attraggono gli eventi. La tournèe non serve più perché scarsamente produttiva. Cosa ci importa di portare spettacoli a... Varese o a Campobasso per 500, o 700 persone la volta, se possiamo in un unico evento di una settimana far muovere migliaia di turisti?
Sentite più gente che dice che, salvi pochi, dice che va a vedere un Museo? Vanno tutti a vedere "la mostra!". E sempre in quest'ottica prolificano le città della cultura, mondiale, europea, nazionale... una spruzzata di celebrità e incassi distribuiti a turno. 

Tutte operazioni che per essere realizzate necessitano di volontari, dilettanti, precari - come le masse di volontari che partecipano contenti (poveri fessi!) alle cerimonie di apertura delle Olimpiadi - ma che nel contempo rendono impossibile la vita lavorativa del professionista.  

Bene, se sono riuscito a farvi inquadrare il problema, vi dico adesso, quel che penso si dovrà fare per risollevarsi, quando sarà il momento di iniziare la "risalita" (che ci sarà), quale la strada a mio parere da intraprendere per la salvaguardia del tutto: dei lavoratori, della professione teatrale, della cultura italiana (e quindi anche mondiale): 

Quando c'è da salvare una istituzione, un plesso produttivo, o da risolvere una situazione socialmente complessa, ci sentiamo dire: “È necessario che le parti in campo si lascino i conflitti alle spalle e uniscano le forze onde favorire una rapida risoluzione della crisi".  
L'appello, come certo vi sarà capitato di notare, è il più delle volte infruttuoso perché non tiene conto di una semplice verità: le diverse categorie hanno interessi contrastanti. Unire le forze, mettere insieme gli intenti, far fronte comune per chi ha legittimamente obiettivi divergenti è semplicemente impossibile, quanto inutile. 
Prima ancora di “lottare insieme” si devono avere chiari gli interessi delle singole categorie, quindi cercare i punti di incontro, e solo da qui potrà partire la “riscossa comune”, solo in tal modo si potranno effettivamente raggiungere degli obiettivi veri, sani, concreti e soprattutto fruttuosi per lo meno sul medio periodo (poiché sul lungo saremo tutti morti, tanto per citare Keynes…). Se poi il discorso verrà bene impostato, allora ci saranno sicuramente degli effetti anche sul lungo periodo . 

Parliamoci chiaro: un imprenditore vuole pagare meno un operaio, ma un operaio vuole essere pagato di più, e un acquirente vuol pagar meno la merce, ma un commerciante vuole guadagnare di più… Tutto normale, se ci pensate un attimo: sono interessi normalmente in contrasto (non normale è l’imprenditore contento perché può pagare meno i suoi operai, dimenticando che così ha anche perso i suoi primi acquirenti).
È fin troppo chiaro che anche in teatro funziona allo stesso modo: un impresario vuole guadagnare di più e pagar meno i suoi scritturati, gli scritturati vogliono essere pagati di più, gli impresari desiderano essere pagati di più dai teatri che desiderano pagarli di meno ecc. Meccanismi che valgono per tutti, per il pubblico per il privato e per i circuiti.

Ma allora, quale può essere il punto in comune, quello che può e deve tenere insieme tutti gli addetti del settore? Sembrerebbe complicato, invece è maledettamente semplice:

la Continuità Lavorativa!

Da non confondere con la “pratica compulsiva” degli odierni teatri Stabili (chiamateli pure Nazionali) fatta di mille mini produzioni, ma la sana vecchia Continuità Lavorativa costruita sulle lunghe tournée, sull’adeguato sfruttamento dello spettacolo, ossia dell’investimento fatto, sia dal Privato che dal Pubblico.

Se infatti avrà più piazze, l’imprenditore privato accetterà di perdere qualcosa sulla singola serata, e lo scritturato, di fronte a una adeguata prospettiva di lavoro, accetterà anch’egli un giusto compromesso sul suo compenso. E gli Stabili non saranno più costretti a rincorrere il numero di “alzate di sipario” con un ritmo di messe in scena forsennato, mortificante per gli scritturati e travolgente per i loro conti. E così ancora per i Circuiti, che potranno tornare a concordare migliori costi degli spettacoli a fronte di un maggior numero di piazze da offrire alle Compagnie, avere un giro di Compagnie maggiore da proporre, ampliare e diversificare l’offerta tra professionisti, spettacoli per le scuole, e anche specifiche rassegne amatoriali.

La Continuità Lavorativa rimette in circolo un alto numero di contributi versati agli enti previdenziali, è positiva per tutto l’indotto che ruota intorno al Teatro, dagli alberghi, ai ristoranti, ai trasporti, agli addetti alle biglietterie, alle maschere, le sartorie e i service luci… fino alle tipografie o la pubblicistica locale. 

È il “ritorno all’antico” che fa la prospettiva futura, e ogni politica che la favorirà sarà certamente positiva. 

Non può non essere chiaro, giunti a oggi, che le riforme messe in campo in questi ultimi venticinque anni, l’idea di teatro e di cultura in generale che sono state attuate, sono indiscutibilmente fallimentari.

Se, come rilevato dall'indagine, “Vita d’artista”, promossa dalla CGIL, dalla Fondazione Di Vittorio e da altre associazioni e movimenti, mediamente un lavoratore dello spettacolo italiano porta oramai a casa cinquemila euro l’anno, se i periodi di non attività sono predominanti, se ci sono enormi problemi nel percepire i compensi stabiliti, se le produzioni in particolare private hanno sempre maggiori difficoltà ad accedere alle sovvenzioni pubbliche, non ritrovano più quella quantità di piazze che un tempo erano la normalità lavorativa, difficilmente ricevono i compensi in tempi accettabili, e se pure molti teatri Stabili sono indietro con il versamento degli stipendi ai loro dipendenti, pagano con ritardi anche di un anno artisti e fornitori, devono mantenere macchine burocratiche che succhiano vampirescamente la parte preponderante dei contributi ricevuti… se insomma tutto questo e molto altro ancora, vuol dire solo che le politiche messe in campo in questi ultimi venti anni sono fallimentari. E senza appello!

A questo punto, per la salvezza di un settore così importante non solo per la Cultura ma anche per l’economia del Paese, è assolutamente necessario cambiare i paradigmi, cambiare rotta, cambiare politica culturale. E la ricerca della Continuità Lavorativa è la chiave della rinascita del Teatro italiano a tutti i livelli
Non soltanto può mettere d’accordo tutti, ma ripropone come centrale il valore storico del Teatro Italiano: la sua natura girovaga e non stanziale

Rimettere in moto la Continuità Lavorativa è possibile. Non per contratto però, come nell’ultimo e per me inconcludente CCNL siglato da parti che più nessuno rappresentano: perché è inutile pensare di imporre a un imprenditore “il contratto continuativo” quando egli non ha “spettacoli continuativi” da offrire ai suoi scritturati poiché non ha accesso ai teatri
Rimettere in moto la Continuità Lavorativa è possibile, invece, smontando i gangli arrugginiti del sistema, sciogliendone i nodi, evitando l’incancrenirsi di consorterie autoreferenziali e ritornando a una libera circolazione delle idee, delle attività artistiche e delle semplici e sane radici professionali
"Tornando all'antico". 

La rinascita culturale del nostro Teatro passa sicuramente da una azione di Liberazione e di apertura totale a tutte le idee, a tutte le proposte, a tutte le iniziative, restituendo al pubblico il solo giudizio insindacabile, rendendo assolutamente disponibili gli spazi, con un sostegno equo e accorto dello Stato per ciascuna attività, con una difesa e regolamentazione seria e profonda delle professionalità, stabilendo regole che vadano a vantaggio di tutti e non di pochi, ma soprattutto facendo in modo che il campo dell’arte non sia luogo di discriminazioni di stampo culturale e/o politico, di dimostrazioni di presunte superiorità morali e/o culturali, di appropriazione di una parte con l’intento di dettare l’indirizzo del pensiero. 

Il Teatro è il luogo in cui la Polis riflette su se stessa, dobbiamo fare in modo che torni ad essere un luogo di confronto libero e per tutti, in una parola di Democrazia. 


martedì 5 novembre 2019

Balotelli, perché non è razzismo

Buonasera, permettete che vi dica due parole sulla noiosissima questione Balotelli che in questi momenti riempie le pagine della cronaca come se fosse lo scandalo del secolo.
In realtà non lo è, e non è nemmeno lo scandalo della settimana, è solo l'ennesima dimostrazione di cosa sono le curve e di cosa sono i tifosi, e di quello che è diventato il tifo calcistico.
Già, ma in che senso?
Nel senso che verso Balotelli Mario, calciatore del Brescia, italiano notoriamente di colore non c'è alcun sentimento razzista.
Per capirlo vi basterebbe aver frequentato un po' gli stadi e avere minimamente osservato come si muovono le tifoserie.
Il tifo è una malattia, come il nome stesso dice, e tu che sei dall'altra parte non sei avversario ma nemico, in quella che è, a tutti gli effetti, una simulazione di guerra. Nell'ambito dello stadio sono da sempre concesse alcune cose che troveremmo in altri luoghi deplorevoli, proprio perché diviene il luogo deputato allo sfogo, allo scarico. Da questa concezione semplice fatta di parolacce e/o altre volgarità, la degenerazione è stata in realtà troppo facile. Probabile che tutto cambi nel momento in cui, siamo nel 1962, un tifoso della Salernitana, Giuseppe Plaitano, viene ucciso nello stadio di Potenza da un colpo di arma da fuoco.
Non è cambiato tutto in un attimo, ma da quel punto in poi troppe cose sono state tollerate, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando tifosi di due tifoserie avversarie decidono autonomamente che la partita si deve sospendere e ingaggiano una battaglia fuori lo stadio con le forze dell'ordine, loro vero nemico. Per motivi lavorativi passai la mattina dopo, verso le 7,30 nei piazzali antistanti l'Olimpico di Roma, e per quel che vidi, la devastazione di un vero campo dopo la battaglia, decisi che non sarei andato allo Stadio mai più.
E invece un paio di volte sono ritornato. Perché il tifo è una malattia, ed è più forte di te.

Ora, chi ha vissuto gli stadi sa che il tifoso farebbe e direbbe qualsiasi cosa per innervosire, far saltare i nervi, offendere l'avversario. Il far play è una scemenza che non ha nessuna cittadinanza dentro lo stadio, di qualsiasi sport. Tu vai allo stadio per vedere la tua squadra vincere. Punto. Del bello spettacolo te ne frega nulla e poi nulla. E se la tua squadra gioca malissimo e vince tutte le partite per te va bene lo stesso e non ti passa nemmeno per la testa che giochi male.
Il tifoso vuole vincere. Chi vi racconta altro vi racconta stronzate oppure non è un tifoso.
In quest'ottica, per far perdere il controllo all'avversario usi tutte le armi a tua disposizione, anche il laser sulla faccia del portiere durante un rigore fa parte di quelle armi, anche agitarsi dietro la porta per distrarre l'attaccante che deve battere quel rigore fa parte di quelle armi. Gli insulti sono, è evidente, l'espediente più semplice, quello più a portata di mano.
Io ti offendo con ciò che ti offende. E' semplice, niente di complicato.
Dunque, se sei napoletano ti urlerò "colera, lavatevi, la puzza, il vesuvio..." perché quelli sono i tuoi punti deboli. Ma allo stesso tempo se sei un francese ti potranno urlare, come ho sentito: "Fatte nu bidet, zuzzuso" (fatti un bidet, sporcaccione); o ancora, al cinese o coreano o giapponese, tanto per il tifoso è lo stesso, magari diranno che sono una palla di riso piena di ... O magari sei un arabo di m...
Scatenatevi con la fantasia e ne troverete di tutte le specie: contro i brasiliani, gli argentini, i tedeschi, gli olandesi ecc. ecc. ecc.
E' anche comprensibile, a questo punto, che ci sono "categorie" che più facilmente possono essere colpite, tipo i meridionali, o gli africani, perché una serie di luoghi comuni sono già ampiamente costruiti e pronti all'uso.
Io ti offendo con ciò che ti offende. E allora, se sei africano ti farò il verso dello scimmione, il tristemente noto "Buh!". Ma non ti viene fatto perché io sono razzista. Infatti nessuno a mai fatto quel verso a Gullit, o a Seedorf o a Weah... O a Pelè, o a Eusebio.
Perchè il tifoso è stronzo, ma ha un pregio, se vede un Dio del pallone TACE!
Balotelli Mario è un mediocre giocatore spacciato per campione, questo il mio giudizio, ed è bersaglio di offese come tanti altri, perché quelle offese mirano a ottenere uno scopo preciso: fargli perdere le staffe. Che è quel che è successo!
State certi che a Gullit o a Pelè, se pure li avessero offesi, non sarebbe mai accaduto di avere quello scatto di rabbia. Perché il vero campione è prima di ogni altra cosa sicuro di sé e non ha bisogno della approvazione di nessuno. Lui gioca e basta. E ti lascia a bocca aperta. Lascia a bocca aperta noi che saremo pure tifosi imbecilli e violenti ma, come scrisse Gianni Mura parafrasando Galeano, siamo e restiamo "Mendicanti di bellezza": "Una giocata, una bella giocata per favore".

Nei versacci a Balotelli non c'è razzismo, come si vuol far credere per strumentalizzare, perché se fosse stato cinese o arabo avrebbe subito lo stesso trattamento pur di fargli perdere le staffe. Il tifoso è così che diventa il dodicesimo uomo in campo. Farà schifo, ma fa parte della battaglia. Non giustifico, offro una spiegazione.
E tu calciatore hai un solo modo per evitare gli insulti e zittire lo stadio: "Una giocata, una bella giocata per favore".

Se non sei capace, stai a casa.


sabato 10 agosto 2019

AMICIZIA PERSA, LIBERTA' DENTRO

Sta accadendo una cosa davvero spiacevole che a questo punto sento di voler comunicare sperando di trovare ancora in voi delle persone sagge e comprensive, e soprattutto delle persone davvero aperte così come in genere vi professate. 
Ho scelto di parlarvene dopo una lunga riflessione, perché la cosa mi produce non poco dolore, malinconia, fastidio, senso profondo di isolamento. Tutte cose che possono andar bene con gli estranei, dei quali alla fin fine chi se ne frega, ma non con le persone cui vuoi bene e che ti conoscono, e conosci, da una vita. 
Certo, è un tipo di situazione che potevo prevedere, frutto delle scelte che ho coscienziosamente fatto e che rifarei altre mille volte; dovevo e potevo aspettarmelo, e infatti me lo aspettavo, ma non nei termini in cui si sta verificando. Forse perché, così come credetti  un tempo in certe idee, ho continuato a credere che coloro che, come me un tempo, continuano a professare quelle idee che io non professo più, siano e restino davvero animate da un profondo spirito democratico, da una voglia di confronto, da un rispetto intrinseco dell’altro, anche se la pensa diversamente da noi. 
Tutti noi abbiamo avuto amici che la pensavano politicamente in maniera diversa, con loro ci siamo scontrati, abbiamo discusso, abbiamo cercato di convincerci vicendevolmente, ma questo non ha intaccato mai il senso di stima verso l’altro, e soprattutto – ed è questo il punto più grave, il vero punto doloroso – mai abbiamo trattato improvvisamente l’amico dall’alto in basso come un minorato mentale, un ignorante, un troglodita, per le sue idee, facendolo sentire improvvisamente privo della nostra stima e dunque del nostro affetto. Ché stima e affetto sono profondamente incardinate. 
Mio nonno materno era un vecchio ufficiale della Milizia fascista, ma la persona che più stimava in città era un vecchio deputato socialista, che nessuno gli doveva toccare altrimenti diventava una belva, e lo stesso era per quel deputato se qualcuno parlava male di mio nonno (i nomi non contano). Si possono immaginare due soggetti più lontani come pensiero politico, visione della vita e del mondo? Eppure era così. E questo stesso tipo di relazioni mi sono capitate tante e tante volte sotto gli occhi, per i genitori, gli amici, i parenti e anche, fino a un certo punto, per me stesso. 
Da un po’ di tempo a questa parte io non mi sento più libero, libero dentro, di potere esprimere le mie idee. Non con chiunque, che sarebbe una vera e propria assurda pretesa - ché sempre in un certo modo son fatte le relazioni umane - ma con le persone che immagino, presumo, penso, credo, ho creduto fino al momento della fatale rivelazione, mi vogliano bene. 
Vivo una sorta di abbandono, peggio ancora di senso del disprezzo, solo perché io la penso diversamente. Il risultato è che non parlo più, e con i miei amici non esprimo più liberamente il mio animo. Fingo. Sissignore, sappiatelo, fingo, per evitare prima inutili discussioni, poi la mortificazione di sentire un amico o un’amica trattarti improvvisamente dall’alto in basso. 
Inutile cercare di fare capire che anche io ho le mie motivazioni, che il mio approdare dove non avrei mai creduto anni fa di approdare, è frutto di un percorso, un percorso duro, faticoso, pensato, meditato; e forse un amico, che dice non solo di volerti bene ma di essere interessato profondamente alle vicende di questo nostro Paese, dovrebbe domandarsi per un momento come mai tu sia giunto lì, tu che quell’amico dice e ha sempre detto di stimare davvero, che ha tenuto in considerazione il tuo pensiero, i tuoi consigli, i tuoi giudizi. 
Invece questo non accade, sei solo oggetto di ludibrio, quando non di disprezzo, quando non di quella considerazione riservata ai poveri dementi. Potete immaginare come ci si possa sentire dentro nel momento in cui tu sei tranquillo, pensi di poter liberamente parlare perché di fronte hai un amico, una persona con la quale, qualsiasi sia la discussione, immagini che i rapporti non si deterioreranno, e invece trovi improvvisamente un vuoto, un abbandono che in un attimo si consuma accompagnato da un senso di superiorità che ti umilia. 
Sono cose lecite e comprensibili nei nemici. Ma gli amici, gli amici no. 
Se non puoi essere libero, libero dentro, con loro, qual è il senso di tutto questo? Se rimaniamo tutti delle monadi immutabili, fermi in un unico pensiero che tutti ci contiene e mai veniamo disturbati, scossi, scarrucolati da una diversità, da una progressione, da una inattesa adempienza, da una sorpresa, qual è il senso del nostro percorso in comune? Perché ci frequentiamo? 
Io, anche se in molti non ci credono, ho sempre appreso tantissimo dagli amici, nonché dalle donne con cui sono stato, e anche dagli scambi occasionali. Credo, anche se in molti non ci credono, di essere fondamentalmente fatto di questo, di tutto questo, di questo accumulo di idee e suggestioni, di ricordi e passioni. Amo il percorso che ho fatto e il dove mi ha portato, e ringrazio sempre tutti quelli che ho incontrato lungo la mia strada anche se qualcuno oggi non voglio più vederlo. 
Ma se non c’è questo, nelle nostre relazioni, se tutto si riduce a una cena insieme per dirci che siamo d’accordo su tutto, a che serve? Se non possiamo più scambiarci le parole e i pensieri, ma a che serve?
Vorrei ancora stare con i miei amici, discutere sinceramente e liberamente, libera-mente dentro, con loro, senza dovere nascondere che sono borbonico, che sogno la secessione del Sud, che sono sovranista, che sono un No-euro (e pure della prima ora!), che sono contro la UE, che ho votato per la Lega, che da meridionale ho convintamente votato per la Lega… e non sentirmi, per tutto questo, improvvisamente disprezzare dalle persone che conosci da trent’anni solo perché dici che vorresti la secessione del Sud come se fossi un minorato mentale rincoglionito, pazzo e stronzo. 
Credetemi, è una coltellata che ti arriva, e che fa dannatamente male, perché all’improvviso senti che è stato alzato un muro tra te e quell’amico/a, e quel muro lo ha alzato lui solo perché tu sei stato sincero. Ti senti improvvisamente abbandonato. Improvvisamente imprigionato.  
E il fatto che tu comprendi perfettamente che quella loro reazione isterica – poiché solo di isteria può trattarsi nel suo improvviso impennarsi, innervarsi, nel perdere le coordinate, nell’accecamento che osservi in loro o che ti si rivela, dopo, a mente fredda – il fatto che comprendi che quella reazione è dovuta al senso atroce di sgretolamento del mondo in cui hanno creduto, al fallimento delle ideologie che hanno abbracciato, alla perdita dei punti di riferimento che si erano costruiti, al senso profondo e inconfessato anche a loro stessi di sconfitta, tutto questo non mitiga il tuo dolore. 
Anche perché capisci che molto è legato al loro arroccarsi, alla loro indiscutibile chiusura, alla non accettazione dei fatti che la Storia ha messo sotto gli occhi di tutti noi senza tema di smentita. Il muro si alza per non accettazione della disfatta, anche a costo di perdere l’amico, di perdere l’affetto. 
Se parlare davvero, senza pregiudizi, fosse possibile, se scambiare davvero le opinioni fosse possibile, senza preconcetti, senza disprezzi, lontani da qualsivoglia senso di superiorità morale e culturale, forse tanti nodi si scioglierebbero. Invece no, e il dolore cresce in ciascuno di noi, restando tutti sempre più soli. 
Io ho fatto una scelta, delle scelte, e ne accetto le conseguenze, la solitudine che ne può derivare e alcuni inevitabili distacchi, ma non posso smettere di voler rivendicare tutte le cose che penso e in cui credo. 
Mi chiedo soltanto se nel profondo, nel profondo soprattutto della loro sempre sbandierata democraticità, i miei amici sono ancora disposti ad accettarmi per quel che sono? 
Oh, so bene che diranno tutti di sì, ora, a parole, diranno tutti di sì, ma vi assicuro che dopo quello che è accaduto in questi ultimi tre anni - dal referendum costituzionale in poi, per esser chiari – dopo i tanti abbandoni che si sono consumati lungo la mia strada, io ci credo sempre meno, sempre meno sento di potermi esprimere liberamente con i miei amici. E questo mi addolora. 
Fingo. Fingo, per evitare discussioni, per evitarmi la coltellata, e quel malinconico senso di perdita della libertà, libertà dentro.  

giovedì 18 luglio 2019

ANDREA CAMILLERI: TEATRANTE!

Ho visto e letto un mare di cose in queste ultime 24 ore su Andrea Camilleri. 
Ora, io Andrea il piacere di conoscerlo ce l'ho avuto, dato che era un insegnante della "Silvio D'Amico", ho seguito alcune sue lezioni e mi prese per fare uno spettacolo, che dopo qualche prova io rifiutai (avrei dovuto fare un intermezzo recitando tutta "La quercia del Tasso" di Campanile, lo fece poi un mio compagno di corso, Giacomo Zito). 
Quando al bar di fronte l'Accademia andai a comunicargli che avevo deciso di non partecipare più, mi disse: "Non preoccuparti, Alfonso, lo avevo capito. Tu sei un anarchico che lavora meglio solo che in compagnia". E tutto si chiuse lì, senza patemi. 
Ci ho messo anni, davvero anni per capire cosa volesse dire quella frase, per arrivare a dire, alla fine, che era vero, che Andrea Camilleri, in una breve frequentazione, aveva capito di me più di quanto io non abbia capito in 30 anni. 
Ci siamo incrociati piacevolmente in Accademia altre volte, e poi intorno casa sua poiché per un periodo ho abitato praticamente dall'altro lato della piazza, in via Corridoni. Sempre uno scambio cordiale, piacevole, una battuta spiritosa. Un uomo davvero davvero interessante sotto mille e mille punti di vista. 
Un giorno, in Accademia, durante la pausa pranzo, ero seduto a fumare sul muretto di fronte all'ingresso principale che delimita il cortiletto intorno la palazzina. C'erano un po' di nuvole e la luce era come grigia, pesante. Andrea apparve sulla soglia con la sua solita Multifilter tra le dita. Si guardò intorno, guardò il cielo, poi venne da me, piantò improvvisamente il suo viso a cinque centimetri dal mio e con quella voce che tutti ormai conoscete mi disse: "Che luce di merda!". E se ne andò. Io lo guardai andar via con gli occhi sbarrati pensando una semplice cosa: "è pazzo!". Ma non lo era, chissà cosa gli girava per la testa... 
Suonava il sax, con l'ancia, con l'imboccatura al contrario. Una volta a casa sua, durante una di quelle prove, spiegò anche il perché, ma non me lo ricordo.
Ora, come è purtroppo nell'ordine delle cose, Andrea non c'è più, e tanti di quella generazione splendida che ci ha allevato non ci sono più. Penso a Mario Ferrero, alla grandissima Marise Flach, ad Angelo Corti, a un bravo insegnate e ballerino che si chiamava Stefano Valentini che un brutto male si è portato via giovanissimo, Paolo Terni, Elena Povoledo... E un giorno, forse ve li nominerò tutti e vi spiegherò cosa facevano e perché erano speciali. 
Di questo gruppo di insegnanti straordinari faceva parte anche Andrea Camilleri.
Ho letto, vi dicevo, e ascoltato, decine di cose. E quel che più mi ha ferito è che nessuno ha detto o scritto che Camilleri era un docente dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, e che insegnava una cosa importantissima: Regia. 

Forse avrò letto e visto le cose sbagliate. Tutto può essere.
E francamente me ne infischio delle polemiche politiche sia dell'una che dell'altra parte.

Su qualche giornale ho letto che "Camilleri si dilettava anche di regia". Beh, è una dimostrazione di ignoranza e superficialità che non mi meraviglia nell'attuale giornalismo italiano.
Camilleri ERA un regista, non si dilettava, ERA.
Camilleri Andrea diviene scrittore dopo, con il passar del tempo, ma studia da regista nella più prestigiosa scuola italiana di teatro, l'Accademia "Silvio D'Amico", e nel 1949 è anche il solo allievo ammesso al corso. 

Il suo Maestro si chiamava Orazio Costa Giovangigli, per tutti Orazio Costa: il Maestro dei Maestri, il più importante teorico e soprattutto pedagogo teatrale che il nostro Paese abbia conosciuto, che ha elaborato un proprio metodo di formazione dell'attore, che nel corso di quasi mezzo secolo ha fatto crescere quasi tutti gli attori e i registi della seconda metà del '900 in Italia. E noi, in qualche modo, siamo tutti figli, nipoti o pronipoti di Orazio Costa!

Ma tanto loro, quelli che scrivono, queste cose non le sanno. 
Non sanno chi è Andrea, perché non sanno chi è Costa, e non sanno cosa è un regista e che lavoro davvero fa, difficile e faticosissimo, e soprattutto non sanno che cosa sia il Teatro e quanta cultura e lavoro ci sia dietro anche soltanto a una farsa di Peppino De Filippo. 
Costa ha attraversato i confini nazionali con il "metodo mimico", in continuo scambio teorico e pratico con le scuole di mezzo mondo. Era, per farlo capire ai gonzi, lo Stanislavskji italiano. E a sua volta era cresciuto alla scuola di Copeau. Era anche un filologo, ma soprattutto era Maestro nel senso alto della parola (e pensate che rifiutava per sé la definizione di regista, ma figuriamoci quanto vi incartereste se adesso vi spiegassi questo, nel link su Costa ci sono moltissime buone informazioni). 

A questa scuola è cresciuto Andrea Camilleri, nello stesso periodo insieme a un altro grande Maestro, Mario Ferrero, anche lui allievo e per tanti anni assistente del Maestro Costa.
Era una generazione con le palle, c'è poco da fare! Camilleri, fece nel '58 il primo Beckett in Italia, Ferrero, di qualche anno più grande, il primo Eliot (Cocktail Party, 1950). Non solo: Ferrero, rampollo di benestante famiglia fiorentina, conosceva benissimo l'inglese, al punto che in gioventù ha tradotto alcuni dei racconti di Hemingway che ancora trovate pubblicati. Purtroppo non si sa più quali siano e in verità nemmeno Mario se lo ricordava più. 

Le storie sono strane, e si intrecciano a volte meravigliosamente: Ferrero fece il servizio militare insieme a un certo Franco Rosi, il quale finita la guerra lo invita a Napoli dove Ferrero conosce Patroni Griffi, ed insieme a questi va a vivere a Roma, Mario per frequentare l'Accademia, Peppino per lavorare alla Radio. 

Scusate se ho deviato un attimo dalla mia riflessione su Camilleri. Era solo per farvi comprendere cosa siano state quelle generazioni.
Camilleri e Ferrero si re-incroceranno tante volte in tv, uno come regista (Sorelle Materassi, Velia, I Murri, Il commissario De Vincenzi), l'altro come dirigente Rai. 
Poi di nuovo in Accademia, entrambi a insegnare, Mario recitazione in versi (materia che oggi, chissà perché, non si insegna più), Camilleri fu scelto per sostituire proprio il loro Maestro Orazio Costa alla classe di Regia. 
E si poteva capire il perché: Mario era più "pratico", più feroce nell'attaccare il palcoscenico, più "animale di scena". Il primo anno di corso con lui ti rivoltava come un calzino, ne uscivi invecchiato, maturato all'improvviso di cinque anni. 
Andrea era più riflessivo, narratore, quasi più intellettuale sebbene entrambi avessero vasta cultura, ragionatore, conoscitore di uomini e cose, maggiormente capace di condurre un allievo dentro lo spirito di un testo e nel mistero di quel difficile lavoro.
Racconta un suo carissimo allievo, Giuseppe Di Pasquale, che ogni mattina Andrea cominciava, seduti al bar ovviamente, con raccontare: "Stanotte ho sognato che...". 

Un giorno, anche un po' esasperato da questo modo di procedere, Di Pasquale gli chiese: "Scusa, Andrea, ma perché ci racconti sempre cosa hai sognato?", e lui: "Perché se non sai raccontare una storia non puoi fare questo lavoro". 
Ecco, quando parlava di "questo lavoro", Camilleri si riferiva al regista, a ciò che lui era. 
DOPO, solo dopo è diventato uno scrittore. Il perché non lo so e non ha alcuna importanza. Per lui, evidentemente, era un altro modo di raccontare una storia. 

Chiaro che la popolarità viene dai libri, da Montalbano, dagli sceneggiati tv con Zingaretti, per tantissimi Camilleri è l'autore di Montalbano e basta. Va benissimo!
Ma forse, scrivendo un "coccodrillo", certi cronisti dovrebbero fare lo sforzo di raccogliere qualche informazione in più e non fermarsi come ormai regolarmente paiono fare, all'evidente e all'ovvio! 

Andrea Camilleri era un regista, allievo del più grande Maestro di Teatro che l'Italia abbia mai avuto, Maestro a sua volta di regia e anche di recitazione nella più importante scuola italiana di Teatro, che poi un giorno, per motivi suoi che non ci interessa sapere, è diventato anche scrittore. 
Le vie del destino sono strane, " cos'è il caso - si chiedeva Borges - forse il caso è soltanto la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità": Andrea chiude il suo percorso, almeno quello pubblico, con un bellissimo spettacolo che ieri sera Rai1 ha riproposto, "Conversazione su Tiresia", una meravigliosa serata di teatro nella quale chi ha orecchio per queste cose, poteva ritrovare proprio tutta la lezione di Costa, quella della grandissima recitazione italiana, della recitazione migliore, alta, che cerca i colori, le espressioni, il senso logico e filologico, la combinazione di questi con il sentimento, che spinge sulla nitidezza delle frasi, sulla chiarezza dell'espressione, con i ritmi, la sorpresa, il sorriso elegante. Le sue letture dei versi, poi, erano emozionanti: piene, assolute, esattamente come quella scuola ci ha insegnato, attraverso non soltanto Costa, ma un altro grande Maestro di allora, Mario Pelosini.
L'ho visto ieri sera e ho goduto, l'ho visto e posso dire senza tema di smentita che Camilleri non parlava, recitava!, con tutta la consapevolezza del teatrante di razza e di altissima scuola, la nostra, quella italiana.  
Poi fu lo scrittore, ma alla fine di tutto Andrea è tornato a casa. 

lunedì 3 giugno 2019

Su Radio Meglio di Niente i Lavoratori della Cultura


Se vi va, domani sera possiamo vederci e sentirci sul canale YT di Radio Meglio di Niente

https://t.co/M5EglsKMfQ

Nel vivissimo programma di Barbara Tamperi, anche nota al popolo dei social come Barbara T. Lameduck. Una giovanotta davvero brillante e interessante da seguire.
E sarà un vero piacere.
Di cosa parleremo? Di varie amenità sicuramente, ma fondamentalmente di Teatro: di ricordi, aneddoti, esperienze lavorative e di vita.
Ma la voglia è anche quella di infilare il dito in una dannata piaga: chi, come e perché ha ridotto il teatro italiano nella situazione in cui si trova, e magari cosa possiamo fare per risollevarlo?

Radio Meglio di Niente è un canale davvero libero, dove potete ascoltare (e vedere) cose che non sentite su canali di grandi network, a me ricorda un po' il Byoblu degli inizi.
E non posso che augurargli lo stesso successo, e anche di più.

Intanto li ringrazio per questa occasione di parlare di problemi che restano sempre non in nicchia, ma dietro le nicchie, ben nascosti, perché a nessuno interessano, ma investono, invece tantissime persone. Forse non tutti sanno che, direbbe la nota rubrica, solo in Teatro, tra Prosa e Lirica lavorano oltre un milione di persone. E poi c'è il cinema, la televisione, la radio, i musei, il comparto archeologia, restauro... Insomma, il mondo dei LAVORATORI DELLA CULTURA è immenso, ed è quello che ci interessa.
La CULTTIURRA la lasciamo ai salotti. Noi siamo gente che va in teatro a lavorare! 

mercoledì 22 maggio 2019

DANTE E' RAZZISTA E VA BANDITO (ci mancava questa...)

Tanti amici giocano con me e mi dicono che sono un brontolone. E' vero, io brontolo spesso e talvolta anche volentieri. Diciamo che per un 30% ormai fa parte del mio personaggio pubblico.
A volte, però, ti trovi di fronte a cose che non c'entrano con il brontolio, né quello vero né quello "da spettacolo". Fatti che sono anche profondamente offensivi per chi ama alcune cose. In questo caso la letteratura, e nello specifico La Divina Commedia. Non voglio farvi perdere tanto tempo, ecco il link dell'articolo. https://www.liberoquotidiano.it/news/rubriche/956338/dante-razzista-follia-onu-bandire-divina-commedia.html
E per assecondare vostra santa pigrizia estraggo i momenti più aberranti di questa signora Sereni, presidente di questo Gherush92, un "Comitato per i Diritti Umani è un’organizzazione non governativa no profit". Dunque una ONG. Si legge nel sito che "ha ottenuto lo status di consulente speciale del consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite". Perché? Boh...
Potete poi andare alla pagina "progetti" e troverete: 

"DIRITTI UMANI, DIVERSITA ' E PACE"

Progetto di comunicazione per lo sviluppo e la pace

Data: 2009-03-02
Autore: Gherush92

Gherush92 è promotore del progetto internazionale "Diritti Umani, Diversità e Pace" con i documenti dal titolo "Risoluzione di Roma: Linee guida per la protezione della diversità culturale" e "Per una convenzione contro il razzismo", contro il razzismo e a favore del riconoscimento dell'importanza della diversità culturale.

L'obiettivo del progetto è quello di sviluppare una serie di ricerche sulle migliori procedure per accertare le cause del razzismo culturale e dei conflitti, al fine di contribuire alla conoscenza e ai negoziati.

Il progetto, seguendo un approccio interdisciplinare e formativo e nuove strategie di informazione e informatiche, si propone di: sradicare forme contemporanee di razzismo scientifico; sradicare la povertà estrema e la fame, assicurare la sostenibilità ambientale; dare inizio al processo di solidarietà-negoziazione- riparazione.

Bello, vero? Tante belle parole e belle intenzioni. Deve essere per l'azione interdisciplinare e formativa che il testo preso in esame è nientepopodimenoche La Divina Commedia. E basta adesso: vi rimando alla lettura. I ESTRATTO "Il poema, spiega Valentina Sereni, presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un’offesa»."
MA LA PERLA E' QUI «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che DEVE ESSERE CONTESTUALIZZATO E SICCOME VIENE INSEGNATA E PROCLAMATA OGGI, IL CONTESTO E' OGGI». L'appello è ovviamente ai docenti di lettere e non... Ma anche agli amici attori... e agli appassionati... Prendete posizione per favore, come più potete. Qui siamo alla follia pura e soprattutto alla distorsione del senso, della lingua, delle informazioni... io sapevo, nella mia ignoranza, che contestualizzare voleva barbaricamente dire che sono io che mi metto nei panni di quello di allora, che mi calo nel contesto, e non che l'opera di 700 anni fa deve essere piegata sul pensiero nostro di oggi (quale pensiero poi, il mio, il tuo, il nostro, il vostro, il loro....?). Cominciamo così, lasciamo passare, e poi mi diranno che quella commedia di Goldoni dove il padre decide il matrimonio della figlia è maschilista, o quell'opera di Shakespeare dove si maltratta l'ebreo non è più accettabile per razzismo, che l'Opera di Verdi dove un handicappato è raggirato... e così via.
E' già accaduto, se qualcuno lo ricorda, con una Carmen di Bizet dove si è cambiato il finale perché se no "IL FEMMINICIIIIDIOOOO". Ma qui ci stiamo bevendo il cervello tutti, decisamente tutti.
Personalmente sono stanco, molto stanco. Mi pare che siamo di fronte a un attacco violento contro tutto ciò che è la nostra storia e la nostra cultura, le nostre radici e il mondo in cui siamo nati e cresciuti, il mondo consegnatoci dai nostri padri, nonni e bisnonni. Ed è un attacco compiuto in nome di una ideologia che ha il subdolo vantaggio di sfuggire, di coprirsi perfettamente dietro parole belle, dietro intenzioni pacifiche e umanitarie. Quello cui stiamo assistendo, se però vi fermate un momento a guardare e a riflettere, è il tentativo violento di prevalere di una parte sull'altra, e in questa guerra non ci sono - guarda caso - confini: tutto è da mettere in discussione, tutte le certezze sono da minare. E per far questo ci si rigira ogni cosa come si vuole, anche distorcendo il senso, la lingua, i pensieri. E questa ideologia, oltre a sapersi molto ben mascherare, ha anche un altro vantaggio: lavora per slogan, rapidi ed efficaci. Così finisce che "la menzogna" si veicola in una sola frase, la Verità, per essere ricondotta al posto che le spetta, ha bisogno di lunghi momenti di spiegazione. Facile dire "l'euro ci protegge - senza l'euro facevamo la fine dell'Argentina", ma poi, per dimostrare la falsità di queste affermazioni e schiodare le persone dal loro terrore, ci vogliono ore di spiegazione, pagine e pagine di libri... e non tutti hanno la forza e la pazienza di voler capire, e soprattutto di voler UNIRE I PUNTINI, per cui non c'è distanza tra "l'euro ci protegge" e "Dante è razzista". Fa tutto parte della riscrittura della Storia a uso e consumo del potere. Sono trappole infernali, ben peggiori dell'Inferno che ha descritto Dante. Decidete voi qual è la fatica che volete fare, se poca perché le belle parole mostrano un mondo "facile", o tanta perché la verità è "faticosa" e amara.

venerdì 17 maggio 2019

HO UN GATTO, ANZI UNA GATTA (ma perché teniamo gli animali con noi?)






Ho un gatto. Anzi, una gatta. Si chiama Penny. Per volontà della mia compagna.
Io volevo chiamarla Concetta, ma non c'è stato nulla da fare. Le memorie londinesi di lei - due anni di lavoro nella City - hanno prevalso sui miei amori teatrali. Ma va bene lo stesso, perché alla fin fine, Penny non si discute.

Penny sta con noi da più di un anno, è arrivata che già ne aveva circa due. Veniva da una di quelle cucciolate curate dai Comuni, quelle di cui si occupano le famose "gattare" - che a dirla tutta le avevano dato l'orrendo nome di "Briciola" che non si poteva sentire e così fu Penny! - e venendo da queste cucciolate ha avuto una storia un po' travagliata.
Per un certo periodo ha vissuto in una specie di scantinato, praticamente sempre al buio, poi insieme a un altro gatto fu data a una famiglia, la quale, dopo qualche mese, decise di tenersi il gatto e "restituire" Penny, roba che secondo me non si fa, ma lasciamo stare, è storia passata. Alla fine Penny è qui, ci ha messo molto a fidarsi, ma alla fine... è qui.
Inutile dirvi che è dolce, è tenera, è coccolosa ecc. in genere i gatti lo sono. Quel che posso assicurare è che Penny ti sta dannatamente a sentire. Se le dici con nettezza che non deve fare una cosa, lei non la farà mai più. Dunque, stabilito quel che serve per l'ordine della casa, Penny può sbizzarrirsi come vuole.

Il suo più grande nemico sono i tappetini, con i quali intraprende durissime e incomprensibili battaglie, finché non li ha rivoltati a dovere. La sera, prima di andare a dormire io sistemo il tappetino in cucina, la mattina lo trovo tutto "arravugliato" sotto una sedia, un qualche mobile. La mattina sistemo gli scendiletto, la sera li trovo tutto "arravugliati".
Il perché di queste lotte resta un mistero. 



Penny non è un genio, assolutamente. E' una gatta normale come tante altre, che fa cose da gatta. Per esempio se ne sta ore a guardare fuori dalle finestre, anche attraverso i forellini delle tapparelle abbassate, o i vetri smerigliati della veranda.
Cosa guardi, così immobile per ore è un altro mistero. E se vai a disturbarla, a "scoprirla" in questa sua opera di piccola vedetta lombarda ne resta abbastanza seccata.














Si infila negli armadi, si nasconde tra i vestiti, quando vede un cassetto aperto ci deve mettere dentro il muso, gioca con la pallina colorata meglio di Maradona, si addormenta in posizioni improbabili, si incanta quando vede altri animali in tv, e alle cinque di mattina corre per casa facendo una confusione che me l'ha fatta soprannominare "il cavallo".



Bene.
In verità, non è la prima volta che ho un gatto. Una trentennio fa almeno, ne ebbi addirittura due per alcuni anni, due che poi rimasero con la mia compagna di allora quando ci lasciamo (lasciò lei me, io lei? bah, meglio ricordarsi dei gatti che dei fatti). 
Erano un maschio e una femmina, Mustafà e Nenè: un nome dall'Opera e uno dalla Prosa.
Mustafà e Nenè arrivarono da noi piccolissimi, due mesi appena, quindi li crescemmo e il rapporto che si crea è davvero diverso da quello con un gatto già adulto.
E adulto sono io, e cambiando l'età, cambiano le domande che ti fai. Da giovane le cose sono semplici, non ti interroghi più di tanto sui "sistemi della vita", quasi sempre agisci e basta. Da adulto, anzi da adulto ormai maturo, ti chiedi se in questo rapporto con un animale, qualunque esso sia, ci sia qualcosa di più, quali possano essere le ragioni che lo costruiscono e soprattutto che te lo fanno cercare.
Per me Penny è e resta un animale, e non sarà mai altro, il mio adorato animale, il mio gatto di casa, ma niente altro. Io e Patrizia non abbiamo figli, e non vorrei mai sostituire un figlio con un gatto. Se vogliamo un figlio lo facciamo, finché Natura ci aiuta, o lo adottiamo. Punto.
Altrimenti è come scaricare sull'animale, che è e resta ignaro, le nostre inquietudini. Oltretutto, sai che cazzo gliene frega al gatto delle tue inquietudini? E ci ha pure ragione.
E non illudetevi: non è perché "il gatto è autonomo". A parte che non lo è, ma anche se fosse un cane non gliene fregherebbe una mazza lo stesso. E' roba che non fa parte del suo mondo! E non si discute. Lui è animale e fa l'animale. Ma allora, cosa ci fa cercare il rapporto con questo altro essere vivente?

Posso capire chi alleva cavalli o buoi o capre... animali utili all'uomo; e anche il cane, prima di divenire salottiero svolgeva alcuni compiti importanti, come fare la guardia, aiutare con le greggi, ecc. Ma il gatto... perché il Gatto? Forse un tempo cacciava i topi e i piccoli insetti, ma oggi... Se c'è un animale splendidamente inutile è proprio il gatto. E checché se ne pensi, abbiamo bisogno anche di inutilità.
Lo so cosa state pensando: il gatto è tenero, fa tante coccole, è divertente, è tranquillo, è morbido... e altre scemenze del genere.
Io penso invece che ci sia qualcosa di più profondo. Penso che noi cerchiamo di costruire un rapporto con gli animali in generale e con questo in particolare per trovare una comunicazione che vada al di là delle parole, una comunicazione che travalichi tutto il linguaggio che abbiamo appreso fin da piccoli, quello ordinariamente verbale e quello anche del corpo. E' come cercare di comunicare con gli alieni, con un altro mondo, è come cercare un ponte con un altro noi stessi, primitivo, profondo, che non aveva bisogno di linguaggio per "sentirsi" con l'altro, per percepirsi. Nell'animale immagino che ricerchiamo quel primitivo animale che è sicuramente in noi e che la civiltà dei secoli ci ha fatto perdere. E' come se cercassimo chi siamo... in origine, quando non avevamo ancora inventato alfabeti. Deve essere per questo che quando "ci capiamo" con il nostro animale, la cosa ci dà tanta allegria, soddisfazione, abbiamo attraversato un ponte al di là del quale ci siamo noi. 











mercoledì 6 marzo 2019

Don Aniello Manganiello... fede nella Parola, amore in Dio

E' da un po' che non ci si vede.
Di cose ne sono accadute, e tante. Anche fare una sintesi diviene complicato.
Diciamo che fondamentalmente sono stato preso dalla preparazione di no spettacolo cui tengo molto, "Poeta per Poeta" dove si parla di Divina Commedia letta, vista, analizzata da altri poeti, e che ha avuto una sua replica a Torino. E ora me ne scendo giù nella mia Salerno per preparare un'altra cosa che mi sta a cuore: "Gesù è più forte della camorra", per la regia e l'adattamento di Pasquale De Cristofaro, tratto dall'omonimo e fortunato libro di don Aniello Manganiello e Andrea Manzi che non so più a quale numero di ristampa sia arrivato.
Mentre la prima era una sfida del cuore, intima e delicata, questa sarà una sfida della forza, dell'emozione, del credere, un percorso complicato nel quale conteranno mille cose, oltre la propria esperienza professionale, e probabilmente la cosa più importante sarà proprio il credere, la fede, e se non proprio la fede in Dio (altra cosa intima e a mio avviso difficilmente esplicitabile), almeno la fede nell'uomo e soprattutto nella Parola.
Mi accingo a questo viaggio nel profondo della Parola umana con la consapevolezza della mia pochezza ma con il desiderio di corrompermi per apprendere.
Non avrei mai immaginato di interpretare un sacerdote. E dalle prime letture fatte in solitaria mi è chiaro che non è la più semplice delle situazioni. Cos'è e chi è un uomo che è dedito agli altri non per amore diretto verso di loro ma per amore assoluto verso il Padre, il cui compito pare essere quello di aiutare tutti i figli a tornare ad essere figli. Credo si sbagli quando si pensa a un prete come un banale crocerossino dedito al prossimo. Paradossalmente, un prete ama Dio e non l'uomo. Il suo amore per l'uomo è una conseguenza, uno strano riflesso scambiato per luce originaria.
Nel suo amore per Dio egli opera per il compimento del suo regno sulla terra, e in quest'opera c'è il ricondurre a casa i suoi figli dispersi. Il cuore dell'opera sublime di don Aniello è proprio nelle conversioni di camorristi che è riuscito a far compiere, ma non lo ha fatto per suo piacere o orgoglio, lo ha fatto per amore di Dio. E lo ha fatto usando quello che è il primo strumento della mia professione: la Parola.
Il viaggio sarà complesso, ma ho la netta sensazione che è questo lo strumento da cui devo lasciarmi attraversare. Credo di essere pronto.
L'opera è alta e io, quale sacerdote laico, metto a disposizione del mio rito tutta la mia fede in esso.
Confidando intimamente nell'amore e nel sostegno di Dio.
Ci potremo vedere, per cominciare, a Salerno, Sala Pasolini, il 6 e 7 aprile. Poi chissà...

mercoledì 13 febbraio 2019

Sì TAV - No TAV, L'ERRORE (un rapido pensiero della massaia che è in me)

Scusate, voglio fare una domanda semplice perché la questione è molto complessa e non investe soltanto il problema di completamento o no del corridoio5 col tratto Torino-Lione, ma il sistema di governo. Attenzione, non l'attuale sistema di governo, che è ancora "in embrione" (nella sua (ri)nascita), ma quello radicatosi nella mente della maggioranza dei cittadini negli ultimi 30 anni, per cui non esiste più la mediazione e la ricerca del compromesso ma soltanto il decisionismo. Il Decisionismo è parte del Facilismo: la gente delega e si sgrava così del problema, non se ne deve più occupare, esattamente come accade in un condominio quando hai segnalato la rottura dell'ascensore all'amministratore, a quel punto il problema DEVE essere risolto da un altro. Questa concezione della Politica ha allontanato il cittadino dalla Politica stessa, fornendogliene, oltre tutto, una visione distorta: il politico come Amministratore Delegato. Il meccanismo rende la vita del cittadino più facile (ma non più semplice come si può serenamente osservare), ma ha anche un altro risvolto, negativo: che l'AD può fare come vuole, giustificando e motivando in mille modi, e magari attraverso lo sfruttamento di una sostanziosa rete di relazioni, il proprio operato; in pratica, il politico può anche decidere di farsi i fatti propri. A quel punto, il cittadino che ha delegato, deve mettere in campo un'altra delega, quella alla magistratura, fidando e sperando che quest'altro Potere dello Stato se ne occupi... Ma in qualunque caso, il cittadino è messo in un angolo. E mi, spiace dirlo, per suo "collaborazionismo": è stato lui il primo ad accettare, a volere, a sostenere e invocare un sistema in cui poteva delegare, così da non avere rotture di balle. In questo sistema ci sono quelli che si oppongono, una minoranza (che però sta divenendo maggioranza) spesso additata come sovversiva, distruttiva e tutta la sequela di epiteti denigratori che ben conoscete. Ma lasciamo un momento da parte questo schema che è generale e che in realtà investe il mai risolto problema del rapporto tra governabilità e rappresentatività. Voi cosa preferite? Io la rappresentatività. Preferisco infatti che si discuta di più si decida un po' meno ma che alla fine nelle decisioni prese ci siano bene o male assommate le idee della maggioranza dei cittadini. La governabilità, per capirci, è quella delle elezioni dei sindaci in Italia (la legge madre di tutti i disastri), o del presidente in Francia, dove un Macron diviene capo di Stato con il solo 25% dei voti effettivi e decide della vita del 100% senza che almeno un fetentissimo 40% possa mettervi bocca. Potremmo fare mille esempi su questo se guardassimo a come sono governate tutte le nostre città e da tutte le parti politiche, ma lasciamo stare. Tornando alla domanda semplice iniziale: perché la questione può essere solo declinata nei termini di SìTAV o NoTAV? Perché non ci sono mai state altre opzioni sul tavolo? Perché, ai tempi di un tal Burlando, si decise che si doveva bucare la montagna punto e basta? Perché nessuno ha mai voluto davvero prendere in considerazione le alternative proposte che non avrebbero impedito il compimento dell'opera? Perché ci ritroviamo in questa situazione assurda che ci vede ancora una volta schierati come in Coppi-Bartali, Callas-Tebaldi, MIlan-Inter, Nordisti-Sudisti, Baggio-Del Piero, ecc. ecc. ecc.
C'erano le soluzioni alternative? Ma in nome di cosa non sono mai state considerate? Io credo in nome del primato della GOVERNABILITà, della idea del "ghe pensi mi", del "decido io", ed è questo concetto, fondamentalmente, che si doveva fare ingoiare al popolo, non la giustezza o no dell'opera. E giunti al punto in cui siamo, anche quei politici "pro-popolo" che sarebbero aperti al dialogo e alla ricerca di altre soluzioni si ritrovano ormai schiacciati nello schema senza possibilità di uscita. A meno che non vogliano trovarla perché la Politica può sempre trovare una giusta soluzione. Ma per farlo deve occuparsi realmente del problema e non dell'uso dello stesso a fini politici. Saranno in grado di farlo? Spero di sì. Perché la famosa domanda che volevo fare è: ma se una cassetta di zucchine viaggia a una media di 250 km l'ora da Lisbona a Kiev (da LISBONA A KIEV!) sarà proprio tanto grave se in un tratto di una quarantina di chilometri la sua velocità scende a 150? PS - Se la Lega chiederà il referendum su questo tema, andrà a sbattere e potrebbe essere l'inizio del declino. Tutti i territori nei quali per fare 80 km in treno occorrono due ore e mezza, o quelli che ancora hanno binario unico o che non hanno proprio la ferrovia, gli voterebbero contro. La propaganda dell'avversario sarà molto semplice: "la TAV porterà sviluppo dove si fa; gli investimenti della TAV potrebbero essere usati in altro modo". Non è uno scenario complicato da immaginare.
Scendere in piazza con "le madamine" a Torino è stato per gli uomini di Salvini un errore. ZIngaretti, infatti, ha appena dichiarato che alle prossime elezioni il partito dovrebbe candidare persone lontane dalle politica: "per esempio le madamine torinesi". Era fin troppo facile capire che quella era una manifestazione di radical chic e non di gente che prende un fottutissimo regionale tutti i giorni.

martedì 22 gennaio 2019

POLITICHE TEATRALI, QUELLI CHE FANNO "I CONVEGNI".



Se c'è una cosa che detesto è fare il profeta. A questo Paese bastano le lagne di Celentano perché vi si aggiungano le mie.
In un post precedente vi avevo o non avevo avvertito che sarebbe cominciata una sarabanda di convegni nei quali persone di varia estrazione professionale ma certamente non teatrale e soprattutto NON TEATRANTI avrebbero aperto discussioni, dibattiti, conferenze il cui unico scopo recondito non sarebbe stato quello di parlare della condizione dei lavoratori (passo primario e principe per potere parlare di attività culturali), ma quello di accreditarsi come credibili interlocutori presso una classe politica che nulla sa di teatro e teatranti? 
Questo di cui vedete la pubblicità nella foto sarà anche un ampio e importante dibattito, di larga durata e con tanti sponsor, con un bel sito ad annunciare l'evento e un solerte ufficio stampa, ma dalla ricerca rapida che ho potuto effettuare, l'elenco dei relatori non contiene il nome di un solo teatrante, attore, regista o tecnico. 
Se lo credete opportuno, rifate la ricerca e ditemi se ho sbagliato. Sono giornalisti, critici, professori, studiosi di vario genere... 
NESSUN TEATRANTE! 
Eppure costoro parleranno del vostro futuro, e voi, cari i miei colleghi Lavoratori dello Spettacolo, sarete relegati al ruolo di spettatori, e forse vi sarà concesso di fare qualche domanda. 
CARI COLLEGHI LAVORATORI DELLO SPETTACOLO, ve lo dico semplicemente: per relazionarsi con le istituzioni ci vuole almeno una forma mentis istituzionale. Non voglio dire che dobbiate fare per forza una Associazione dei Professionisti anche se sarebbe la cosa più sana, ma invece di andare a questo o ad altri convegni dove nessuno di voi potrà parlare, organizzatelo voi un convegno.
Io, purtroppo, non sono più a Roma, città che - come diceva la dolce Lara Pasquinelli - ci ha letteralmente cacciati ("Ci stanno cacciando, Alfonso" ripeteva Lara prima di morire a 45 anni perché il cuore le ha ceduto, e un cuore non cede solo per malattia, ma per solitudine, per mancanza di lavoro, di prospettive, di vita, di affetto... ); ormai vivo in un vero e proprio angolo d'Italia, dove vorrei che accadessero più cose, ma... lasciamo stare.
Io, purtroppo - dicevo - non posso essere in loco a darvi una mano, ma se posso aiutarvi a fermarvi e a riflettere con queste poche righe, beh, lo faccio molto volentieri. 
Voi, però, riflettete, vi prego. Ma soprattutto, fate sì che le vostre azioni siano conseguenziali ai pensieri. Tanto, già morite di fame, ma se pure mandate affanculo qualche "potente" (o sedicente tale) di più, ma cosa pensate che cambierà nella vostra vita professionale? Sappiatelo, sarà la stessa merda di sempre. 
Non potrò mai dimenticare un importantissimo professore, studioso di teatro, di questo angolo d'Italia in cui vivo, che alla mia domanda su se conoscesse le riforme Franceschini e per esempio il "problema 35 anni", mi guardò perplesso e ammise di no, di non sapere nulla. Eppure è ritenuto uno dei massimi esperti di Teatro in Italia, ma della vita del Teatro sapeva letteralmente nulla. Gli dovetti spiegare e rimase di stucco. 
Ecco, sappiate che è questa la gente che, se non interverremo, domani si siederà ai tavoli istituzionali per decidere del futuro dei lavoratori italiani dello spettacolo.  

mercoledì 16 gennaio 2019

PROSA, MA A COSA SERVE LA SOVVENZIONE STATALE? (uscire dalla logica de "La Chiuuultuuraaaaa -wooow")

Mi asterrò da un discorso lungo e complicato, per quanto l'argomento sia complesso. 
Ho appuntamento col mio tributarista, causa simpatiche cartelle esattoriali annullate quattro anni fa dal giudice e ancora risultanti nel mio... credo che si chiami "estratto di ruolo", o forse sbaglio... insomma nella mia scheda tasse. Permetterete che mi roda un po'!

Prima di andare, però, ho promesso a un caro amico che avrei messo nero su bianco il mio pensiero sul FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo, o più semplicemente le sovvenzioni statali a sostegno della Cultura.
Ecco, già qui c'è da fare il primo chiarimento e si spererebbe che una volta per tutte spariscano certe locuzioni che sono mistificatorie, mistificanti, fuorvianti e soprattutto che si prestano a speculazioni di parte.
Quindi ripetete con me: 


Lo Stato non sovvenziona LA CULTURA ma LE ATTIVITA' CULTURALI 
Lo Stato non sovvenziona LA CULTURA ma LE ATTIVITA' CULTURALI
Lo Stato non sovvenziona LA CULTURA ma LE ATTIVITA' CULTURALI
Lo Stato non sovvenziona LA CULTURA ma LE ATTIVITA' CULTURALI
Lo Stato non sovvenziona LA CULTURA ma LE ATTIVITA' CULTURALI

Cambia? Hai voglia se cambia!, è proprio tutta un'altra cosa. Per un semplicissimo principio: solo un cretino può pensare di produrre un capolavoro, di fare cultura, di produrre Arte.
Le persone serie, fanno quotidianamente il proprio lavoro, quello per cui si sentono portati, che sentono di svolgere bene, e lo fanno con piena coscienza e dedizione. Poi - DOPO! - a un certo punto, qualcuno o qualcosa ci dice che è stato prodotto un capolavoro, che si è fatta dell'Arte.
L'Arte è in qualche modo qualcosa che ci sfugge di mano... 

In quest'ottica, dove il principale valore è il lavoro, la cultura non è altro che l'esercizio del lavoro stesso, l'esercizio professionale e quotidiano, tramandato di mano in mano nel tempo, con tutte le sue naturali evoluzioni ma che procede su di un percorso netto e soprattutto lineare non ostante tutte le normali digressioni che può conoscere. 

Il concetto che lo Stato deve sovvenzionare la Cultura è ormai divenuto funzionale a una serie di attività che con la scusa della "produzione culturale", quindi in un'ottica di intellettualizzazione del processo creativo, drena risorse al sistema a vantaggio di pochi e a scapito dei molti. Per far ciò necessita un meccanismo che valorizzi, supporti e propagandi il tutto, in un processo che autoalimenta se stesso e i suoi adepti. 
In questa visione il FUS è letteralmente sprecato poiché non assolve alla sua vera funzione, cioè non assolve a quello che è il vero compito dello Stato: proteggere il lavoratore. 

D'altronde, il tanto sempre citato art. 9 della Costituzione dice:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnicaTutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Si parla di "sviluppo della cultura" - associato sempre, anche nell'art 33. all'attività scientifica, e questo è un altro punto su cui si dovrà riflettere - e nel termine cultura sarà compreso tutto, anche come si fa una pizza, o solo quello che alcuni decidono sia arte e cultura? Questo perché la Costituente aveva chiaro un semplice concetto: da dove arriverà il capolavoro o la novità scientifica rivoluzionaria non si sa, lo Stato deve fare in modo che arte e scienza arrivino sempre al maggior numero di persone possibili, sia come fruitori che come operatori attivi, e basta. 
Chi si arroga il diritto di dire che una cosa è Cultura e l'altra no, tradisce il dettato costituzionale. 
E se promuovi "lo sviluppo" non puoi innanzi tutto non proteggere i lavoratori che di quello sviluppo si occupano.   



Ora: sorvoliamo per un attimo sul fatto che il FUS sostiene tante diverse attività e restiamo per un momento sul mio capo, quello del teatro di Prosa, chiedendoci: 
A COSA SERVE DAVVERO LA SOVVENZIONE STATALE?
Si dice, in maniera sommaria, a ricoprire le perdite. 
Dato che praticamente ogni anno i produttori chiedono di accedere al FUS (parliamo di "Privato", perché è evidente che il "Pubblico" deve per forza accedervi), c'è da immaginare che siano sempre in perdita; ma è immaginabile che una impresa sia continuamente in perdita? Evidentemente no, sarebbe una azienda malata. 
Ma a parte il fatto che, almeno un tempo, quando si lavorava!, le Compagnie NON erano sempre in perdita, il sostegno dello Stato aveva un valore fondamentale per la qualità degli allestimenti, ma soprattutto per la tutela dei Lavoratori dello Spettacolo.

Provo a spiegarlo con un esempio: un regista chiede all’impresa, dopo aver scelto dei bravissimi protagonisti, di scritturare per un ruolo non principale un attore non di grido ma molto bravo, così da “mantenere uniforme” la qualità dell’allestimento; questo attore, avendo professionalità e esperienza, ha un certo costo; l’impresa, però, preferirebbe un altro attore, un po’ meno bravo, magari un po’ più giovane e dal costo più abbordabile. A questo punto il produttore fa le proprie valutazioni: se sa che a fronte di una perdita potrà contare sul sostegno dello Stato, sarà sicuramente più disponibile verso la richiesta del regista; in caso contrario evidentemente no, cosa che creerà una serie di problemi. Innanzi tutto alla qualità dello spettacolo (perché io sto facendo l’esempio solo su un singolo attore, ma dovete immaginare che il meccanismo va a replicarsi su ogni comparto dell’allestimento), ma soprattutto sul conflitto interno al “corpo dei lavoratori” che verrà automaticamente a crearsi: perché “l’attore più bravo”, escluso per motivi economici, in una successiva occasione sarà costretto a rivedere al ribasso il proprio compenso; ma per restare in corsa, lo stesso dovrà fare “l’attore meno bravo”, e così via… Si sa bene dove porta questo giochino e non credo si debba aggiungere altro per comprendere quanto può essere importante la rete di protezione offerta dallo Stato, cioè dai lavoratori stessi a tutti gli altri lavoratori: perché di deflazione salariale in deflazione salariale i vincenti possono solo essere i dilettanti. 

Il valore della Sovvenzione statale è questo: proteggere i lavoratori e in questo modo promuovere lo sviluppo delle attività culturali, che in quanto tali possono solo essere professionali. 

Il problema cui siamo oggi di fronte è: può uno Stato che ha ceduto la propria sovranità monetaria, e quindi la possibilità di decidere della propria politica economica, e quindi, banalmente, decidere quanti soldi investire qui e quanti lì... sovvenzionare adeguatamente il nostro comparto? 
Evidentemente no. 
E inoltre può farlo in un sistema dove le crisi, non potendo essere scaricate sulla moneta, devono per forza essere scaricate sui salari? 
Evidentemente no.

Pensate non riguardi la Prosa? E invece riguarda anche la Prosa.
Nel corso degli ultimi anni, tutti noi scritturati sappiamo che i tagli fatti al comparto delle attività culturali si sono tramutati in paghe più basse, molto banalmente. 

I produttori, sia privati che pubblici, per sopravvivere, hanno semplicemente scaricato sui lavoratori le loro difficoltà, mettendo in scena commedie con meno personaggi (anche qui molto banalmente) e abbassando le paghe (sempre banalmente). 
Ditemi che non vi risulta!  
E per le stesse produzioni, meno soldi in giro, patti di stabilità, restrizioni di sovvenzioni regionali e comuncali, hanno significato meno Comuni che fanno stagioni teatrali, pagamenti con tempi indecenti (anche questi banalmente scaricati sui lavoratori che attendono anni), tournée decisamente più brevi, talvolta inesistenti... 

E in questo sistema, dove le risorse si sbriciolano sempre più, la lotta tra lavoratori, tra comparti, tra dipendenti amministrativi e personale artistico, tra sindacalizzati e non, senza contare la pletora di "intellettuali" che in nome della chiultura vegetano sulle spalle di tutti gli altri, si fa sempre più accesa, sviluppa sempre maggior odio e insofferenza. A me non pare così difficile da capire: dieci ossi per dieci cani significa un osso a testa, tre per dieci cani vuol dire che qualcuno digiuna. 

Mi si dirà: allora hanno ragione coloro che chiedono più fondi?!
Certo che hanno ragione, ma dipende per farci cosa e con quale filosofia. Se stiamo ancora a "la chiulturaaa", siamo totalmente fuori strada. 

Mi si dirà che qualcuno disse: "Con la cultura non si mangia"?!
Vero, ma il citare questa frase è solo un modo per scaricare su una sola parte politica le responsabilità e assolverne l'altra che a quel punto può continuare a invocare fondi per il proprio progetto di dominio culturale.
Tutta questa roba va consegnata alla Storia perché semplicemente non si ripeta più.
Quello a cui oggi si deve pensare è come sbloccare il Paese nel suo complesso, smettendo di vivere di ELEMOSINE, smettendo di pensare che qualche "animale sia più uguale degli altri", anzi mettendo nell'angolo chi solo si azzarda a pensarlo. 


Se il comparto Prosa nel suo complesso continuerà a bersi la favola della Cultura, come ho già avuto modo di scrivere si avvererà la "profezia" di Tremonti.
Perché forse un filo di verità nel fatto che con la Chiultura non si mangia c'è, o per lo meno non ci mangiano tutti.
Con il Lavoro sicuramente sì!