domenica 9 maggio 2021

ALDO MORO, GIUSEPPE IMPASTATO, LE DUE MORTI CHE NON SONO UGUALI (9 MAGGIO 1978)

 

Sto per scrivere una cosa che ai più non piacerà, ma sento di volerlo fare.

Oggi, 9 maggio, ricorrono i tristi anniversari della scoperta del cadavere di Aldo Moro a Roma e di Giuseppe Impastato a Cinisi in provincia di Palermo (1978).

Come saprete, la morte di Impastato rimase praticamente oscurata dall’assassinio del grande statista democristiano, forse il solo che l’Italia repubblicana abbia avuto, all’epoca in pectore come Presidente della Repubblica.

Non ci fu indifferenza verso la morte di Peppino, come lo chiamavano gli amici, ma l’altro “fatto” fu così sconvolgente, che quasi naturalmente coprì tutto il resto. D’altronde il rapimento Moro aveva tenuto col fiato sospeso non solo l’Italia, ma il mondo intero per ben 55 giorni, mentre la notizia della morte di Impastato arrivava sulle pagine dei quotidiani nazionali come uno dei tanti casi di cronaca e con dinamiche che sul momento erano tutte da chiarire. 


Dovemmo arrivare al 2000, ben ventidue anni dopo perché alla memoria di Impastato fosse restituita giusta collocazione; e ciò avvenne fondamentalmente grazie a un film di clamoroso successo, “I cento passi”, del regista Marco Tullio Giordana,interpretato da un giovane ed esordiente Luigi Lo Cascio.

Da allora il ricordo di Peppino Impastato è associato a quello di Aldo Moro, come due vittime di una stessa ingiustizia, di una stessa negazione di verità e libertà, perpetrate da un lato dalla Mafia e dall’altro dalle Brigate Rosse.

Bene: è su questo punto che è necessario fare chiarezza perché i due fatti non sono simili né associabili, se non che nell’assassinio di due innocenti.

 

Prendo spunto dal primo twitt che mi è capitato sotto mano, quello di Maria Elena Boschi, ma senza alcun intento polemico, il suo valeva, a scorrere l’hastag #AldoMoro, quello di tanti altri. 




 

1 – Mettere sullo stesso piano la Mafia e le BR è un errore oltre che politico, strategico nella lotta a queste due pericolose entità.

Perché le Brigate Rosse, come un qualsiasi altro movimento ideologico, vogliono sovvertire, attraverso una organizzazione e un’azione paramilitare, l’ordine dello Stato, al fine di impiantare un diverso ordine, quello appunto in cui gli appartenenti a quella organizzazione credono. Le BR erano una formazione di sinistra, ma si potrebbe fare esattamente lo stesso discorso per una formazione di destra: il fine di questi “rivoltosi ideologici armati” è sostituire lo Stato vigente con un loro Stato, ed è presumibile, soprattutto nel caso di una organizzazione che trae ispirazione dall’ideologia marxista, che la Mafia non sia contemplata nella sua visione di Stato e di giustizia sociale, essendo la criminalità organizzata per sua stessa natura contraria proprio al concetto di giustizia sociale.


Dal canto suo, invece, la Mafia non vuole sostituire Stato con Stato, ma ha interesse ad avere uno Stato squinternato, sfasciato, disarticolato nelle cui pieghe muoversi per fare i propri affari. La criminalità organizzata vuol assumere potere di Stato soltanto per la gestione delle situazioni che la interessano, il famoso “Stato nello Stato”, ma lo Stato le serve e non vuole perderlo. È come una tenia che divora il cibo con cui il corpo in cui se ne sta nascosta si nutre e senza il quale morirebbe.

Pensate che la Mafia stanzierebbe i fondi per la realizzazione di una qualsiasi opera di pubblica utilità? Certamente no! La Mafia vuole che uno Stato sgangherato stanzi i fondi per la realizzazione di opere pubbliche in cui infilarsi per lucrare.

Mi par dunque chiaro che mettere sullo stesso piano Mafia e Brigate Rosse è un errore.

 

2 - Col doveroso rispetto per Peppino Impastato, i due omicidi, come dicevo, non sono simili né sovrapponibili.

Per quanto sia doloroso il dirlo, la morte di Impastato è una delle purtroppo tante morti di mafia. L’elenco è tragicamente lungo, ed ogni morte ha la sua storia,i suoi caratteri, la propria specificità. Quel che sicuramente ci commuove nella storia di Impastato è la giovane età della vittima, il coraggio della sua esistenza all’interno di una realtà familiare e sociale più che difficile, il tentativo maldestro di manipolare la sua fine come fu per GiangiacomoFeltrinelli, il silenzio che avvolse l’omicidio per troppi anni date le circostanze di cui si è detto. 

E c’è anche da chiedersi: Se non ci fosse stata l’emozione collettiva suscitata dal film, bellissimo film di Giordana, sentiremmo lo stesso trasporto verso questa vittima di Mafia o sarebbe nell’elenco come tante altre? Fermatevi un attimo a riflettere e chiedetevi: ci sono state altre giovani vittime delle criminalità organizzata, e queste vittime avevano in casa membri legati alla società mafiosa, e queste vittime si sono comportate con un coraggio che nessuno di noi avrebbe avuto, sono anche loro andate al macello come agnelli sacrificali spesso nella indifferenza generale? Purtroppo la risposta è Sì.

Che Giuseppe Impastato assurga a simbolo delle tante vittime di Mafia perché attraverso la sua figura possiamo in questa giornata ricordarle tutte è auspicabile, doveroso, importante, giusto, ma… ma l’omicidio di Moro è altra cosa.

 

Sentii dire una volta a Riccardo Misasi che quel 9 maggio 1978 non era morta la Democrazia Cristiana, ma era morta la democrazia in Italia.

Per quanto possa sembrare forte e assurda io capisco oggi che quella frase era profondamente veritiera.

Sulla morte di Aldo Moro, non ostante il grande lavoro delle Commissioni d’inchiesta, della Magistratura e delle FFOO, dei giornalisti, persistono misteri che probabilmente non verranno mai rivelati, almeno fin quando saranno in vita persone che possono essere state direttamente o indirettamente coinvolte nei fatti. Del caso Impastato, invece, sappiamo tutto.

Non è questione di far graduatorie, di creare morti di serie A e di serie B, ma il mescolare le cose porta ad un annebbiamento e ad una corruzione della memoria che ci si deve chiedere a chi e a cosa possa giovare.


Aldo Moro è stato il più grande statista che questa nostra Repubblica abbia mai avuto, ancor più di Alcide De Gasperi, il cui immenso merito fu certamente quello di portare l’Italia fuori dalla guerra, darle insieme ai gradi leader degli altri partiti, Nenni, Togliatti… la sua forma repubblicana, ridarle dignità internazionale, e avviarne la rinascita.

Moro aveva una visione precisa della Nazione, del suo futuro, della struttura che si doveva raggiungere, del compimento della nostra democrazia e anche una visione centrata del passato. Aveva un metodo e degli obiettivi da perseguire, in nome della Patria e della Democrazia in questo nostro Paese. Quel che l’Italia riuscirà a fare in quei trent’anni, dal ’48 al ’78, resterà irripetibile non solo nella sua storia ma anche in quella di moltissimi paesi occidentali. E Aldo Moro è il fondamentale protagonista nel compimento di questo percorso. Non è azzardato affermare che la nostra nazione non ha mai più avuto un ministro degli Esteri del suo valore e con le sue capacità.

E aveva un metodo: di dialogo, di costruzione, di collaborazione, di paziente convincimento e coinvolgimento, e quella che ai più poteva sembrare una sua debolezza era in realtà la sua forza: la calma, la pazienza, la ricerca costante del punto d’incontro e del compromesso. Un metodo che, se vi fermate a riflettere, è praticamente perfetto per un Paese fatto di ottomila comuni, di ottomila campanili, di realtà diverse nelle tradizioni e nelle sensibilità, un Paese che necessita di costantemente del compromesso tra culture diverse, che soffre nella omologazione e si esalta nella diversità sua propria territoriale.

So già cosa diranno altri: “Anche Berlinguer”. Io non vi dico di No, vi dico solo: “Non lo sappiamo poiché Enrico Berlinguer non ha mai avuto responsabilità di governo”, quindi l’accostamento non è fattibile. È parte della narrazione di una parte, ma non può avere nessun riscontro effettivo, è solo basato su i “se”.

Mentre sono fatti le azioni compiute Aldo Moro per questo nostro Paese. Una delle letture che sento di consigliarvi è “Il puzzle Moro” di Giovanni Fasanella, un libro estremamente interessante costruito sui documenti desecretati del servizio segreto inglese. Lì si capisce chiaramente quale possa essere il percorso a ostacoli, la giungla in cui un governante è costretto a muoversi per raggiungere gli obiettivi che si è prefissato, le immense difficoltà che incontra per la sua nazione, il suo governo, per il partito, personali, le migliaia di trappole tese costantemente nel gioco del potere e dei poteri.

Non devo rifarvi la storia di Moro, è davvero pieno di libri, film, documentari, ma il presupposto perché l’azione di un parlamentare sia efficace è che egli si senta libero di agire: può, dopo un caso così clamoroso, un caso nel quale chi voleva perseguire un obiettivo inviso ad alcuni poteri sovranazionali, ha pagato con la vita? può sentirsi davvero libero?

Come l’ultima Commissione d’inchiesta guidata dall’ex ministro Fioroni ha certificato, nella morte di Moro, quel 9 maggio 1978, le BR c’entrano poco o nulla. I misteri persistono, la Commissione non ha saputo ancora dirci “chi fu e chi volle”, ma qualcosa di certo ce l’ha detto, che per esempio il racconto dei terroristi sull’omicidio nel garage di via Montalcini 8 è palesemente falso. E tanto altro.


L’omicidio di Aldo Moro non è uguale a quello di Giuseppe Impastato. E mi si scusi, ma non mi spiace dirlo, perché è una ovvietà, un qualcosa che dovrebbe essere evidente, soprattutto perché, ribadisco, non c’è alcuna volontà da parte mia di creare morti serie A e morti di serie B, solo che sono due cose differenti.

 


Ma allora, può esserci un qualche motivo dietro questo continuo accostamento?

 

3 – Già mi era capitato di notare che una certa sinistra, ex comunista, stava curiosamente proponendosi come biografa di Moro e narratrice della sua tragica fine. Uno degli esempi più limpidi è stato il libro del direttore de L’Espresso, Damilano, che giunse improvviso nel quarantennale. Dice: “Ma vuoi impedire a Da Milano di scrivere un libro?”. Per carità! Mi pare soltanto strano che un ex comunista, direttore del settimanale più di sinistra che questo Paese abbia avuto, decida all’improvviso di scrivere su di un argomento sul quale non mi pare si sia mai applicato particolarmente se non per il suo normale lavoro da cronista, sul presidente di quel partito che la sua storia politica ha sempre profondamente contrastato. Libro pubblicato poi da importantissima casa editrice, con grande spinta pubblicitaria, che diviene improvvisamente punto di riferimento del racconto di quei tragici 55 giorni. Quel volume, a detta di chi lo ha letto, non aggiungeva assolutamente nulla all’Affaire Moro, anzi la vicenda prendeva un che di romanzesco, quasi che il fatto fosse opera di finzione e non realtà (a proposito di “finzione – realtà”, oggi sono anche i cento anni dalla prima rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello).

Arriva in questi giorni nelle librerie la nuova fatica letteraria di un altro ex comunista, Walter Veltroni, e guarda caso è un libro sulla fine di Aldo Moro. E va bene, sarà indispensabile anche questo, non lo metto in dubbio; quello che non mi torna è altro: Marco Tullio Giordana è autore anche di un bellissimo film sulla morte di Pier Paolo Pasolini, “Pasolini, un delitto italiano”.

Pier Paolo, l’uomo del “io so”, ebbe a dichiarare e a scrivere di Aldo Moro: “Il meno implicato di tutti”, anche se Pasolini i “gerarchi democristiani” li voleva comunque tutti indistintamente alla sbarra.

Per una vita il Partito Comunista Italiano prima, e le sue varie deformazioni poi, si sono scagliate contro la Democrazia Cristiana, il grande partito popolare cattolico accusato di tutti i mali della Nazione proprio mentre la costruiva quella Nazione. Per far questo il PCI usò una strategia che, come ci racconta proprio Fasanella nel suo “Puzzle Moro” stupì per certi versi lo stesso statista italiano, quando in un incontro con il Primo Ministro inglese - era il 1963 e nasceva il primo governo di centrosinista - ebbe a dire che con il PCI si stava verificando un curioso fenomeno: la ideologia comunista non attecchiva tanto sugli operai come ci si sarebbe aspettato, ma su intellettuali e artisti.

Forse, come la Chiesa centinaia di anni prima, i Compagni avevano subito compreso che il controllo della Cultura era via imprescindibile per raggiungere il potere, e gli effetti di quelle scelte strategiche ce li ritroviamo ancora oggi pesantemente sul groppone.

 

L’assassinio di Moro da parte delle BR pone un serio problema ai Compagni: la vituperatissima DC ha adesso un “santino”, un uomo intoccabile, una figura che per il sacrificio può solo essere mostrata al popolo nel suo lato positivo di grande statista, uomo buono, agnello sacrificale sull’altare della democrazia italiana.

Lui, Moro, “Il meno implicato” per imprimatur dell’altro agnello sacrificale, PPP, non può più essere attaccato. Si può attaccare il suo partito, gli altri uomini del suo partito, come Andreotti, Cossiga, Forlani, ma Moro no. E non basta, la domanda che si consolida è: se il presidente fosse uscito vivo da quei 55 giorni, la Democrazia Cristiana sarebbe stata la stessa? Quel partito che dalla opposizione si era cercato per anni di demonizzare, aveva ora un punto di assoluta purezza.

Nella narrazione degli oppositori questo è un serio problema. Potrebbe essere facile, partendo da quel punto di purezza mettere in discussione tutta la narrazione, tutto il male che si è detto e si continua a dire degli anni di governo della Democrazia Cristiana. Se il racconto frana, franano con esso i suoi costruttori.

 

Ma ecco che alla fine degli anni ’90 arriva un film e offre una possibilità di riscatto per “i narratori”, appunto “I cento passi” e la storia di Impastato.

Le due morti sono dello stesso giorno e una ha oscurato l’altra, ma se le metto insieme e costruisco bene la nuova narrazione, come spesso accade la gente non sarà portata a notare le differenze, non tenderà a “elevare” il “Caso Impastato” all’ “Affaire Moro”, ma farà scendere l’Affaire al livello del Caso.

Come? Ma è semplice: basta mettere le personali battaglie dei due sullo stesso piano, convincere le persone che Moro e Impastato combattevano per un comune obiettivo (lungi ovviamente dallo spiegare quale fosse), basta equiparare le BR alla Mafia (tanto “terrorismo” può comprendere qualsiasi cosa), basta condire il dolore e il rimpianto di quelle parole che vogliono dir tutto e nulla, come Libertà, Ideali, oppure Combattere l’odio, Contro la violenza… in una genericità, profondamente colpevole, che fa perdere di senso ad entrambe le storie.

In qualche modo, accostare la drammatica fine di Impastato, con la tragica fine di Moro è strumentalizzare Impastato per screditare Moro.

Ed è forse in tal senso che possiamo inquadrare lo sforzo degli ex “Compagni” nel volerci raccontare LORO la storia del presidente dell'odiato partito Democristiano.

Appropriarsene per fare in modo che tutta la narrazione resti ancora una volta nelle loro mani. 

Ma quelle due morti non sono uguali: da un lato è stato assassinato un ragazzo puro e coraggioso, dall’altro una nazione, che ancora oggi, quarantatré anni dopo cerchiamo faticosamente di ricostruire.