giovedì 21 dicembre 2023

Il MES è morto, VIVA L'ITALIA


La Camera respinge. Spiaze...

Addio #MES 

Grazie a coloro che si sono spesi quotidianamente in questa battaglia per salvare l'Italia, a cominciare da Claudio Borghi e Alberto Bagnai, Lidia Undiemi, Marco Zanni, Antonio Rinaldi, Matteo Salvini, la Lega nel suo complesso... E tutti quelli che sui social hanno combattuto tenacemente questa battaglia quasi di retroguardia, silenziosa, dura e costante.

Un grazie anche a Giorgia Meloni e a Fratelli d'Italia. È un grande passo, e chi oggi non capisce, tranquilli, domani capirà.

La Storia è come il vento, non la fermi con le mani, ma col lavoro onesto e sincero... quanto meno la spingi dove credi sia più giusto. 

Grazie. 

domenica 17 dicembre 2023

IL PNEUMA TRAGICO. SEBASTIANO LO MONACO, UN GRANDE ATTORE

 in questo post parlerò in modo esplicito, e non mi importa di quel che penserete o se vi scandalizzerete (magari, sono sempre più preoccupato dalla indifferenza della gente verso tutto quel che le accade intorno, tutto vi va bene, nulla vi riguarda, salvo poi risvegliarvi quando le sfortune toccano voi. magara vi si vedesse scandalizzati!) 


Sebastiano Lo Monaco, Floridia 18/9/1958 - Roma, 16/12/2023  
ATTORE


Il funerale di Sebastiano Lo Monaco sarà celebrato martedì 19 dicembre 2023 alle ore 12:00 presso la Basilica di Santa Maria in Montesanto - Chiesa degli Artisti - Piazza del Popolo - Roma 

Sebastiano Lo Monaco è stato un grande attore!
Un attore troppo spesso vilipeso da quella intellighenzia italica che non si accontenta di criticare le persone, le distrugge pian piano. 
Ha lottato tutta la sua breve vita (solo 65 anni, e sono decisamente pochi, cazzo!) per affermare il suo modo di essere e di fare teatro, quello di un attore totale, a tutto tondo, come non ne esistono più. 
Oggi vige il conformismo, anche il conformismo degli alternativi e dei ribelli, e coloro che si credono totalmente attori hanno sguardo solo per il proprio ego e alla soddisfazione di questo mirano, null'altro, il Teatro viene dopo. 
Per il bistrattato Sebastiano Lo Monaco, che aveva un ego smisurato, un ego che a volte gli faceva compiere anche cose contrarie all'educazione teatrale, parrà strano agli stolti, ma il Teatro veniva sempre prima! E intendiamoci, le sue sregolatezze erano piccole cadute, deroghe che suscitavano, in chi lo conosceva, soltanto una simpatica tenerezza.
Una volta, un ragazzo, un allievo dell'Accademia (la Silvio D'Amico, ne esistono forse altre?), chiese a Gabriele Lavia - altro siciliano come Lo Monaco, e i due avevano profonda stima reciproca - per quale motivo quell'anno avesse deciso di mettere in scena Edipo. Ero presente all'incontro, Lavia rispose che "un attore che non vuole fare Edipo non è un attore", e che poi c'erano dei motivi suoi personali che privati erano e tali rimanevano. 
Ecco, la differenza tra questi grandi e voi altri è che loro voglio essere Edipo, Otello, o il Padre dei Sei personaggi, perché questo un attore deve volere, ma servono il Teatro e lo ringraziano perché consente loro di soddisfare i bisogni del proprio ego. Altri cialtroni, che disprezzano quei Maestri, usano il Teatro per le proprie masturbazioni, mentali e spesso anche fisiche, visto che sono incapaci di una completa scopata!  
Sebastiano voleva fare i grandi personaggi, ma la sua preoccupazione era che lo spettacolo doveva essere degno di tal nome, ci volevano grandi registi, bravi attori, ottimi scenografi e costumisti, bravi disegnatori luci, ecc. ecc. Perché tutto doveva essere per il Teatro prima che per sé! La propria soddisfazione era completa solo se tutto era di altissimo livello. "Il pubblico deve entrare in un albergo 5 stelle - mi disse una sera Sebastiano - un 4 stelle con la spa sembra lo stesso, ma non lo è". Come dargli torto.

Memorabile il suo Cirano, a dir poco spettacolare, con una strepitosa regia di Patroni Griffi (ed è in questo successo e questa allegria che portava nelle sue compagnie che voglio ricordarlo. E sentite cosa sono gli applausi, altro che Scala!);  



straziante il suo Eddy dello Sguardo dal Ponte;

con Marina Biondi







grande il suo Edipo, splendido il suo Enrico IV... fino alla esplosione di simpatia di un personaggio da lui molto distante ma che creò con sapienza e gioia: il Gervasio Savastano del "Non è vero... ma ci credo" di Peppino De Filippo. 

con Alfonso Liguori (sic)






Non voglio stare qui, però, a fare una cronaca della sua vita. Voglio invece dire una cosa a tutti coloro che lo hanno ostacolato sempre. 
Gliene hanno dette di tutti i colori, che era raccomandato, che usava i soldi di famiglia, che aveva strani intrallazzi... e, ovvio siccome era siciliano, che aveva a che fare con la criminalità organizzata. Una volta fu portato anche sotto inchiesta con accuse simili, ma mi spiace per i suoi detrattori, ne uscì pulitissimo, perfettamente pulito, perché Sebastiano Lo Monaco - e ve lo voglio scrivere in maiuscolo - ERA UNA PERSONA PER BENE! Lui era una persona perbene, altri non so! 

Cosa ha mosso i suoi detrattori? L'invidia, certamente l'invidia. E l'incapacità di comprendere che nasce da una ignoranza teatrale profonda.
Come faceva, secondo loro, questo ragazzone arrivato dalla provincia di Siracusa a essersi costruito una propria Compagnia, ad avere una carriera, a riempire i teatri? Non era possibile. 
Bene: innanzi tutto, Sebastiano veniva dall'Accademia (che ce n'è sempre una sola, la Silvio D'Amico, ci spiace per gli altri), poi aveva fatto i suoi anni di gavetta, in grandi Compagnie, come per esempio allo Stabile di Torino, ma soprattutto, Lo Monaco, nel momento in cui mise su la sua SiciliaTeatro, lavorava dalla mattina alla notte, telefonando, mantenendo rapporti, sorbendosi pranzi e cene che spesso nemmeno gli andavano, facendo viaggi assurdi per incontrare un assessore o un direttore di teatro che doveva convincere a prendere lo spettacolo; faceva insomma quello che fanno coloro che seriamenta fanno il suo stesso lavoro di vecchio e sano e faticoso capocomicato, penso per esempio a Geppy Gleijeses.
E poi rischiando, mettendo i capitali di tasca propria, a volte quelli che non c'erano facendo andare ai matti gli amministratori e il suo bravissimo fratello Santi, che non a caso è un giovanotto venuto fuori dalla Bocconi quando la Bocconi era la Bocconi e non una fucina di neoliberisti creati con lo stampino;  cercando sponsor e coproduzioni, inventando soluzioni per la scena, trattando se necessitava le paghe lui stesso... e non stando ad aspettare la sovvenzione statale o, peggio, l'appoggio del partito politico per una circuitazione facile facile. No, la circuitazione Sebastiano se la sudava, la sua agenda pareva quella famosa di Gianni Minà, girava con mazzette di foglietti pieni di appunti e cose da fare. Insomma, il bistrattato Seba si faceva un culo che altri si sognano! Combattendo quotidianamente con la burocrazia e l'ostracismo di una certa politica di sinistra che si crede superiore a tutto, anche a se stessa ormai. 
Ecco come faceva. E in tutto questo riusciva pure ad arrivare a teatro la sera raccontando che era andato a vedere la bella mostra allestita nella città che ci ospitava, perché mi spiace sempre per i detrattori, ma quel giovanottone di Floridia era pure colto, mannaggia a lui! 

Ma la cosa che più infastidiva i suoi detrattori è stato il non capirne la recitazione, e questo per ignoranza. Sebastiano aveva mezzi tecnici enormi e quando era supportato da un grande regista riusciva a dare prove semplicemente eccezionali. 
Seba era nato a Floridia, provincia di Siracusa, attaccata a Siracusa, quasi una frazione, e come è ovvio il primo teatro che ha visto è stato quello greco, quello delle grandi tragedie classiche, quando gli attori andavano ancora senza microfono e ci volevano polmoni, dizione e grande declamazione. Nel suo essere "tanto", grande, spesso anche esagerato c'era questa radice, la radice della grande tragedia portata al pubblico con tutta la immensa teatralità degli antichi. Sebastiano era un attore ottocentesco, di quelli plastici nel gesto, avvolgenti nel respiro, netti nella dizione, un grande attore di un'epoca antica; guardandolo si riconoscevano in lui i segni di un Talli, un Ernesto Rossi, un Tommaso Salvini, un giovane Ermete Zacconi ancora vivi sulla scena, e tutto questo la modernità sciatta del minimalismo radical chic, delle interiorizzazioni millantate, della semplicità come scusa a coprire le proprie incapacità, non poteva tollerarlo, non poteva tollerale il contraltare veracemente teatrale di quella forza fisica, la potenza, la sfrontatezza con cui Lo Monaco si dava in pasto alla cavea del Teatro Greco siracusano ricolmo in pieno giorno di mille colori di magliette e cappellini al sole. 
Sebastiano aveva una cosa che nessuno di noi ha più, una cosa insegnatami da un altro grande, Mariano Rigillo, aveva il PNEUMA TRAGICO: il grande respiro della possente declamazione antica della tragedia. Seba ci ha lasciato, a voi restano i microfoni. 

Sebastiano se n'è andato il 16 dicembre. Se lo è portato via un brutto male. Io voglio pensare che abbia in qualche modo mollato, stanco di questa immensa battaglia con un mondo che non poteva capirlo perché non ne aveva gli strumenti, e perché quel mondo non ama mai i suoi figli migliori, orgogliosi e autonomi, ma solo quelli che si prostituiscono. 
Era stanco. Eravamo stanchi. Ce lo siamo confidati un giorno in macchina, girando per la sua Sicilia, soli, io e lui, che, ciascuno per i propri ruoli raggiunti, lui come Primattore-capocomico, io come attore da secondi o terzi ruoli, non potevamo pensare di ricominciare ogni volta da capo come se tutto quanto fatto non contasse nulla. Era stanco. Ora riposa, e può dormire, lui sì, il sonno dei giusti. Di sicuro è in quel Paradiso che in età avanzata aveva scoperto con amore e devozione, in compagnia del Rosario che si portava sempre in tasca, e nella serenità che sapeva di andare ad abbracciare. 

C'è un episodio, un episodio che racconta il mondo duro, perfido, ma onesto, profondamente onesto del Teatro che fu e che sempre più ci manca e ci lascia soli. 
Quando Lo Monaco era allievo in Accademia, arrivò a insegnare Mario Ferrero (1979). Mario era talvolta intransigente fino alla insopportabilità. Sebastiano, da giovane appassionato del mestiere di attore, si comportava in un modo che il Maestro non gradiva: la sera faceva tardi a teatro, seguiva le compagnie a cena fino a notte fonda, e il risultato era che la mattina non si presentava a lezione. 
La rottura fu forte, tanto che Ferrero pose alla direzione dell'Accademia un aut-aut: o lo rimettevano in riga o Mario se ne andava. La questione fu ricomposta, ma i due non si amarono mai particolarmente. 
Ebbene, facevamo "Uno sguardo dal ponte" di A. Miller (2001), regia Giuseppe Patroni Griffi, al Teatro Eliseo. Ferrero, che è stato anche mio Maestro, venne a vederci. A fine spettacolo lo percepì come pensieroso; lo accompagnai in auto a casa e a un certo punto mi disse: "Ho visto Stoppa, tanti anni fa, la regia di Visconti, lo sai. Beh, Sebastiano è più bravo di Stoppa. Stoppa era bravissimo, ma antipatico, Sebastiano è umano, riesce a fare, in questo personaggio tremendo, tenerezza, una grande tenerezza, che ti viene voglia di abbracciarlo, non ostante Eddy Carbone sia uno schifoso, ma ne senti l'umanità. In Stoppa questo non c'era. Sarà anche merito di Peppino che lo ha guidato, ma lui ci è riuscito. Bravo, proprio bravo".

Credo non ci sia altro da aggiungere. 
Sempre nel cuore, Seba, sempre nel cuore. A Dio. 


La Compagnia di "Uno sguardo dal Ponte" al termine di una prova al Vittorio Emanuele di Messina
di spalle Aldo Terlizzi, Giuseppe Patroni Griffi, poi Sebastiano Lo Monaco

 

venerdì 24 novembre 2023

IL CONTROLLO, UNA NECESSITA' ESPRESSIVA (post tecnico ma non troppo - e buon #goofy12 a tutti)

Questo è quello che il nostro amico e mentore Alberto Bagnai definirebbe un “post tecnico”. Non penso sia particolarmente complicato e tutti potranno seguirlo. 
Domani, nella ormai favolosa Montesilvano, comincia il dodicesimo convegno - che non c'è - dell’ Associazione - che non c'è - a/simmetrie, dal titolo “Euro, Mercati,Democrazia 2023 / Non è come sembra”, meglio noto alla community che non c'è come #goofy12.
Ancora una volta non avrò la possibilità di esserci (poiché mia condizione naturale è il non essere). In bocca al lupo a tutti i partecipanti che non ci saranno, vi seguiremo in streaming come sempre, e intanto, tra l’addormentarvi di stanotte e il caffè di domattina, potrete forse riflettere sulle poche note politiche che non ci sono in questo post, perché in teatro c’è sempre qualcosa di politico che volenti o nolenti attraversa la scena. Così è (anche se non ci pare)



 







Nessuno deve considerare il controllo come una gabbia, una costrizione, una ingessatura. Il controllo è una necessità espressiva di cui l’attore non può fare a meno. 
Eugenio Barba creò nel suo centro di studi teatrale, l’Odin teatret, a Holstebro, in Danimarca un semplicissimo esercizio: mettetevi in piedi, normalmente, in una posizione per voi comoda, gambe leggermente divaricate, braccia lungo il corpo, inspirate profondamente due o tre volte, quindi chiudete gli occhi; a questo punto cercate la più totale immobilità, concentratevi sullo “stare fermi”, ma durante l’esercizio osservate il comportamento del corpo, tutto ciò ch’esso fa, dalla testa alla punta dei piedi; tenete questa semplice posizione eretta ad occhi chiusi, per cinque o anche più minuti; alla fine ciascun partecipante riferisca quanto ha osservato durante l’esercizio
Ebbene, Barba ci dice che tutti coloro che eseguono l’esercizio raccontano di micromovimenti che il corpo fa per tenere la posizione, per compensare, per riequilibrare, per sostenere ora in un punto, ora in un altro. Faccio eseguire sempre ai miei allievi questo esercizio e i risultati sono esattamente e sempre gli stessi: micromovimenti!

Se ne deduce che la stabilità non è naturale, ma che la condizione naturale del corpo è nella instabilità, nel movimento, nella tensione verso il movimento che di volta in volta il corpo stesso tende a compensare. Se dunque vogliamo la stabilità dobbiamo cercarla e “imporla” al corpo. 

Parentesi: dovremmo forse far provare questo esercizio a tutti quei politici che si lamentano per la instabilità dei governi nel nostro Paese, e che ossessivamente invocano la stabilità; la stabilità può essere temporaneamente tenuta, ma, nessuno si illuda, non per legge, solo per volontà. La stabilità dipende dagli uomini, non dalle leggi.

Facciamo un passo avanti. Quante volte vi siete sentiti chiedere: “A che stai pensando?”, e quante volte avete risposto: “A niente”? Eppure tutti noi sappiamo che non è vero, che qualcosa sta sempre attraversando la nostra mente. Sappiamo anche che per pensare a una determinata cosa dobbiamo volerlo e che comunque quel pensiero voluto può sfuggirci in qualsiasi momento. Se dunque, anche in questo caso, vogliamo un pensiero stabile dobbiamo “imporlo” alla nostra mente
Terzo e ultimo passaggio. Non ce ne accorgiamo perché siamo la nostra voce, siamo nella nostra stessa voce, siamo naturalmente nella sua espressività, ma per comunicare un determinato concetto noi “miriamo” la voce come una freccia mira al centro del bersaglio; pur non accorgendocene, potremmo dire pur non sapendolo, noi decidiamo come usarla, se vogliamo mostrare rabbia, o dolcezza, o allegria, o sarcasmo, o se abbiamo bisogno di aiuto. Se non lo facessimo la nostra voce “scapperebbe”, se andrebbe per i fatti suoi sganciata dai nostri bisogni espressivi. È un po’ la differenza, per fare un esempio facile, che intercorre tra cantare in modo intonato e stonare: chi intona vuole emettere determinati suoi, chi stona non riesce a controllare la propria emissione. Allora, anche in questo caso se vogliamo la stabilità della espressione vocale dobbiamo cercarla e “imporla” alla nostra voce.

Corpo, pensiero, voce sono i tre elementi che integrandosi, e sostenendosi vicendevolmente, che consustanziando ci consentono di esprimerci nella recitazione, e che, come abbiamo rapidamente osservato, necessitano tutti di una nostra decisa guida. Perché il fatto che ci consentano l’espressione non basta, è necessario che l’espressione sia corretta.
Ma cosa intendiamo per corretta? Sinteticamente, intendiamo: far sì che al pubblico arrivi, con la maggiore precisione che ci è possibile, quello che abbiamo dedotto dal testo, o che un regista ci sta chiedendo di far arrivare. In altre parole, noi decidiamo che quella tale battuta significa una certa cosa, e se vogliamo che quel che abbiamo deciso sia còlto dallo spettatore dobbiamo indirizzare l’espressione artistica, e dunque “pilotare” il pensiero, il corpo, la voce perché dicano esattamente quello che noi vogliamo dire.

Se a questo punto tutto il ragionamento è chiaro, sarà facile comprendere che il concetto di controllo non è per niente una gabbia, una corazza che mettiamo sulla nostra espressività, ma il veicolo attraverso la quale questa raggiunge i suoi migliori risultati. Come possiamo, però, attuare questo controllo? Sicuramente attraverso la concentrazione, nel senso più etimologico del termine, vale a dire “spingere nel centro o raccogliere nel centro; profondarsi, internarsi in chicchessia” dice lo storico Dizionario Etimologico della Lingua italiana di Ottorino Pianigiani, e per ottenere questo deve entrare in gioco la volontà. Per cui, vorrò escludere dalla mia mente tutti i pensieri che non siano quello stabilito, vorrò che la mia voce emetta un preciso suono, vorrò che il mio corpo compia un esatto movimento (o non lo compia, che è concettualmente lo stesso).

La commistione di concentrazione e volontà fa in entrare in campo un altro fondamentale elemento, del quale ci occuperemo in un prossimo post: l’energia.   


martedì 17 ottobre 2023

"E VONNO FA' ER TEATRO!", COME IL TEATRO ACCREBBE IN NOI L'AMORE

Arrivano, e mi dicono che vogliono fare gli attori. Bene, mi fa immensamente piacere. Così, cominciamo a lavorare.
Nel corso dei giorni mi capita di far riferimento ad autori, a registi, ad attori del passato o del presente, di teatro, cinema, talvolta anche di televisione, è una cosa normale, sarebbe come parlare di Leopardi senza far mai riferimento a Dante o a Petrarca, o di Picasso senza mai nominare Raffaello o Manet. 
Praticamente è impossibile: non puoi pensare di apprendere nulla senza avere come riferimento chi ti ha preceduto in quello stesso campo e spesso anche in altriAnzi, personalmente ho sempre sostenuto e continuo a sostenere, che per capire davvero la propria arte è bene guardare alle altri arti, alla danza, al canto, alla letteratura, ecc. Perché se vuoi essere attore e guardi esclusivamente alla recitazione, rischi di far la fine di colui che vuole osservare il dipinto tenendo il viso a due centimetri dalla tela; se invece guardi alle altre arti hai un effetto distanziamento che può aiutarti ad avere una visione complessiva. 
Conosco l'obiezione a questo punto: "Dunque, i giovani fan bene a non seguire il teatro, o gli attori". Assolutamente no, non fanno bene: osservare il dipinto nella sua totalità è decisamente utile, ma se vuoi capire come è dipinto devi avvicinare lo sguardo, e anche parecchio, talvolta usare anche una lente di ingrandimento. 
Perché il "come è fatto" è importantissimo, anzi è fondamentale!
Per chi soprattutto vuole intraprendere questo percorso artistico, abbracciare questa professione, farne il proprio lavoro, non conta tanto quel che le opere dicono, ma il come sono eseguite, interpretate, ri-create, messe in scena, recitate. Poiché la recitazione è un atto del come! 
Capisco possa sembrare una bestemmia, ma il "cosa" praticamente non conta. 
Per spiegarlo faccio sempre un esempio (già riportato anche su questo blog):

chiedo agli allievi
- Quante "Madonna con bambino" avete visto in vita vostra?
- Beh, tante...
- E perché alcune si ritengono migliori di altre, più belle, più emozionanti, interessanti o quel che vi pare? Eppure sono sempre il dipinto di una donna con un bimbo in braccio. Cosa fa la differenza se il contenuto è sempre lo stesso? 












Il testo di Amleto è sempre Amleto, "Sei personaggi" sempre "Sei personaggi" o, se preferite, la storia di un amore contrastato è sempre la storia di un amore contrastato, che sia in "Romeo e Giulietta", ne "La locandiera" o in "Fedra"!
Cos'è dunque che fa la differenza, tra la messa in scena di "Amleto" di Vittorio Gassman e quella di Gabriele Lavia? Certo non quel che il testo "Amleto" racconta, ma come io "racconto" quel testo, dove per "racconto" si deve intendere: come lo eseguo, come lo metto in scena, e soprattutto come ogni singolo attore recita il proprio ruolo.
I piani del "come" divengono, come potete immaginare, tantissimi, non complichiamoci per ora la vita e fermiamoci qui; consideriamo però, da attori o aspiranti tali, un singolo, ma determinante elemento:
la consapevolezza dell'importanza di quel "come" ti farà automaticamente salire di livello, da semplice interprete a creatore, ed è dunque proprio quel "come" a fare di te indiscutibilmente un artista.
Se poi piaci o no, se le tue creazioni piacciono o no, è un altro discorso. 

E torniamo adesso al nostro ragionamento di partenza: come puoi decidere, stabilire, identificare il tuo modo di raccontare se non hai un'idea, anche non approfondita, di come quella stessa storia è stata raccontata prima? Sarebbe nata "Guernica" così come Picasso l'ha dipinta se non ci fosse stata prima... la "Battaglia di San Romano" di Paolo Uccello? E attento, anche se la storia che racconti ti pare nuova, stai pur certo che in un qualche modo che non ravvisi è stata di sicuro già raccontata prima. Prendi ad esempio il mito di Eros e Psiche: Cenerentola, La locandiera, Aminta, fino a La ragazza di Bube, sono tutte riscritture di quel mito. 
Dunque, il rapporto col passato, che qualcuno vorrebbe cancellare o riscrivere a proprio uso e consumo, è fondamentale per costruire il presente nonché il futuro. Siamo oggi quel che siamo perché veniamo da un certo passato, ignorarlo non offre possibilità di nuova creazione, ma limita il futuro della propria creazione, il più delle volte nell'illusione di aver "inventato" qualcosa di nuovo, ma in Arte, spiace dirlo, nulla si inventa.

Nulla si inventa, se non un come, un come che di per sé non è nemmeno pura invenzione, ma tale ci appare perché è il nostro come. Nulla si inventa poiché ciascuno di noi è il frutto di tutto ciò che ha visto e sentito, ecco perché nemmeno quel come è puro. Ha un solo punto di forza: è tuo, poiché frutto della elaborazione, conscia e inconscia, di ogni informazione che ti ha attraversato nella vita. Non è poco, anzi; solo che a questo punto devi chiederti come potrai costruire una tua espressione attoriale se non hai rapporto con l'arte della recitazione che ti ha preceduto? Da dove attingerai quegli elementi grammaticali consolidatisi nel tempo, e che non solo gli attori conoscono, ma il pubblico riconosce? Come capirai senso e tempo di una pausa se, molto semplicemente, non hai mai visto eseguirne una? 
La recitazione, come ogni altra arte, ha una sua grammatica, una sua serie di codici espressivi che, seppure non scritti, gli attori si tramandano da generazioni e la maggior parte delle volte se li tramandano semplicemente "eseguendoli", guardare gli attori semplifica l'apprendimento; oltre tutto non è disprezzabile la pratica, al principio, di imitare un attore che ti piace, facilita le cose, è come trovare delle orme sulla sabbia e imparare a camminare rimettendo i piedi in quelle orme, una volta acquisita "la pratica del camminare" andrai spedito per i fatti tuoi, accade dalla notte dei tempi e nessuno ci ha mai trovato niente di strano: Giotto avrà iniziato copiando Cimabue, Puccini imitando Verdi, Pirandello scrivendo poesie alla Leopardi... 

In conclusione, spero di averti dato delle buone ragioni perché tu possa comprendere che se vuoi fare questo lavoro, se vuoi abbracciare questa professione devi, e ribadisco devi, conoscere chi c'è stato prima di te. 
Quando eravamo giovani noi, correvamo a teatro o al cinema dove e come potevamo (soprattutto noi delle piccole città di provincia), ci facevamo raccontare dai più grandi, leggevamo vecchie cronache. 
Oggi un ragazzo ha a disposizione uno strumento straordinario: internet, con tutti i suoi canali dove sono diffuse e conservate le grande interpretazioni del passato, le vecchie messe in scena, le commedie che ai giorni nostri sono fuori repertorio. E tutto questo ce l'hai sul tuo fott..o telefonino, a portata di due click. Eppure non guardi, non cerchi, non vai a vedere... 
E allora mi chiedo: sicuro che la tua sia passione per questa arte? Sicuro che il tuo non sia solo un bisogno di attenzione, di apparire, di salire su un palco e essere visto, riconosciuto come esistente? Perché per far questo hai altri mille modi, non è proprio necessario tu faccia l'attore, che è una professione faticosa, difficile, amara. 
Essere attori è un dono, divenirlo una fatica. Forse è proprio questo: oggi la tecnologia non vi pone più nella condizione di fare fatica. 
Il problema è che la passione è fatica, l'amore è lavoro e fatica, il raggiungimento del piacere è fatica (come dovrebbe sapere chiunque abbia una esperienza sessuale). Abbiamo tolto a queste giovani generazioni il piacere di fare fatica, lo abbiamo fatto noi, ora possiamo solo dirglielo e stimolarli, ma sono loro a dover credere di poterlo fare e a volerlo fare. 
Era divertente, esaltante, emozionante organizzarsi, noi diciottenni, in quattro, cinque dalla piccola Salerno, prendere di domenica mattina un treno (un Espresso, mica un'Alta Velocità!), arrivare a Roma, mangiare quella cosa che ci pareva esotica come un tramezzino conservato sotto un leggero panno di cotone, poi andare al Teatro Argentina per vedere "La grande magia" di Eduardo, con la regia di Strehler, e ancora oggi ricordare, il passo dinoccolato e affascinante di De Carmine, la nettezza di Franco Parenti, le misteriose luci del maestro, un teatro affascinante d'oro e passato, e poi uscire e riprendere un treno per tornare a raccontare la tua avventura nella piccola città.
E c'era chi lo faceva con un concerto rock, chi per un museo, chi per un'opera lirica... 
Forse era quella fatica, quella impossibilità apparente di raggiungere le cose che accresceva la nostra forza, il nostro desiderio, il nostro amore. 

domenica 15 ottobre 2023

Ibsen, Casa di bambola: NORVEGIA LIBERA!

L'importanza di Henrik Ibsen nella storia della drammaturgia mondiale è nota ai più. Certamente l'autore norvegese ha avuto il merito di dare regola a una tendenza che si stava già esplicitando in altri autori e altre nazioni, quella alla cosidetta "quarta parete", quella modalità di scrittura, recitativa e di messa in scena secondo la quale l'attore-personaggio considera "non esistente" il pubblico, e lo spettatore è come uno che metta l'occhio al buco di una ideale serratura attraverso cui spia i personaggi e la loro storia. 
Per capirci, nelle commedi di Goldoni, per esempio, quando un personaggio ha un cosiddetto a parte, cioè si esprime in solitaria, magari in una riflessione che è di commento all'azioneparla con il pubblico, lasciandoci intendere che l'interprete/personaggio ha piena coscienza della esistenza dello stesso. Dalla seconda metà dell'800 in poi, dalle teorie del Naturalismo in poi per intenderci, diviene impensabile il solo credere che il personaggio di una azione del 1400 possa sapere che non solo è su di un palcoscenico, ma che in sala ci siano spettatori del 1800. Ecco che si fa avanti l'idea, in fondo semplice, che tra platea e palcoscenico sia come elevata una ideale quarta parete che isoli l'azione. 
Bene, dopo questo spiegone - consideri il lettore addetto ai lavori che parliamo anche ai non addetti, grazie! - torniamo al nostro Ibsen. 
Dirvi che amo questo autore... beh, non particolarmente. Riconoscere grandezza e importanza di un artista non vuol dire per forza amarlo. Henrik Ibsen è per me un importante autore di teatro, a tratti straordinario, ma diciamo che non lo preferisco particolarmente. 
Ultimamente, selezionando scene per fare esercitare i miei allievi, ho dovuto, per ragioni anche storiografiche, scegliere l'ultima scena di una commedia che francamente trovo noiosissima: Casa di bambola, ultima scena che teatralmente è scritta magnificamente e che si presta per fare esercitare giovani menti, alla ricerca della logica, alla sottigliezza del dialogo, alla pregnanza e presenza di uno scontro più psicologico che non di azione. Non è certo la sola scena che offre elementi di esercizio del genere, ma tracciando un percorso storico, perché escludere il grande norvegese. 

Una amica, Francesca Fancini, laureata in Lingue con prima lingua il danese, mi raccontò che quando Danimarca e Norvegia si separarono - erano un unico regno - i norvegesi, per crearsi una loro lingua fecero una semplice operazione: presero a pronunciare le parole così come erano scritte, lettera per lettera, distinguendo in tal modo il danese dal neonato norvegese. 
Posso facilmente immaginare che Ibsen, come primo grande autore di quella nazione, sia particolarmente venerato anche come un codificatore della lingua, come Dante lo è per noi o Shakespeare per gli inglesi. 
La storia della Norvegia dell'800 fino alla sua piena indipendenza nel 1905 è un po' più complessa di un divorzio consensuale, e con una rapida ricerca in internet, come io ho fatto, scoprirete aspetti molto interessanti su questa nazione passata dai danesi a una sorta di indipendenza, poi sotto gli svedesi, fino al raggiungimento pieno dell'obiettivo. 

Ora: Casa di bambola fu una commedia che suscitò un grandissimo scandalo. Questa storia di una moglie che rifiuta il suo ruolo nel matrimonio, sia come consorte che come madre, e lascia tutto per una indipendenza senza certezze, per questo salto nel vuoto, sconvolgeva la morale del tempo al punto che al debutto in Germania Ibsen dovette modificare il finale poiché l'attrice si rifiutò di rappresentare questa madre degenere. 
Ebbene, ascoltando le parole di Ibsen dalla viva voce degli allievi, sono stato attraversato da un pensiero: siamo proprio certi che dietro la storia di Nora, scritta ad Amalfi, durante un viaggio di Ibsen in Italia nel 1879, all'Hotel Luna (c'è ancora la targa fuori a ricordo), 


ci sia solo la ribellione della donna che cerca la propria piena realizzazione il femminismo ante litteram, il sovvertimento dell'ordine morale costituito? 

Le ultime parole di Nora mi paiono di una strepitosa chiarezza, c'è in esse un anelito a una libertà che non si fa alcun problema per quel che sarà, sono le parole di chi preferisce tutto, anche la miseria, alla subordinazione, alla dipendenza, alla servitù. 

NORA (...) Sta bene, Torvald. I bambini non li voglio vedere. So che sono in migliori mani che nelle mie. Come sono ora io non valgo nulla per loro.
HELM. Ma più tardi, Nora, in seguito....
NORA. Posso forse saperlo? Non so mica cosa sarà di me!
HELM. Ma tu sei mia moglie, non soltanto ora ma anche....
NORA. Senti, Torvaldo. Quando una donna lascia la casa di suo marito come faccio io stanotte, allora, egli resta, secondo quanto ne so io della legge, liberato e dispensato da ogni obbligo verso di lei. Comunque sia però, io ti libero da ogni vincolo. Tu non devi sentirti menomamente incatenato, come non intendo d'esser legata io. Deve regnare la più ampia libertà da ambo le parti. (...)

Ho selezionato un solo passaggio esemplificativo, ma ascoltando tutta la scena (e questa edizione è straordinaria, con attori magnifici come Giulia Lazzarini e Renato De Carmine) ogni cosa pare uscire dalla nebbia: sotto sotto non è impensabile che il discorso di Ibsen sia volto all'anelito di libertà della sua nazione, della Norvegia. E non credo sia casuale che l'ispirazione giunga allo scrittore proprio in quel viaggio in una Italia che ha raggiunto la propria unità da poco tempo, quasi che il respirare questo senso di aria nuova spinga a cercarne altra e più pura per se stessi. 

Quanto questo aspetto sia rappresentabile non so, anzi, credo proprio che non lo sia, ma se c'è una verità in questo mio pensiero, prenderne consapevolezza aiuta sempre chi deve recitare il testo. 
Perché "un fatto è come un sacco, vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato", è la antica legge del teatro, della recitazione, che Pirandello ha così magnificamente sintetizzato: non tutto possiamo far capire al pubblico, come Lorenzo Salveti ci insegnava alla "Silvio D'Amico", ma il sapere è percepito dallo spettatore, un sacco pieno desterà sempre più interesse di un sacco vuoto. 

lunedì 9 ottobre 2023

LA TRISTEZZA DI "FARE SESSO"!

Non se ne può più dell'espressione "fare sesso", fa il paio con "faccio teatro". E' una espressione asettica, clinica, deprimente, al limite del volgare. Ai miei tempi di diceva "fare l'amore", oppure si usavano una serie di locuzioni o di forme dialettali. 

Cos'è "fare sesso"? Il nulla. La rappresentazione di una azione senza piacere, di un relazione senza godimento. 

Gli amatoriali dicono "faccio teatro", che non vuol dire nulla. Fai teatro come fai ginnastica, fai la spesa, fai le pulizie di casa. O si è attori o non lo si è, non esiste il fare teatro, se non per un dilettante. E così è "fare sesso", perché non sei in quella cosa, la fai, e il farla non contempla la tua totale presenza. Fai l'amore, se sei capace, fallo anche per una sola notte, o per una sola ora, anche con una sconosciuta/sconosciuto, senza limiti e senza inibizioni. 

Si fa l'amore perché si cerca l'amore nell'atto stesso della suo farsi, e facendolo quasi sempre lo si trova. 

Chi fa sesso trova solo una forma di masturbazione più complicata perché deve pure contemplare "il godimento della mano".

domenica 1 ottobre 2023

MINISTERO DELLA CULTURA, UN ANNO DI SANGIULIANO. VOTO INSUFFICIENTE!

Mi disse un vecchio dirigente RAI: “Se vogliono dei buoni politici, devono venirseli a prendere qui dentro, soprattutto tra i giornalisti”. 
Ero solo un giovane attore, non ancora avvezzo ai linguaggi del mondo, e non capii bene cosa intendesse. Ma come tutte le frasi strane, sibilline, che lì per lì non capisci, ti restano nella mente. 
Stava per esplodere Mani Pulite, c’erano stati i primi arresti, e in ogni dove era normale parlare o accennare alle miserie e agli splendori della politica. 
Dopo un anno di Governo Meloni ancora non ho capito come sia venuto fuori per il dicastero della Cultura il nome di Gennaro Sangiuliano, ma una cosa è certa: mentre vedevo il neo Ministro avvicinarsi al tavolo del giuramento, la frase di quel dirigente mi è balzata subito in testa. 

Dodici mesi sono un tempo ragionevole per fare un primo bilancio. Voto 5, quel cinque che, come si dice nei consigli di classe, può sempre arrivare a 6 se il ragazzo si impegnerà un po’ di più. 
Non ho notizie di interventi per il mondo del Teatro di Prosa né per quello della Lirica, niente si sa per il martoriato mondo degli archeologi, poche notizie sul Cinema, e qualche intervento c'è stato sui Musei. 
Per il resto, tante polemiche, ma va anche detto che il mondo della intellighenzia italica, composto quasi totalmente da “intellighenti de sinistra”, quando governa il centrodestra apre una polemica per qualsiasi cosa, e nella maggior parte dei casi sono inutili polemiche, mentre nessuno bada alla sostanza. 
Ma tornando al nostro: si è applaudito alla iniziativa dell’Alta Velocità che ferma a Pompei. Con franchezza, non mi è parsa una cosa molto azzeccata pensando a turisti che da Roma prendono un treno, scendono, visitano e vanno via. Facile immaginare che l’indotto della cittadina campana non ne avrà piacevoli ritorni, gli alberghi, per esempio, o le trattorie. Decisamente non apprezzabile invece, come le varie associazioni di categoria hanno già segnalato, la norma che stabilisce in 60 le giornate lavorative perché i lavoratori dello Spettacolo possano accedere ai sostegni al reddito: chi fa il nostro lavoro sa bene che mettere insieme quel numero di giornate in un anno è ormai divenuto difficilissimo per la maggior parte dei lavoratori; la norma dunque è impopolare ed alimenta la inimicizia della categoria: è convenuto? Il Ministro è stato ben consigliato? 
Interessante l’opera, invece, di “raddoppio” di alcuni importanti musei italiani, Brera, Uffizi, Archeologico di Napoli… aprendo altri spazi dove potranno essere viste opere che per ora sono nei sotterranei, e questo, negli intenti del Ministro porterà sicuramente un beneficio alle casse delle nostre pinacoteche, sicuri, però, che sia tutto, ma proprio tutto giusto?

Certo, è passato solo un anno di cinque e come detto il ragazzo potrà puntare alla sufficienza. Cos'è che in realtà non va? Proprio quell’atteggiamento politico-rai che tende a voler "tenere buoni rapporti con tutti", a non inimicarsi nessuno, e alla fin fine a non prendere mai una chiara decisione. Qualcuno lo definirebbe un atteggiamento democristiano. Io, da vecchio e mai pentito sostenitore dello scudo crociato, trovo che sia invece semplicemente un atteggiamento che non porterà da nessuna parte, che non farà il bene della Cultura italiana e che farà sì che il Ministro Gennaro Sangiuliano non lascerà di sé alcun particolare ricordo. 
Resta infatti un mistero come un ministro di un governo indiscutibilmente politico si sia tenuti intorno tutti i direttori, dirigenti e quant’altro che sono il prodotto dei lunghi anni di gestione Franceschini. È ipotizzabile, eccellenza, che la scelta, ad esempio, delle 60 giornate lavorative per attori e tecnici, sia stata fatta da chi, conoscendo l’ambiente, sa che in quel modo avrebbe scontentato tutti? Nulla è invece stato fatto per verificare se il Codice dello Spettacolo, legge del 2017 dell’ex Min. Franceschini, fosse in qualche modo da modificare. Né si è pensato di mettere mano alla organizzazione dei teatri italiani, in particolare di quelli pubblici che, tranne Catania, son tutti gestiti da uomini di riferimento della sinistra. Anche in questo caso vogliamo non inimicarci nessuno?
Le nomine, poi, di alcuni consulenti… diciamo che francamente hanno lasciato il tempo che han trovato: saranno anche personagg* alla ribalta, ma non sempre “l’ambiente” li considera il meglio nel loro lavoro. Sembrano più nomine di facciata, quasi pubblicitarie, che non la reale ricerca di un esperto consulente e consigliere. 

Ma la vera nota dolente, caro Ministro, è l’approccio al mondo della Cultura che pare non esser diverso da quello di Franceschini. 
Per anni la sinistra italiana ha eretto barricate perché la Cultura non aveva un suo ministero così come accadeva in Francia, poiché era scandaloso che la Cultura fosse mescolata col vil Turismo, era il segno della insipienza culturale del mondo democristiano. Il vecchio Turismo e Spettacolo fu così spacchettato alla prima occasione utile (Governo Ciampi 1994). 
Come fu e come non fu, nel 2013, proprio un governo di sinistra, governo Letta, rimise insieme i pezzi, e dopo l’esperienza del Min. Bray, Franceschini è stato il dominus del dicastero per un interminabile periodo durante il quale ha marcato i settori in un modo che parrebbe non modificabile. In particolare – lo si legge tra le righe del Codice dello Spettacolo – il ri-accorpamento dei dicasteri Cultura e Turismo (oggi nuovamente divisi, lo sappiamo) contiene una visione della Cultura, in particolare degli eventi spettacolo, non come produttori di lavoro e di formazione del cittadino, civiltà, di sapienza, di crescita collettiva, ma come situazioni atte ad attirare turisti! Una Cultura, dunque, non intesa come valore in sé, ma come banalissimo volano economico. 
Cosa questo ha comportato l’ho scritto altre volte e non lo ripeterò ora

Ebbene, la visione di Sangiuliano pare ad oggi essere la stessa di Franceschini. Comprensibile che il turista contribuisca con un minimo obolo al mantenimento delle nostre opere d’arte, ma pensare tutto il nostro patrimonio artistico come fonte di guadagno, pensare ancora alla nostra cultura come “il nostro petrolio” (una delle stupide frasi che hanno rovinato l'economia del Paese: "Turismo e Cultura sono il nostro petrolio", ma i Paesi che vivono di turismo sono Paesi servi, senza futuro e dipendenti in toto dall'estero!), pensare alla nostra cultura come il nostro petrolio, dicevo, ha già prodotto nel settore i suoi disastri. E soprattutto, a mio immodesto parere!, l’errore è concettuale, culturale: caro Ministro, permetta, noi non conserviamo i nostri beni per fare soldi, noi conserviamo i nostri beni perché sono la nostra Storia, la nostra memoria, perché sono la concretizzazione di ciò che siamo, se questa opera di conservazione, conoscenza, diffusione sarà fatta bene, il guadagno sarà una logica, facile e nobile conseguenza. Se ci ricorderemo sempre di chi siamo, arriveranno anche i danari, altrimenti i danari arriveranno e passeranno con il respiro di una moda. Quel che io credo è che non si viene in Italia per visitare il Colosseo, ma per conoscere una Nazione che conserva il Colosseo come un impagabile gioiello che è parte indiscutibile della sua stessa natura. 

Non serve, caro Ministro, cambiare un nome con un altro per segnare il cambio di passo, vanno modificate le logiche, va ricercata una nuova filosofia, che spesso per essere attuata ha bisogno di scelte nette e magari impopolari, sia pure impopolari solo all’interno del suo Ministero. 
Ella, Eccellenza, quanto è disposto a intraprendere un reale via di cambiamento?   



giovedì 21 settembre 2023

LA DRAMMATURGIA AMERICANA, UN'ANALISI

Si faceva Teatro in America, o meglio negli Stati Uniti, quando cominciarono a vivere le prime grandi città, come Boston, o Filadelfia, o New York? Certamente sì. Un'abitudine andata avanti nei secoli che a un certo punto ha avuto dei suoi autori, autori famosi che tutti conosciamo: da Eugene O’ Neill, fino a Tennessee Williams e poi Arthur Miller, e Albee, Mamet, Eliot, Kaufman, Belasco, Shepard, Allen e tantissimi altri. 
Un teatro, quello americano, che si sviluppa principalmente tra fine ‘800 e primi ‘900, e che cerca una sua strada appoggiandosi fondamentalmente alla nuova scienza: la psicoanalisi. Perché? Beh, forse semplicemente perché essendo quelle le commedie del nuovo mondo, si appoggiano, quasi naturalmente, sulla nuova scienza. Un po' come se il classico sasso fosse caduto nello stagno e avesse prodotto le onde che sono giunte alle rive. Non credo ci siano ragioni speciali differenti da questa. La psiche è il nuovo oceano da esplorare, porta con sé il fascino del mondo sconosciuto, e dunque si presta perfettamente per costruire se non un nuovo teatro quanto meno "il nostro teatro"; è la scienza di oggi e noi siamo la nazione dell'oggi. 
Non è tanto, però, l’introspezione a distinguere la drammaturgia statunitense dalle altre (anche un Cechov fa decisamente introspezione, sia pure in altro modo), quanto una certa tendenza alla logorrea.
Una verbosità talvolta incontrollata, infatti, caratterizza la maggior parte dei grandi personaggi americani, ed è proprio in tal senso che quel teatro può essere definito come "psicanalitico", per questa sorta di costante “flusso di coscienza”, come un paziente sul classico lettino che parla in libertà e in quel magma verbale tocca a noi, attori e/o spettatori, identificare i passaggi fondamentali, i punti che illustrano il cuore pulsante del personaggio e della storia.
Il teatro americano è verboso, a volte in modo affascinante, talvolta, dobbiamo dircelo, annoiando non poco. 

Ma un altro elemento contraddistingue la drammaturgia d’oltreoceano, una convinzione legata a doppio filo con un modo d’essere e pensare: l’ossessione per il concetto di Verità. 
Mentire, lo sappiamo, per un americano è quasi peggio che uccidere. Se un Presidente mente non sarà perdonato come un presidente che ruba. Conosciamo tutti la storia della scheda sull’aereo dove ti chiedono “Sei un terrorista?”. Noi europei, antichi e disillusi, ridiamo pensando: “figurati se un terrorista adesso scrive: Sì”. Per uno statunitense, invece, non si può mentire, e se domani compirai un atto terroristico, quell’aver mentito sarà di ulteriore peso nel giudizio. Ricordate il presidente Clinton e la storia di Monica Lewinsky? Ebbene, l’impeachment scattò per la falsa testimonianza, non per altri motivi. 
L’ossessione per la Verità, concetto che noi europei, soprattutto noi latini, abbiamo imparato nei secoli a considerare col dovuto distacco comprendendone l’inafferrabilità ("summa teologica" di tale presa di coscienza è non a caso un italiano, Pirandello), porta gran parte della drammaturgia americana a speculare sul concetto di Parola e dunque di verità. 
Così, psicanalisi e verità si intrecciano, e strutturano la rete su cui il teatro americano si poggia, producendo da “Il lutto si addice ad Elettra”, fino a “Americans”, passando per “La gatta sul tetto che scotta”, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, “Uno sguardo dal Ponte”, “Il crogiuolo”, “Zoo di vetro”… drammi o commedie nei quali c’è sempre, evidente o sotteso, almeno uno dei due elementi, talvolta entrambi, spesso entrambi ma con uno predominante. 

Per i non addetti ai lavori: non si intende che c'è nel testo una plateale discussione sul concetto di Verità o sul valore dell’opera di Sigmund Freud, ma di un atteggiamento, di una questione che attraversa la trama come un fiume carsico, che a volte possiamo rilevare come un riflesso, talvolta dobbiamo cercare poiché per nulla evidente ma comunque esistente. 

Chiaramente, la drammaturgia ha influenzato anche il cinema, sia perché tante opere teatrali hanno trovato trasposizione cinematografica (si pensi per esempio ai drammi di Tennessee Williams, “Rosa tatuata”, “Gatta sul tetto”, “Dolce ala della giovinezza”, “Streetcar named Desire”), sia perché quella era la linea che chiaramente si era andata definendo nella scrittura statunitense e verso la quale tutti sono andati convergendo. Si consideri infine che, diversamente da noi, negli USA non si fanno distinzioni particolari tra sceneggiatore e/o scrittore, nel senso che nessuno si preoccupa del fatto che Allen, per fare un esempio, scriva una commedia per il teatro, poi la sceneggiatura di un film, poi pubblichi un romanzo, poi faccia una regia… il mercato è diverso, con i suoi vantaggi e svantaggi. 

Ma... alla fine, da dove è venuta questa riflessione? Prima di tutto dal fatto di avere avuto la fortuna di partecipare a importanti messe in scena di autori americani e quindi meditare sui copioni che avevo davanti era necessario; e poi perché guardando tanti bei film del cinema americano più volte ho esclamato: “Porca miseria, ma quanto parlano!”, e un addetto ai lavori deve sempre cercare di darsi una logica risposta tecnica, altrimenti è pubblico, ma da quando "ha rotto le scarpe", non lo è più. Tutto qua.  

Compagnia Sebastiano Lo Monaco, prod. SiciliaTeatro
"Uno sguardo dal ponte" di A. Miller 
Regia Giuseppe Patroni Griffi
Scene e costumi Aldo Terlizzi




venerdì 16 giugno 2023

NAZIONALE DI CALCIO, L'ERRORE E' NELLA FILOSOFIA

Conosco l'obiezione: "Ma ha vinto un Europeo". 
Capita! 
Anche Bearzot vinse un Mondiale, anche Lippi, poi, a un certo punto, difronte ai pessimi risultati, se ne andarono o furono mandati via. 
Capita! 
Questo è il momento che Mancini venga mandato via dalla poltrona di Commissario Tecnico della Nazionale. Anche se le responsabilità non sono soltanto sue, anzi, forse le maggiori responsabilità ce le ha proprio la Federazione. 
Il problema è in una errata filosofia, o se preferite in una sbagliata visione del problema. 

Sappiamo perfettamente che in questo momento il calcio italiano non esprime grandissimi talenti, sappiamo altresì che spesso le squadre di club vanno in campo senza nemmeno un italiano tra le proprie fila. Questi due elementi sono fondamentali per comprendere il problema, assieme a un terzo di uguale importanza: che cosa vuole il tifoso? 
Capire cosa vuole il tifoso è decisamente centrale, forse più importante di tutto il resto, perché fin dagli albori del calcio la risposta è sempre la stessa: il tifoso vuole vincere.
Al tifoso non gliene importa nulla del bel gioco, è falso, falsissimo che se vede la propria squadra perdere ma giocare bene si è divertito lo stesso. Questo può accadere una volta, magari due: ma non è nemmeno questione di vederla giocare bene, è questione di vederla lottare, che è diverso. Ma comunque, uscire dal campo sconfitti ma a testa alta, può andar bene ogni tanto, ma soltanto perché vedi che la tua squadra è viva e presente, e speri nella prossima partita. Per il resto, la teoria sacchiana, che fu funzionale alla nascita delle televisioni commerciali e alla globalizzazione della tattica (e dunque al suo impoverimento), secondo la quale il tifoso se vede la squadra giocare bene anche se perde si è divertito lo stesso, è - lasciatemelo dire - una sesquipedale stronzata! 

Però, come fai a vincere se non hai grandi giocatori?
L'Italia, lo sappiamo, è il paese dei campanili e delle provincie, e proprio dalla provincia venne la risposta a questo annoso quesito, con una tattica che poi il mondo ha conosciuto come "calcio all'italiana" o "italianismo", e che nacque, come storiografia ha riconosciuto, a Salerno, e che poi si consolidò in un'altra piccola provincia del Bel Paese: Padova. Ma non basta, quando poi l'italianismo arrivò nelle grandi squadre, vedi Milan e Inter, dunque avendo a disposizione anche i grandi giocatori, fu un vero e proprio botto sentito da Est a Ovest! 

Orbene: la Federazione è ancora convinta - peccato che risale ai tempi di Matarrese - che sia necessario un allenatore, o meglio un CT, che dia un gioco alla Nazionale perché questa possa fare spettacolo (e quindi ascolti tv e quindi pubblicità e introiti, perché alla fin fine sempre intorno al soldo giriamo).
Ma non abbiamo gli uomini per fare spettacolo. E dunque? 

E dunque proprio adesso, proprio in questo grigio periodo bisognerebbe fare italianismo a tutta forza, fregarsene dello spettacolo e cercare di vincere (che poi è il solo metodo per riprendere a fare ascolti e incassi...). Anche perché, paradosso dei paradossi, mentre noi abbiamo dimenticato il "difesa bloccata e contropiede", questa idea di gioco è ritrovabile bene o male in tutte le altre nazionali. 
Spero sia chiaro che Mancini non è l'uomo giusto per tutto questo. 
Rispettabilissimo tecnico, ma forse quel ruolo non è per lui, o forse ha già esaurito la sua vena migliore. 
Chi mettere al suo posto? Altro problema, perché finché la Federazione non cambia filosofia saremo sempre punto e a capo. Per me, prima che diventi decrepito, l'uomo giusto è Claudio Gentile, ma quando una volta lo suggerì in una trasmissione tv mi dissero che non si poteva, il perché non si è mai saputo. (così sapete anche quali sono le mie preferenze!)

L'altra parte del nostro discorso va rivolta ai club: una Nazionale che fa risultati fa bene al calcio italiano ad ogni livello. I club mal digeriscono il fatto di mandare i calciatori in Nazionale per paura degli infortuni. E dunque, pare che a molti di loro questa inconsistenza della primissima squadra vada anche bene, ma forse dimenticano, i nostri presidenti, che avendo le squadre imbottite di stranieri, se nei tornei di Nazionali non ci vanno gli italiani, ci vanno gli altri loro tesserati. Dunque il problema gli resta sul groppone senza averne i vantaggi.
Non sarebbe meglio avere una Nazionale vincente, e che sia la nostra allora? Lo capiranno? Qualcuno forse sì, qualcun altro... mah! 

In conclusione, la prospettiva di un esonero di Mancini sarebbe auspicabile, ma per quel che vedo e sento anche inutile, perché tanto, finché non cambia la filosofia, c'è poco da stare allegri (senza riferimenti!) e a noi poveri spettatori resterà solo la noia, e un telecomando per cambiare canale.  

lunedì 12 giugno 2023

BERLUSCONI, UNA PICCOLA STORIA CHE POCHI CONOSCERANNO

La storia mi fu raccontata da Vittorio Esposito al tempo della nostra collaborazione al Napoli Teatro Festival. 
Vittorio è scomparso qualche anno fa, è stato uno dei maggiori organizzatori teatrali italiani, figlio di una attrice e sposato con una brava attrice, Dely De Maio, anche lei scomparsa da poco.
Vittorio conosceva il teatro a menadito. 
Fu organizzatore e amministratore per Peppino De Filippo e soprattutto per Vittorio Gassman, che si fidava ciecamente di lui. 
Siamo nei primi anni 80 e Gassman vuole mettere in scena il suo Macbeth. Uno spettacolo importante, dove non si poteva e non si doveva badare al risparmio. Scene, costumi, tanti attori, musiche, effetti speciali... tutta roba che costava. Di quella produzione ci restano video interessanti delle prove, immagini dello spettacolo e soprattutto la meravigliosa traduzione firmata da Gassman stesso, ancor oggi pubblicata da Mondadori, una versione fortemente teatrale, fatta per la scena e che di scena palpita. 
Vittorio (Esposito) parte alla ricerca di un partner economico. Nasceva in quegli anni la tv commerciale berlusconiana, sotto il marchio Rete Italia che aveva per simbolo uno stilizzato biscione. Berlusconi aveva anche rilevato il teatro Manzoni nella sua Milano, salotto della buona borghesia meneghina, altrimenti destinato a divenire un garage o un supermarket. 
Esposito ottiene un appuntamento con il Cavaliere. 
Si reca all'incontro e il presidente non c'è, si scusa ma è preso da mille impegni. Dall'altro lato del tavolo, davanti al nostro organizzatore una schiera di manager pronti a fargli le pulci. 
Vittorio espone tutto il progetto: la cifra necessaria per condurre in porto la produzione è davvero importante, circa due miliardi di lire.
I mega manager cominciano a fare una serie di domande, e soprattutto vogliono essere rassicurati sul fatto che si rientrerà della grossa quota che investiranno, vogliono anzi la certezza! Certezza che, come Vittorio spiegò, non si poteva avere: dipendeva da come sarebbe venuto lo spettacolo e dal successo che avrebbe avuto, insomma da mille variabili. Certo, sulla carta l'operazione era abbastanza sicura, ma è sempre necessario considerare l'imponderabile sopra tutto in teatro. 
I manager nicchiano, la cosa non li convince, il matrimonio non si può fare, non possono avventurarsi in una impresa che non sanno cosa renderà. Inutili le parole di Vittorio Esposito sull'impegno culturale, sulla figura di indiscutibile valore di Gassman, su Shakespeare... nulla da fare. 
Sono quasi due ore che parlano, Esposito capisce che la faccenda non si sblocca, comincia dunque a raccogliere le sue carte per andarsene. Quando la porta si apre, entra il presidente Berlusconi, che con tutta la sua amabilità si scusa con l'ospite per non esser stato presente all'incontro, lo fa riaccomodare e chiede una sintesi della discussione. Vittorio espone nuovamente e rapidamente il progetto, e il Cavaliere dice solo: "Bene, facciamolo". 
A questo punto i suoi uomini si agitano, sono perplessi, espongono i loro dubbi sulla operazione, sui rischi che comporta, e Berlusconi risponde: "Ho capito, ma è Gassman, è una operazione importante. Facciamolo". Stringe la mano a Vittorio Esposito e va via. 
1983, quel Macbeth si fece, col simbolo del "biscione" sui manifesti, fu un clamoroso successo e tutti ci guadagnarono. 
Oggi, lo sappiamo, Silvio Berlusconi ci ha lasciato. Faccio parte di coloro che lo hanno detestato, avversato per poi capirne piano piano il valore sia come politico che come uomo e cambiare il mio giudizio. Quando pensiamo a "Silvio", ci vengono certamente in mente le sue tv commerciali, ma Berlusconi era anche questo, uno che prendeva in mano un importante teatro milanese per non farlo morire, e che non si faceva problemi a dire "facciamolo" e metter mano alla tasca perché era Gassman, era Shakespeare, era una cosa importante. E sono certo che il suo fiuto imprenditoriale gli aveva anche suggerito fin da subito che non ci avrebbe perso. E così fu. 

RIP

   

martedì 30 maggio 2023

LA SIGNORA PINA

La signora Pina è nata ad Imola e vive a Castel San Pietro. Ha 75 anni, è vedova e pensionata. Ha lavorato per quarant'anni nell'industria agroalimentare e ha una discreta pensione. 
La signora Pina ha due figli, un maschio e una femmina. Lei e suo marito Giovanni ci han tenuto a farli studiare, e così son tutti e due diplomati. La ragazza è ragioniera part-time presso uno studio di commercialista, ha un figlio, ed è separata dal marito che, impiegato di banca, le passa l'assegno stabilito dal giudice col quale sopravvive a malapena. Teresa, questo il suo nome, come la mamma della signora Pina, vorrebbe lavorare di più, anche perché il figlio è ormai abbastanza grande da potersi gestire una serie di cose da solo, ma non trova un altro posto o quelli che trova sono sottopagati, con contratti farlocchi o sfacciatamente al nero. Teresa resta dunque dal commercialista, dove almeno è regolarmente inquadrata e le vengono versati tutti i contributi per la pensione, perché la pensione, come la signora Pina le ha insegnato, è una cosa importante. 
Alberto, invece, il figlio maschio che porta il nome del nonno paterno, ha fatto l'istituto tecnico e lavora in una fabbrica di componentistica. Anche Alberto ha un figlio, diciannovenne diplomato da poco al suo stesso istituto tecnico ma con un indirizzo sui computer. La moglie di Alberto, Rosaria, fa parte di una cooperativa che si occupa di nettezza urbana, si alza alle tre di notte per andare al lavoro e ha un basso stipendio, ma non possono rinunciarvi perché Alberto guadagna 900 € al mese, prima ne prendeva 1.200, poi lui e i suoi colleghi han dovuto venire a un accordo perché l'azienda straniera proprietaria della fabbrica ha minacciato di delocalizzare. 
Nel quartiere dove vive la signora Pina da un po' di tempo sono arrivati una serie di stranieri, molti sono brave persone, alcuni andrebbero rimessi in riga perché non si comportano proprio bene, peccato che ogni volta che la signora Pina o qualche altro suo vicino chiamano la polizia municipale, questa non si presenta. Anzi, un vigile ha confessato a uno del quartiere che, soprattutto la sera non vengono perché hanno paura. Nella zona ha cominciato a girare anche qualche senza fissa dimora che dorme sulle panchine, si lava alla fontanella del parco e fa i suoi bisogni dove capita. Gli abitanti hanno provato a chiamare i servizi sociali, ma anche questi non intervengono. 
La signora Pina è preoccupata, ma preoccupata sul serio: lei e suo marito han lavorato duramente, son riusciti a comprare una casa, a far studiare i figli e mettere da parte un po' di soldi; quel gruzzoletto, veramente poca roba, ora è però finito perché la signora Pina ha aiutato i figli nei momenti difficili; Alberto ha comprato una casa, sia pur piccola, ma deve finire ancora di pagare il mutuo, ne avrà per altri dieci anni; Teresa, invece, vive in affitto, spesso lei e il bambino mangiano a casa della madre, così risparmiano. Ma questo sarebbe nulla se la signora Pina sapesse che il nipote è riuscito a trovare un lavoro decente con un contratto onesto, che il figlio non rischia più di rimanere disoccupato, che la figlia ha avuto dal suo commercialista il tempo pieno, se sapesse che per le visite mediche che deve fare non ci sono mesi di attesa; se sapesse di non dover stare in pena quando la figlia, dopo aver cenato da lei, deve tornare a casa perché non sa che incontri potrà fare. Sente poi dalla televisione che dovrà spendere tanti soldi per mettere a posto la sua casa altrimenti ai figli lascerà un immobile di scarsissimo valore col quale potranno far poco o nulla. Sente che il figlio dovrà cambiare la vecchia auto perché tra un po' non lo faranno più circolare e questo sarà un problema per quando ha i turni in orari in cui non ci sono mezzi pubblici. Sente che il nipote è meglio che si trovi un lavoro all'estero se vuole immaginare di sopravvivere decentemente: un emigrante come il suo bisnonno che solo per miracolo è sopravvissuto nelle miniere del Belgio per poi morire al suo paese ma con i polmoni completamente distrutti. L'altro nipotino non riesce proprio a immaginare cosa farà, ma di una cosa la signora Pina si consola: la loro situazione è comunque migliore di molte altre. 
La signora Pina è anziana, non sa nulla dei marchingegni tecnologici che usano i suoi nipoti. La signora Pina guarda solo la tv, e ci sono tante cose che non capisce, vede tante cose brutte e non si spiega perché i governi non intervengano, sente le storie di fabbriche che chiudono, di lavoratori sottopagati, di malattie devastanti, di donne molestate e stuprate, di ladri che la fanno franca, di valigie piene di soldi, e dalle sue parti ha anche sentito di bambini sottratti alle famiglie con modi che non capisce, 
Non è serena la signora Pina. E chi nella sua condizione lo sarebbe? 
La signora Pina era iscritta al PCI, lo è sempre stata, fin da giovanissima. Suo padre è stato partigiano, e il partito per lei, ma non solo per lei, per i suoi compagni di lavoro, e anche per la sua famiglia, era una sicurezza, uno scudo dietro al quale ripararsi fiduciosi. Andava alla sezione, la signora Pina, e quando arrivava il momento, senza indugiare indossava il grembiule per andare a cucinare alle feste dell'Unità. Le piaceva tanto quel senso di popolo, quel modo di stare tutti insieme e condividere una passione, una idea, un sogno, una lotta che anche se non finiva mai aveva portato nel tempo dei risultati importanti. Lo sapeva bene, la signora Pina, che aveva conservato il suo posto di lavoro quando era rimasta incinta, che aveva visto reintegrare compagni licenziati ingiustamente, che quando aveva un problema sapeva di poter contare sul sindacato. Ma soprattutto, quando c'era un problema si andava alla sezione, si parlava con il responsabile, e dopo qualche giorno ti arrivava una risposta, qualche volta era negativa ma non importava perché una risposta arrivava! 
Oggi la sezione non c'è più, quando ha un problema non sa a chi rivolgersi, quando i lavoratori come suo figlio hanno avuto problemi il sindacato si è mosso poco e male, e anche quando il nipotino deve fare lo sport non c'è più il campetto della casa del popolo dove portarlo. 
La signora Pina ha sempre sostenuto il suo partito, dal PCI, è passata a iscriversi al PDS e poi al PD, detestava Berlusconi e amava Romano Prodi che è anche della sua terra. 
Oggi, però, la signora Pina è stanca, a votare non ci va più. Non lo capisce più il suo partito. Certo, pensa lei, i diritti delle persone diverse sono importanti, non vorrei mai dicessero che sono omofoba; certo, pensa lei, i diritti degli immigrati sono importanti, non vorrei mai mi dessero della razzista; certo, pensa ancora, salvare la terra dall'inquinamento è importante, non vorrei mai dicessero che sono una inquinatrice; faccio tutta la raccolta differenziata, anche se alla mia età costa un po' di fatica e la devo pure pagare più di quanto mi avevano detto; sono andata a fare tutti i vaccini perché io credo nella scienza, e poi l'han detto alla televisione; aiuto anche alla parrocchia dove stanno i figli degli stranieri a fare il doposcuola e a giocare a calcio, anche se i preti non li ho mai amati, gli stranieri la chiesa non la rispettano, e per mio nipote un posto per giocare non ci sta; faccio tutto, ma il mio partito non lo capisco più, anzi non lo sento più che è mio, è diventato una cosa lontana che a noi non ci pensa più, che ci ha abbandonato per una serie di questioni che non ci riguardano, sempre appresso a questa Europa che non ho capito cosa abbia fatto di buono per me, per noi, per i miei figli e i miei nipoti. Io sono ignorante, sicuramente sono ignorante, ma mi pare che le cose vadano sempre peggio, e vanno peggio da quanto il mio Prodi mi ha portato in questa Europa, che era una bella idea, affascinante, ma qualcosa deve essere andato storto perché non funzione più niente. E io mi sento sola, sento che i miei figli sono soli, siamo soli difronte a un mostro grande, troppo grande perché noi riusciamo a vincerlo. Non ci vado a votare, lo so che sbaglio, ho sempre votato e non votare è sbagliato, ma io a questi non li voglio votare più; a votare quegli altri non ce la faccio, forse un giorno, chi lo sa, mio figlio li vota, dice che è meglio, almeno un po' si occupano della gente come noi, forse poco ma sempre più di "quegli altri, i traditori" come li chiama lui, io non ce la faccio. Di fianco a me è venuta ad abitare una coppia di due ragazzi, che si amano e hanno adottato una bambina. Sono simpatici, educati, bravi ragazzi e la bambina è proprio bella e la crescono bene. Solo che ora uno dei due è stato licenziato dalla cooperativa dove lavorava, facevano le pulizie nelle case di riposo, dice che non hanno avuto l'appalto o che so io. Ieri il compagno di questo mi ha detto che anche loro non li votano più, perché non ha senso avere tanti diritti se poi non puoi avere un lavoro sicuro. L'amore non basta a fare una famiglia, mi ha detto, ci vuole il lavoro. Non ho saputo dargli torto, anzi non aveva alcun senso dargli torto perché mi ha detto una semplice verità, sulla porta di casa, sul pianerottolo, con la bella bambina in braccio, come i vicini di un tempo che si cambiavano il sale o un barattolo di pelati, solo che noi adesso abbiamo poco da scambiarci, ciascuno cerca di sopravvivere come può, chiudendo la porta di casa per difendersi, soli, come non siamo mai stati.

giovedì 25 maggio 2023

RICORDO DI UNA VECCHIA OSTERIA

 




Non me lo ricordo il mio ultimo giorno di scuola. E nemmeno l’ultimo giorno di Università, o di Accademia. A ben pensarci c’è un sacco di ultimi giorni che non ricordo.
Questo vuol dire due cose: la prima è che non sono avvenuti in quei giorni accadimenti traumatici, tali da consolidare il ricordo; la seconda è che non li ricordo, e sono certo non li ricordiamo, perché siamo proiettati, in quei momenti, sul futuro.
Chi di noi esce da scuola pensando a tutto quel che è stato? Sono convinto che tutti arrivano al loro ultimo giorno di scuola pensando alla università che li attende, oppure al lavoro che li attende, anzi facciamo festa perché un periodo che ha certamente avuto i suoi momenti difficili, bui, è finito. La gioia della liberazione, in quel momento, cancella anche i momenti belli, ove mai ce ne siano stati.
La chiave di tutto, secondo me, però, è proprio nel fatto che pensiamo al futuro. D’altronde chi è che a diciotto o venticinque anni si mette a pensare al passato.
Ecco che allora ci accorgiamo che non ci ricordiamo del nostro ultimo giorno di scuola soltanto quando siamo avanti con l’età, quando abbiam fatto il giro di boa ed è cominciato il ritorno, il ritorno all’oblio. In quel momento cominciamo pian piano a rivedere una serie di cose, il più delle volte cerchiamo di rivederle perché non ce le ricordiamo, non le ricordiamo più, come l’ultimo giorno di scuola. Come ero vestito, chi c’era con me, dove siamo andati, cosa abbiamo fatto. Chi di noi lo ricorda con certezza, lo ricorda dettagliatamente? Nessuno, tranne coloro cui è capitato un qualche accidente, dai più seri ai più banali: il terremoto, la morte di un parente, il motorino cui si buca una gomma, la fidanzata che ti lascia, cose così. Ma se non è per qualcuno di questi motivi, seri o ilari, nessuno di noi ricorda, dopo trent’anni, come è stato il suo ultimo giorno di scuola.
Noi non ricordiamo, ci illudiamo di ricordare, il più delle volte costruiamo ricordi sulla base di pochi frammenti fermi nella nostra memoria, ci inventiamo un passato che certamente abbiamo, ma che non possediamo più. Diveniamo scrittori del nostro personale romanzo. Quelli bravi vendono libri, gli altri consumano bottiglie di vino con gli amici ricordando un’altra osteria.

lunedì 22 maggio 2023

L'EMOZIONE DI ESSERE PICCOLI

https://fb.watch/kH7TsJi89q/

                   Vedi, io guardo queste immagini di un anno fa e mi domando: potete capire quanto può essere bello essere piccoli, quanto può essere emozionante, quanto può prenderti il cuore raggiungere un risultato che credevi impossibile, che non era alla tua portata e soprattutto che tutti pensavano non fosse alla tua portata? 

E' solo una salvezza, ma per te è molto, ma molto di più di una Champion's. E' essere riusciti a scalare una montagna senza avere le scarpe, è avere attraversato la manica a nuoto senza poter respirare, è vedere la tua gente, il tuo popolo, quelli come te che per una volta ce l'hanno fatta, hanno tagliato il traguardo, è l'emozione che prova un ragazzo al suo primo bacio, è la vita che ti sorride ancora e ancora. 

Che ne possono sapere quelli grandi, quelli che sono abituati a vincere, che un anno sì e un altro pure scendono in piazza a festeggiare. La loro festa dura un giorno, poche ore, perché tanto il prossimo anno ne faranno un'altra. Per noi no. Noi non sappiamo quando festeggeremo ancora, non sappiamo se capiterà di nuovo. Noi dobbiamo stare per forza sul momento, non possiamo pensare immaginando un futuro. La nostra festa deve durare un anno, anche senza festeggiare, dura un anno nel nostro cuore, ogni giorno, e ogni giorno è un sorriso, fino alla prossima festa. 

Noi siamo piccoli, e forse non cresceremo mai, ma sappiamo capire chi sventola la propria bandiera per una promozione dalla C alla B, o dalla B alla A. Quando nel 1990 vincemmo il campionato di Serie C, ricordo ragazzi della curva che ai microfoni urlavano pieni di emozione: "Non l'ho mai vista la serie B, non l'ho mai vista", perché loro non c'erano ai tempi di Pierino Prati, non c'erano ma sono stati lo stesso su quegli spalti tutti gli anni, all'acqua, al sole, al freddo e al vento a sventolare la loro bandiera. Ed erano felici, solo perché andavano in serie B, una volta, dopo trent'anni. Riesci a capire cosa possa voler dire essere piccoli e raggiungere quello che per te è un piccolo traguardo? Io penso di no, e qualcosa penso ti manchi nella vita, ti manca la gioia delle piccole cose, ti manca il sorriso di un fatto che non si ripeterà forse più nella vita, che hai avuto la fortuna di vivere quel giorno e non si sa se lo rivivrai ancora. Tu vinci sempre i grandi trofei, ma quello che ti manca è l'eccezionalità dell'evento, ecco perché non puoi capire cosa sia una salvezza, cosa sia esser piccoli e aver raggiunto il traguardo in mezzo ai giganti. Io non sono Davide, Dio non è con me, quel poco che ho fatto l'ho fatto tutto da solo, ed è meraviglioso. 

#macteanimo

martedì 9 maggio 2023

GIORNATA DELLE VITTIME DI TERRORISMO: CHI VUOLE CANCELLARE LA MEMORIA?

E niente, ormai tocca tornarci su ogni anno chiedendosi quale volontà vi sia dietro, o quale stupidità supporti la scelta di mettere tutto nello stesso calderone, e questo sperando di sollecitare la riflessione di qualcuno. 
Ci si sente ormai come "voce che grida nel deserto" di fronte alla indifferenza generale, difronte alla superficialità, disinformazione, alla imbecillità conclamata delle nuove generazioni che nulla si chiedono e vanno come sorci dietro al pifferaio di turno. 
Un mondo senza domande e senza dubbi, dove a regnare è il facilismo, la piaga delle piaghe. E dunque, ancora una volta: 

Oggi è il 9 maggio, in questa data si ricordano una serie di importanti avvenimenti, di portata mondiale, a cominciare dall'Armata Rossa che entra a Berlino e sconfigge definitivamente Hitler e il Nazismo; c'è poi il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa in via Caetani: i giovani non lo sanno (mi chiedo cosa cazzo sanno!), ma il caso fu di portata mondiale, non solo italiana; altro caso di portata mondiale - mi spiace per i più - non è il ritrovamento del cadavere di giuseppe Impastato, ma la prima rappresentazione al Teatro Valle in Roma di "Sei personaggi in cerca d'autore" di Luigi Pirandello. 

La morte di Impastato, come ho avuto già modo di scrivere, è una cosa certamente grave, ma non è come l'assassinio di Moro per una serie di questioni geopolitiche, di lotte di potere, di battaglie su principi ideologici che attraversano questo caso. 
Dalla morte di Moro è dipeso il destino della democrazia in Italia, democrazia che non è più stata la stessa; la morte di Impastato rientra nel triste novero dei casi di omicidio di mafia di cui purtroppo è nutrito questa Nazione. Sono certamente più determinanti le morti di Falcone e Borsellino, stragi che hanno fatto cambiare strada alla Storia dello Stato. Non intendo sminuire, ma essere oggettivo. 

E invece, qualche buontempone ha pensato di istituire in questo giorno, che non a caso è anche il giorno in cui si festeggia la nascita della Unione Europea (datemi pure del complottista, me ne fotto!), il giorno di commemorazione delle vittime del terrorismo. 
Ora: Terrorismo e Mafia sono la stessa cosa? NO! 
L'ho già spiegato e non posso ripetere ogni volta ragionamenti che potete fare da soli (cazzo!) 

Qui il link del vecchio articolo 

Ma ormai questa è una piaga che non si riuscirà a risanare se non nella consapevolezza dei singoli. 
Foto come questa, pubblicate oggi su molti social e pure da molti politici (questa l'ho presa da un twitt di Salvini) mostrano superficialità e malafede. 


e viene da chiedersi: se parliamo di "vittime del terrorismo" il dato storico è che vittima del Terrorismo è stato Moro, non Impastato che è vittima di Mafia. 
Ma allora perché Impastato è al centro dell'immagine, il punto su cui prima di tutto casca l'occhio? Ma allora, se è tutto uguale, perché non c'è Falcone?

Resta la domanda che da un po' di anni ha soppiantato anche il "chi ha davvero ucciso Moro?", e cioè: perché si vuole cancellare la memoria di questo fatto epocale usando il subdolo sistema di equipararlo a tutti gli altri quando non lo è? A chi giova questa cancellazione della memoria? 


Lo dico ai giovani, a quei pochi che vorranno ascoltare e cercheranno di capire, per il bene del loro stesso futuro: credetemi, il caso Moro non è come tutti gli altri casi. 

lunedì 8 maggio 2023

CARI AMICI NAPOLETANI, FORSE E' MEGLIO CHIARIRSI.

 

Cari amici napoletani,
ero molto, molto contento della vittoria del Campionato che per il Napoli sempre più si avvicinava; mi sono anche arrabbiato per l’uscita dalla Champion’s che a mio parere si poteva evitare se la squadra partenopea avesse avuto un allenatore un po’ più "furbo". Non si può incontrare il Milan tre volte in circa un mese, giocarci sempre allo stesso modo, lasciando che i rossoneri impostino la loro gara sempre allo stesso modo, e non pensare a un sistema diverso per batterli. Questo è il mio pensiero. So che qualcuno dirà che in Italia siamo 58 milioni di CT, ma d’altronde si dice pure che in Italia ci sono 58 milioni di attori, non vedo dunque perché non possa esprimere opinioni sul lavoro degli altri.
Poi c’è stata Napoli-Salernitana, e il risultato che sappiamo. E da quel momento, della vittoria della squadra del capoluogo di regione, della capitale del nostro Regno delle due Sicilie sempre nel mio cuore, della più importante città del Sud italiano, non me ne è importato più nulla.
Troppe volgarità, schifezze, offese sono state dette contro Salerno, i salernitani, la Salernitana. Da quel convinto “pisciaiuolo” che sono, non voglio nemmeno tornarci su, se non per dirvi che la vostra vittoria sta ora nel mio cuore come quella di un Milan o di una Juve: non me ne frega niente!

C’è però una cosa che in quanto attore, uomo di teatro, sento di volervi dire.
Con franchezza, di tutta la retorica su Napoli e i napoletani non se ne può davvero più: ho sentito ancora parlare di “riscatto”, di “vittoria contro l’odio”, di “orgoglio partenopeo”, e tutto il repertorio che tra frasi e immagini avrei preferito aveste risparmiato all’Italia, perché sarò anche salernitano, un “pisciaiulo” appunto, ma sono di origini napoletane e borbonico nel sangue, ed alla dignità del mio Sud e della mia capitale, nonché al fatto che questa non venga offesa dai terroni del Nord e da tutti i razzisti d’Italia ci tengo, in tal senso mi guardo bene dal prestare il fianco e mi piacerebbe che tanti facessero come me.
Ma tanto lo so come risponderete a questa obiezione: noi siamo così, questo è il nostro modo di gioire, invidia, non siete capaci e ci odiate, un popolo come il nostro non c’è… E anche qui, tutto il repertorio di retorica.
Bene fa Vincenzo Salemme a cercare di alleggerire la sua amata città dagli stereotipi che la affliggono a volte più della disoccupazione stessa, ma non so quanti di voi lo abbiano capito.
Ebbene, proprio nell’ottica di questa insopportabile retorica vi ho visto ritirare fuori le “bandiere cittadine”: Eduardo, Totò, Pino Daniele, Massimo Troisi… E dunque è arrivato il momento che ci chiariamo una volta per tutte. Parlo in prima persona, ma sono certo di parlare a nome di tantissimi italiani, meridionali, campani.

Io amo Eduardo, Totò, e Pino Daniele, e Troisi, e Raffaele Viviani, Scarpetta… e Matilde Serao, e Striano e la Ortese, e Ruccello e ovviamente Patroni Griffi. Ma non basta, perché nelle mie felici memorie c’è anche un certo Giuseppe “Peppino” Pacileo che molti di voi giovani tifosi nemmeno sapranno chi sia, un giornalista limpido e geniale che era una vera gioia leggere il lunedì mattina nel racconto delle gesta del grande Napoli di Maradona e compagni. Qualcuno lo definì "il Brera del Sud", ma questa definizione non mi è mai piaciuta, poiché sottintendeva sempre una sorta di superiorità settentrionale, un modello nordico a cui riferirsi. Avessi mai sentito dire che Brera era il Pacileo del Nord! 

Ebbene, dovete sapere, perché è obbligatorio che lo sappiate, che io amo Eduardo De Filippo perché è un attore sublime e un grandissimo autore, amo Totò perché è un comico immenso, e Pino Daniele perché è un grande musicista. E lo stesso tipo di specificazioni valgono anche per gli altri che ho nominato e per tutti quelli che amo e che ora non mi vengono in mente: perché sono dei grandi artisti, non perché sono napoletani!
Il fatto che loro siano napoletani e che io sia campano, rende più semplice la vicinanza, a volte più profondo il comprendere, più spassoso o più amaro il cogliere le sfumature, ma amando in loro la loro arte, li amerei anche se fossero di un’altra regione o di un altro mondo.
Anzi, vi dirò di più, l’essere “esterno a Napoli” favorisce in me una visione che è prima di tutto nazionale, quando non internazionale addirittura, della loro opera, mentre il fatto che per voi siano bandiere cittadine vi porta a limitarne lo splendore e l’apprezzamento extraterritoriale.
Eduardo è un attore di valore immenso, che riesce ad abitare il palcoscenico con una semplicità che è frutto di un faticoso e intenso lavoro di anni, di dedizione e sacrificio; suo fratello Peppino oltre a essere un magnifico attore di teatro è forse il miglior attore italiano di cinema che abbia mai visto, più dei Sordi o dei Tognazzi, poiché ha la capacità di essere sempre perfettamente credibile, e non c’è un solo film nel quale lo abbia visto non centrare il personaggio. Fossero stati romani o genovesi o veneti avrei certamente provato per loro lo stesso amore e apprezzamento così come amo un Fabrizi o un Govi, Sciascia o Berto o Morante. 

Non continuo, mi fermo qui. Penso solo che quando Napoli si deciderà ad abbandonare le sue retoriche, autoalimentate e autoalimentantesi, forse ritroverà un po’ di fulgore e raccoglierà una maggiore attenzione da parte dell’Italia, ma attenzione vera ai suoi problemi e ai suoi splendori.
Se una persona è simpatica non ha bisogno di rappresentare la simpatia, se una città è grande non ha alcun bisogno di rappresentare la grandezza.

Buon terzo scudetto a voi.