martedì 19 maggio 2020

CARO DE MASI, LO SMART WORKING NON E' LA SOLUZIONE

Egr. prof. De Masi, mi rivolgo a lei in quanto uno dei più noti sostenitori del cosiddetto telelavoro, o smart working, o più banalmente lavoro da casa, ma comprenderà che per suo tramite mi rivolgerò a tutti coloro che inneggiano a questa innovazione. Che poi, come lei spesso racconta nei suoi interventi televisivi, tanto innovazione non è dato che se ne parla da decenni e in altri Paesi è da tempo attiva. 
Nello specifico, racconterò quel che accade a casa mia.

Vivo a Torino. Quest'anno la mia attività lavorativa si svolgeva a Salerno, mia città di nascita, e lì sono rimasto bloccato quando è arrivato il lockdown. Poco male, a Salerno ho ancora i genitori, anziani, ultraottantenni, esserci è stato un modo per aiutarli ad affrontare questa strana situazione.
Nel frattempo la mia compagna era a casa nostra, e dopo i primi giorni di incertezza, la ditta per cui lavora ha deciso di metterla in smart working. 
Per lavorare meglio, è andata a comprarsi (lei!) uno schermo adatto e una tastiera da poter collegare al portatile aziendale, altrimenti si sarebbe "cecata" (lei è campano come me) passando chissà quanti giorni sullo schermo del pc.
P. si è dunque organizzata, ha occupato la mia piccola scrivania, che teniamo in soggiorno, e ha strutturato la postazione lavorativa. 
P. è una impiegata di medio livello alla quale è dato solo il telefono aziendale da usare rigorosamente per comunicazioni di lavoro. I numeri che chiama, infatti, vengono controllati e le telefonate "extra" le vengono tolte direttamente dallo stipendio. Ma questo è un dettaglio da poco dato che P. è perfettamente abituata, da sempre, per nostra abitudine mentale, ad usare il proprio di telefono talvolta anche per le comunicazioni lavorative.
Siamo in due, e la nostra casa non è per niente grande, due camere, bagno, cucina. Mentre io ero a Salerno e lei a Torino, abbiamo ragionato e ci siam detti che in fondo nella disgrazia eravamo fortunati, io perché potevo assistere i miei, lei perché poteva lavorare senza problemi da casa che a quel punto diveniva un ufficio.
Si è posto, però, da subito, un piccolo problema: nell'economia di una casa accade che i coniugi si dividano compiti e spese, nella nostra le bollette toccano a me; ne avevo una arretrata di telefono, non potevo rischiare che lei, a 900 km di distanza rimanesse senza collegamento internet e dunque sono corso a pagarla. 
Ma anche per me si poneva un simile problema, perché lavoro a un progetto del MIUR e dovevo adattarmi come tutti i colleghi professori a fare lezione on line. A casa di mia madre non ho connessione internet, per quel poco che faccio nei giorni normali, uso il telefono come modem. Sarebbe bastato, avrebbe retto i collegamenti con la piattaforma scolastica? Dovevo forse anche io munirmi di una connessione internet casalinga con altre spese da affrontare? Ho fatto una prova e per fortuna mi è andata bene, il solo telefono ha retto.
Da questo primo passaggio però, una cosa saltava fuori evidente: telelavoro, va bene, ma la connessione è a carico di chi? 

Ma andiamo oltre. 

Quando già negli anni '80 sentivo parlare di lavoro da casa, ricordo che si intendeva che l'impiegato non andava in ufficio, gli si affidava un compito ed egli gestiva il proprio tempo liberamente sapendo soltanto che entro la tal data avrebbe dovuto consegnare il lavoro. Beh, pensavo, interessante, un meccanismo che libera il tuo tempo.
Scopro oggi, invece, anche da altri amici che sono a casa in smart working, che il sistema non soltanto rileva quando accendono e quando spengono il computer, ma anche se stanno effettivamente operando. Uno di loro mi ha detto di sentirsi meno controllato in ufficio. 

Dopo il 4 maggio sono tornato finalmente a casa e ho potuto constatare di persona: la mia compagna continua a fare il normale orario di ufficio, non gestisce minimamente il proprio tempo. E da quando sono qui mi sto rendendo conto, tristemente, di altre cose: casa nostra, non è più casa nostra. Sarà anche dovuto al fatto che son solo due camere e cucina, ma mentre lei lavora, e magari fa una conferenza telefonica, io devo starmene relegato in altra stanza, avessi una mezz'ora di tempo per vedere un notiziario o ascoltare un disco, o leggere un libro che mi piace, non potrei farlo, anzi non posso farlo! 
Ed anche quando io mi collego con i ragazzi per le lezioni on line, chiudo la porta della cucina, a questo punto occupata da me, e lei non vi può entrare finché non finisco.
Casa nostra non è più casa nostra, è un luogo... amorfo, una sorta di limbo, un ufficio-casa che pare non più appartenerci, nei suoi spazi, nei suoi orari, nei suoi ritmi di vita.


Ma non basta: perché ti arrivano tutti i nervosismi, le discussioni lavorative, i malumori, le tensioni, e ti restano dentro casa... 

Ma non basta: capita pure che la mia compagna debba chiudere un certo lavoro, e allora accende il computer di sabato o di domenica, tanto "per avvantaggiarsi" dice lei, ma in realtà è una sorta di pensiero che non smette mai di essere con te, la vita diviene il lavoro e il lavoro la vita senza più distinzioni, mentre quando esci dall'ufficio, se ne riparla domani senza dubbio.
E capita anche che qualche suo superiore le mandi un messaggio di sabato pomeriggio o di domenica mattina... e il meccanismo non si arresta mai. 


Ma non basta: perché magari per terminare un lavoro, interrompe solo per cenare e poi si rimette al computer... 

Particolarmente zelante lei? Può anche darsi, ma quel che è certo, senza alcun dubbio, senza tema di smentita, è che casa nostra non è più casa nostra. 
E badi, professore, che non lo era nemmeno quando io ero bloccato a Salerno, questo lo dico perché nessuno pensi che sia un mio fastidio da quando son tornato, poiché P. mi raccontava di questi ritmi anche allora. 

Veda, professore, suddividere gli spazi è suddividere il tempo di vita, e suddividere il tempo di vita è migliorare la qualità della vita. Sia io che P. stiamo sperando che tutto finisca presto e che lei possa tornare in ufficio. Perché un'altra cosa che P lamenta è non avere più contatto umano con i colleghi, e non aver con loro nemmeno un vero contatto professionale. Al di là dei dieci minuti di pausa caffè in cui ci si racconta le stupidate della vita, anche alzarsi per andare da un collega a chiedere una spiegazione o per risolvere insieme una questione è dare un senso alla propria giornata lavorativa.
Ora la casa è un ufficio, l'ufficio è una casa, i tempi di lavoro non sono più distinti da quelli di vita, e quando ti siedi sul divano per vedere un film hai sempre lo schermo del computer lì di lato nella stanza che ti guarda, non si cambia aria, non si cambia ambienti, non si cambia respiro. E il respiro è vita.

Sa cosa davvero mi preoccupa, che come al solito si inneggerà alla innovazione, se ne decanteranno le meraviglie per poi accorgersi che ci sono un mare di problemi.
Ecco, questo esperimento sta già mettendo in evidenza i problemi, come con la Didattica a distanza, che è una schifezza senza pari. Allora, per una volta, ci piacerebbe sentire che si parte a discutere dai problemi e che vi si trova una soluzione, sia pur perfettibile, prima di attuare i progetti.
Pensi che noi siamo in due soltanto, siam soli in casa: qualcuno immagina la situazione di chi ha anche i figli, magari piccoli, da gestire? 

Io le dico, parlando per suo tramite a tutti quelli che magnificano sempre le innovazioni tecnologiche senza ascoltare mai chi pone un dubbio: grazie, anche no.
E sa perché? Perché è già chiarissimo che non è quello né che si immagina, né che si racconta. Sarà solo l'ennesima fregatura per i lavoratori.
Lei vuol vedere come si smonta subito l'entusiasmo delle aziende per il telelavoro? Stabiliamo che la connessione internet di casa deve essere per il 50% a carico dell'azienda. Basterà questa stupidata per far sbollire gli entusiasmi. 

Perché alla fine è solo questione di soldi.

Lo spazio e il tempo sono coordinate fondamentali nella vita di un uomo, ci abbiamo messo anni di riflessioni, discussioni, lotte, anche guerre per dargli una certa definizione che migliorasse la vita delle persone, se volessimo evitare di tornare al medioevo sarebbe francamente cosa gradita.  
   

giovedì 14 maggio 2020

L'INTERPRETE VISIBILE (una piccola interpretazione nel senso profondo)











Nella bella pagina FaceBook, "Vadaviaattore!" creata da Totò Onnis, amico e bravo collega (l'ho più volte visto recitare!), gli attori che vi partecipano si scambiano opinioni e informazioni. 
Oggi Totò ci ha postato l'interessante iniziativa di "Attore Visibile", uno dei diversi e vivaci gruppi di lavoratori dello spettacolo auto-costituitisi da un po' di tempo a questa parte, onde portare avanti le sacrosante battaglie per i diritti della categoria. 
Già, la categoria!
A questa parola si apre un discreto baratro; perché qual è la categoria, da chi e come è costituita? Ancora non lo sappiamo non ostante le interminabili lotte per definire e risolvere il problema. La questione, come infatti alcuni sanno, è antica, basti pensare che ne parlava Eduardo in una famosa lettera al ministro dello Spettacolo già nel 1959, e nel 1964 lo stesso Eduardo ci scrisse su una bella commedia: "L'arte della commedia". Quindi è da un po' che se ne parla senza mai esser giunti a una soluzione. Una volta ci è andato vicino il decano dei sindacalisti degli attori italiani, Tonino Pavan, ma poi tutto naufrago in Commissione parlamentare per interessi particolari estranei alla categoria.
L'attuale situazione Covid19 offre, nella disgrazia generale, una interessante sponda per spingere su questa come su altre questioni. 
Dovendo ad esempio stabilire a chi dare il contributo a fondo perduto, il cosidetto Reddito di emergenza, ecco che spunta come un iceberg la questione: "chi sono i professionisti e come li distinguo dai dilettanti?". 
Nel settembre 2018, segnalai in un post colmo di rabbia lo scempio di un ministro della Repubblica, l'onorevole Fedeli, che, prima di lasciare l'incarico, stringeva un accordo per il Teatro nelle scuole con una associazione nazionale di dilettanti, il FITA.
Poco meno di un mese e non potei esimermi dal segnalare che, non ostante quella del Ministro Fedeli fosse una cosa mal fatta per i mille motivi esposti nel post, un problema c'era ed era quello di sempre: se lo Stato li cerca, dove sono i professionisti? 

Invitavo lì a pensare almeno a una associazione, come quella dei dilettanti, che autoregolandosi desse una minima indicazione sulle professionalità. 
L'interessante proposta, oggi, di "L'attore visibile", postataci dall'amico e bravo collega Onnis (che più volte ho visto recitare!), va proprio in tal senso e credo che mi iscriverò non facendo mancare, per quel che posso, la mia riflessione.
Anzi, ce n'è una che mi preme fare subito. Perché il post di L'Attore Visibile è ottimo, tranne, a mio parere in un un punto decisamente discutibile se non detestabile poiché pervaso da misera ideologia, oltretutto, in questo caso, penalizzante per i teatranti stessi che si vorrebbero rappresentare. 
Mi spiego.
A un certo punto si legge che è stato identificato come nome della Associazione, U.N.I.T.A. acronimo di UNIONE NAZIONALE INTERPRETI TEATRO E AUDIOVISIVO 
dopodiché viene specificato, quasi una excusatio non petita: 

Abbiamo scelto questo nome anche perché la parola INTERPRETE è l'unico sinonimo di ATTRICE/ATTORE che non abbia declinazioni di genere, (una interprete, un interprete) e la questione di genere è un tema sul quale non intendiamo glissare.

Ora: a prescindere dal fatto che il genere in lingua italiana viene declinato dall'articolo, come il loro stesso esempio dimostra, e non dalla finale della parola (altrimenti dovremmo decidere che il femminile di Farmacista dovrà essere Farmacistessa o roba del genere); a prescindere dal fatto che questa moda di voler indicare per forza il genere femminile quando si è difronte a un "neutro", per esempio nelle cariche istituzionali (ministro o sindaco, sono termini neutri, declinati in italiano al maschile per convenzione così come si dice "uomo" per "umanità"), si rivela in realtà ghettizzante per il genere femminile stesso e di rimbalzo per quello maschile; a prescindere dal fatto che non esistono solo i due generi femminili e maschili, ma anche quelli gay e/o trans e/o tutti quelli identificati da un semplicissimo Freud... dunque quante declinazioni dovremo avere?; a prescindere che limitarsi al maschile e femminile vuol dire escludere, ingiustamente, tutti quegli altri generi, ecc. ecc. ecc. 
qui, la questione è tutta un'altra e si muove su tre punti chiave.
1 (quello fondamentale) - La lingua italiana è la sola, con buona pace di tutti ed intendendo fuori concorso il koishan dell'Africa centro-meridionale, in cui la parola ATTORE e la parola TEATRO sono l'una l'anagramma dell'altra
Non è una simpatica bizzarria della lingua, ma la concretizzazione di un significato profondo che investe in concetto stesso di Teatro, concetto magistralmente sintetizzato da Antonin Artaud (c'è qualcuno che ancora lo legge?), quando egli afferma che 
"il teatro E' il corpo dell'attore". 
Puoi togliere dalla scena qualsiasi cosa, costumi, scenografia, luci... il teatro sarà sempre, ma se togli il corpo dell'attore il teatro non è più. La carne sul palcoscenico, viva, è l'atto blasfemo della ipostasi verbo-carne che perpetuandosi rende il teatro la rivendicazione da parte dell'uomo di una possibilità di eterno, il riflesso sfuggente ma visibile della Verità.
Ecco dunque che il termine ATTORE non è la declinazione maschile di una professione, ma il senso stesso del Teatro in quanto carne dell'uomo, della umanità, che si fa viva e possibile sul palcoscenico. 

Nella lingua italiana, come in nessun'altra, dire ATTORE è dire TEATRO, e dire TEATRO è dire ATTORE. Immaginare che nel termine esista una declinazione di genere discriminante è un atto di profonda ignoranza verso la propria professione. 

2 - La parola INTERPRETE è limitante della specificità professionale
L'attore, infatti, non è solo un interprete di un testo o di una idea registica, è al contempo creatore di un atto artistico, di un'opera artistica che si concretizza nel suo stesso corpo/voce in azione. 
Per questo banalissimo motivo si dice che andiamo a vedere (andavamo, sic) la Medea della Mariangela Melato o la Bisbetica di Valeria Moriconi.
Ed è molto probabile che una parte di pubblico andasse a vedere l'artista (maschile o femminile?) Melato o Moriconi indipendentemente dal personaggio che interpretava quella specifica sera, a godere dunque della distinta creazione artistica della signora Melato o Moriconi. 

Il termine interprete non comprende la parte creativa che ogni attore, in quanto unicum, porta irrimediabilmente con sé, esso è dunque limitante la visione professionale, e limitativo nella interpretazione giuridica che ci si propone di sottoporre alla Politica.
3 - L'ideologia, e la recinzione del pensiero unico, stanno uccidendo l'espressione libera dell'uomo e di conseguenza la sua libera espressione artistica.
Se si intende rinchiudere l'arte nella gabbia delle mode ideologiche (oggi sono queste, domani chissà quali), il rischio è quello di inibire la potenza stessa della trasgressione e della sperimentazione, della ricerca che ha sempre alimentato la progressione dell'arte, contro il conformismo, contro il potere, contro l'arte consolidata stessa. 

Quello che pericolosamente stiamo vivendo è un tempo di codificazione della trasgressione, di inquadramento della sperimentazione e dell'avanguardia che alla fine definiranno solo generi senza alcuna reale creatività, senza futuro, senza più Arte. 
Per liberare i generi vanno tolti i limiti, le differenze vanno cancellate non rimarcate, altrimenti si rientrerà in quei totalitarismi che ingabbiano il pensiero e soffocano la creatività e la vita dell'uomo. In questo tempo di politicamente corretto, siamo giunti al paradosso che la tradizione è divenuta la vera sola trasgressione. 
Questo perché abbiamo un serio problema con l'ignoranza. Altrimenti sapremmo che Tradizione e Tradire hanno etimologicamente la stessa radice. 
Il passato è lì a dirci chi siamo davvero, solo recuperandolo ci salveremo.  


PS - detto tutto questo, resto a confermare che intendo essere un sostenitore della iniziativa e spero di essere accolto nella associazione (dopo quanto detto...) che UNITA si chiama e così deve chiamarsi perché il nome ha anche un valore simbolico in questo difficile momento (oltre tutto è gentilmente declinato al femminile il che non guasta). Spero solo di lasciare in ciascuno un briciolo di riflessione per le battaglie odierne e future. Le parole sono vita, e la vita non la puoi costringere mai. 

PPS - non è che ora cambiano il nome delle pagine FB in L'inteprete visibile o vadaviainterprete! Per favore anche no. 

venerdì 8 maggio 2020

9 MAGGIO

Domani sarà ancora 9 maggio. Domani sarà ancora il giorno in cui ricordare quando e come cominciò a morire la nostra democrazia, la democrazia di questa nostra giovanissima repubblica. 
Non so quanti di voi c'erano. Io ero giovane, ma c'ero e quei giorni li ricordo bene, stranamente bene per la mente di un tredicenne. Ricordo l'aria pesante che si sentiva in giro, un senso profondo di paura, di spaesamento, una inquietudine che coglieva tutti, che sentivi nei discorsi di tutti perché davanti a un tredicenne ognuno parla senza bisogno di nascondere i propri pensieri. 
Ero come uno spettatore, esterno all'azione, colpito dalle emozioni che quel terribile spettacolo rimandava: la rabbia di mia madre quando sentì che il Papa aveva scritto "vi prego in ginocchio" ("Il Papa, il Papa, 'sti delinquenti!), le facce giovanissime e impaurite dei militari di guardia al casello autostradale di Roma, lo sconcerto della professoressa di matematica, una giovane supplente, che il 16 marzo venne in classe per far lezione e non poté trattenersi dal darci la notizia, notizia che non capimmo nella sua gravità, i silenzi di papà giornalista, il martellamento di giornali e tv, e tante cose ancora.
Ma tutto questo non conta. Conta uno strano dolore sordo che da allora tanti di noi si portano dentro. Alcuni lo avvertirono subito, altri, come me, nel corso degli anni, vedendo la nostra Repubblica sbriciolarsi man mano e cercando le ragioni di questo lento e impietoso declinare. E da quel dolore, nascere uno strano affetto per quell'uomo mai conosciuto ma che ti pare ancora oggi di conoscere come tuo padre, un padre che voleva proteggerti e vederti crescere adulto e sano, e che ci è stato sottratto. 

A volta penso semplicemente che avevamo la possibilità di divenire una Nazione, per la prima volta nella storia della nostra penisola, una Nazione vera, adulta, autonoma come sono autonomi un uomo o una donna cresciuti in modo sano, capaci di affrontare a testa alta la propria vita, e invece quella possibilità ci è stata tolta.
I motivi ormai sono chiari e sono stati anche ben scritti nei tanti libri di coloro che hanno continuato a cercare, non è nemmeno il caso di ripeterli. 

La nostra battaglia per veder crescere questa Nazione continua e sono certo che noi, che ci portiamo quel dolore sordo dentro, non ci arrenderemo tanto facilmente a dispetto di tutto e tutti anche se si è fatta maledettamente dura, anche se il nemico è potente e terribilmente accanito, ma continueremo, perché dobbiamo e vogliamo continuare, ciascuno con i propri mezzi, lo dobbiamo a quell'uomo. 
Domani è ancora 9 maggio. Ci portiamo un dolore sordo nel cuore e non possiamo voltarci indietro. Lo dobbiamo a quell'uomo. 

Dio ti benedica, Presidente.