giovedì 27 agosto 2015

IL PUBBLICO NON HA TEMPO - una veloce considerazione


Ho casualmente ascoltato ieri, nello zapping televisivo, una interessante intervista a Gabriele Lavia, il M° Gabriele Lavia.
Molti passaggi interessanti, ma uno in particolare mi piace porre alla vostra attenzione, mie fidati 22 lettori.
Diceva a un certo punto Lavia, che spesso “vado a Teatro e... non capisco”. Il “non capisco” era riferito a quello che vedeva, alle messe in scena, ed in particolare al dipanarsi della storia. Questo perché, spiegava, spesso e volentieri, i suoi colleghi fanno cose che prevaricano la narrazione, che si sovrappongono al plot, lasciando nello spettatore una serie di dubbi e di incomprensioni. Si presume che lo spettatore già sappia, sopra tutto nel caso dei classici: “Io rivendico il diritto dello spettatore a non sapere. Tu sai cos’è e chi è Medea – diceva all’intervistatore – ma sei sicuro che lo sappia anche un ragazzo di undici anni che viene per la prima volta a Teatro, o un signore che sa mille altre cose ma non conosce la storia di Medea? Sarò antico, ma credo che nostro compito primario è raccontargli una storia e fare in modo che la capisca, e bene”.
Lavia non si rende forse conto di quanto sia antico e di quanto sia politicamente scorretto il suo pensiero. Provate ad andare a una cena di radical chic intellettualoidi e a dire in quella sede che non conoscete Medea, che non l’avete mai letta... reazioni di indignazione e, pure, di sottinteso disprezzo.
Dal canto mio, quando confesso di avere letto poco teatro, vengo guardato con sospetto. Inutile che spieghi che fu un pensiero elaborato da ragazzo che piacevolmente continuo a coltivare per un appassionato motivo: quando vado a Teatro voglio che in qualche modo quella sia la mia “prima mondiale”, voglio scoprire la storia lì, in quel luogo e da nessuna altra parte. Non c’ero circa seicento anni fa quando ci fu la prima di Amleto, ma può questo impedirmi di mettermi nella condizione di quello spettatore che per la prima volta assistette alla storia del principe di Danimarca, o del Misantropo molièriano, o assistere alla mia prima assoluta apparizione dei Sei personaggi? No se non conosco la storia, se non ho letto prima il testo. Il meccanismo, purtroppo, non l’ho sempre adottato – il lavoro non me ne ha dato la possibilità – ma quelle volte che è successo, non vi nascondo che un meraviglioso stupore si è impossessato di me, come per esempio quando assistetti alla mia prima mondiale di Elettra di Euripide.
Ne parlai alla fine con una brava collega che vi lavorava, e quando capii che non conoscevo il testo, rimase sbalordita: “MA CCCCOOOOMEEEE?!”, con lieve disapprovazione.  Non lo conoscevo, e allora? Fu, cose che lei non poteva comprendere, una serata bellissima, una emozione nuova.
Ultimamente – fatevi questa risata – ho assistito al Regio di Torino al Faust di Gounod. Opera da me mai ascoltata. A un certo punto l’orchestra è esplosa in modo tale che mi è scappato, credo forte, un “Li mortacci...”. Varie capocce si sono improvvisamente rigirate verso di me. Il buio non mi ha fatto comprendere con che tipo di espressione.
Io trovo che sia una bella cosa, altri se ne stupiscono e si indignano. Non so cosa farci.
Ma Lavia, il M° Gabriele Lavia, continuava con una osservazione ancor più interessante: è necessario cercare la chiarezza perché “il pubblico non ha tempo”.
Anche su questa cosa mi sono trovato in pieno accordo. Lavia, che è un vero Maestro, riesce a sintetizzare un altro mio pensiero, che spesso condivido con i più giovani: “Tu l’hai letta decine di volte, hai fatto le prove, le repliche, sai benissimo cosa c’è scritto; il pubblico che viene a Teatro la sente per la prima ed unica volta e non può tornarci sopra come fai tu alla replica successiva, o a casa con un videoregistratore. Deve essere chiara!”.
Effettivamente Lavia è più bravo (e non ne ho mai avuto dubbi!): “Il pubblico non ha tempo”, e il discorso è finito, netto, chiaro, inconfutabile.
Mettendo insieme le due cose, si può ragionare anche su di un altro aspetto: ha un senso, oggi, richiamarsi innanzi tutto alla storia, alla semplice narrazione?
Credo di sì. Credo che in questi tempi di profondo sbandamento, di confusione, di tentativi violenti e al contempo impercettibili di indirizzare il pensiero collettivo, tornare alla base, alle radici, riaffondare le radici in pochi e semplici insegnamenti per poter ripartire, ancora una volta, possa essere una grande opportunità.
Intendiamoci, questo non vuole dire tornare a fare il teatro con i fondalini dipinti (che pure sarebbe divertente), ma riconsiderare come fondamentali quei pochi e basilari elementi del Teatro, e quindi della professione, che si vanno pian piano disperdendo.
Tanto per fare un esempio: se devo far capire bene la storia, devo apprendere bene come usare la voce e l’articolazione; e devo fare in modo che ogni mio gesto sia chiaro e leggibile, il che comporta una conoscenza adeguato del corpo e del suo uso, ecc. ecc.
Insomma, quel tanto citato, e forse mai adeguatamente compreso, motto di Verdi: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Perché il progresso passa sempre attraverso una rigenerazione dell’antico, ha bisogno di un ripassare attraverso le radici. È come tuffarsi in piscina: vai a fondo, a  fondo... e poi, per ritornare su agilmente, devi poter toccare il fondo della vasca, spingi e risali.
In fondo non mi pare complicato.
Solo un paradosso (di quelli che solo il Teatro sa proporre): come faccio a rendere chiara la narrazione per lo spettatore? C’è un modo, una tecnica, un trucco?
Penso di sì, e si concentra in questo assunto: perché sia chiaro agli altri deve essere molto chiaro per te; più è chiaro per te, più lo sarà per gli altri.
E quando dico “chiaro” ovviamente non mi riferisco solo alla enunciazione delle semplici parole, intendo anche i sentimenti, i sottotesti, le intenzioni, il non detto... tutto insomma.
Il che, a conti fatti, non rende facili le cose. Ma noi, come diceva Eduardo De Filippo, non siamo nati per le cose facili, ma per quelle difficili. E, badate bene, non lo diceva solo per gli attori, ma per tutti gli esseri umani.
Per il resto, fate voi.



mercoledì 12 agosto 2015

LA MENZOGNA

La menzogna ha la superba qualità di rivoltarsi prima o poi contro chi la propaganda. 
Esemplare la ben nota frase di Romano Prodi: "Con l'euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più". 
La narrazione storica sulla Democrazia Cristiana è nota tutti coloro che hanno almeno più di 25 anni: malaffare, corruzione, clientelismo, gestione dissennata dei fondi pubblici, poteri forti infiltrati nel partito, patto di potere con le istituzioni ecclesiastiche, ecc. ecc. ecc. 
Tale racconto era ovviamente fatto dagli organi di opposizione, cancellando totalmente quel che di positivo c'era in quel grande partito popolare, la sua storia, le sue qualità. Erano i partiti della Sinistra e i loro organi di informazione a narrarla così. 
Oggi, molti, moltissimi votano PD convinti cieca-mente, che questo partito sia l'erede del grande Partito Comunista Italiano. 
Si verificano, però, "strani" fenomeni, tra i quali il primo, il più evidente, è che come fu per la DC, oggi il PD governa tutto il Sud. C'è dunque da pensare che quegli accordi con la criminalità organizzata dei quali si accusa la DC siano passati nelle mani del PD? C'è dunque da pensare che il clientelismo alla Gava di cui si accusa la DC sia passato nelle mani del PD? 
Ma da ultimo, e questo ha quasi del clamoroso, la posizione della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) sull'immigrazione: va perfettamente a collimare con quella del PD, non solo nel merito dell'azione di accoglienza (bene gestita o no lo lasciamo giudicare alla Storia), ma anche nella indicazione del "nemico, M5S e Lega, che da "piazzisti" lucrano voti sulla tragedia umana. Dunque, come fu per la DC, la Chiesa (le gerarchie ecclesiastiche, per essere precisi), vanno pienamente a braccetto con il PD. 
Unendo i puntini, cosa possiamo ipotizzare? Che il PD è la nuova DC? Ma se così è, tutta quella narrazione che gli eredi legittimi del PCI hanno fatto sul grande partito popolare cattolico italiano, si sposta automaticamente su loro, e visto che furono loro, e sono ancora oggi loro a proporla, quella narrazione, possono presentarsi come liberi da quei "difetti" che agli altri imputavano? 
Quasi impossibile. 
Se è certo che la Verità rende liberi, la Verità prima o poi vince, si evidenzia in tutto il suo splendore, la menzogna (vedi Prodi & euro), prima o poi, implacabilmente si ritorce contro chi l'ha propagandata. Sempre.

martedì 4 agosto 2015

IL TRITTICO, LA DIVINA COMMEDIA DI PUCCINI


Or drizza ‘l viso a quel che si ragiona


Puccini si arrabbiava quando gli “spacchettavano” il Trittico. E aveva ragione!  L’opera, seppur divisa in tre episodi e composta non consecutivamente, ha una sua unità, netta.
Solo l’irriverenza, infatti, il gusto per il paradosso e la battuta fulminante, la sfrontatezza, di un toscano potevano immaginare di costruire una Divina Commedia in musica, che oltre tutto ritrovasse il suo Paradiso attraverso un personaggio dell’Inferno dantesco, utilizzando uno schema e una corrispondenza estremamente semplici:
1 – Tabarro/Inferno
2 – Suor Angelica/Purgatorio
3 – Gianni Schicchi/Paradiso


Il Trittico fu composto durante la Grande Guerra e il carteggio ci dice quanto Puccini sentisse come terribile l’evento. In lui non si ritrova quella attrattiva per gli ideali patriottici o per il “bel gesto” che esaltarono altri artisti o intellettuali italiani. Per Giacomo, la guerra è solo guerra, ed è un inferno dell’anima. La scelta de Il Tabarro è precedente il conflitto, ma la totale articolazione del lavoro si compirà durante la ’15 -’18, e attraverso questo percorso, che definiremo “para-dantesco”, Puccini indica una via di rinascita, di rigenerazione, la fiducia in un futuro migliore, a patto che l’uomo sappia abbandonarsi alla forza vitale dell’arte… la Storia ci dice che solo venti anni dopo i popoli si ritrovarono in un nuovo conflitto.
In questo viaggio dall’Inferno al Paradiso, l’elemento guida, quasi l’Io narrante, è quello femminile, da Giorgetta ad Angelica a Lauretta.
Partiamo dalla fine, da Lauretta, e da una indicazione dal testo. L’idea comune, infatti, è quella di una ragazza ingenua, ma l’elenco personaggi ci dice che ha 21 anni, età in cui, stando all’epoca della trama, una donna era fin troppo avanti per maritarsi e avere figlioli. Lauretta è dunque donna adulta, e nettamente determinata. Il suo “O mio babbino caro” è non solo il vero nodo drammatico di “Schicchi”, ma il punto di risoluzione di tutto il percorso del Trittico. Lauretta non implora il padre, come sembrerebbe, ma ne determina la decisione, esplicitando, pur nella dolcezza, l’ineluttabilità della sua scelta. Il suo “buttarmi in Arno” non è minaccia, ma avvertimento. 
Tutto ciò anche considerando i 21 anni in epoca pucciniana, poiché da questa spinta del femminile, che cerca e vuole il proprio completamento, nasce il travestimento, la finzione, il gesto teatrale di Schicchi che porterà alla felicità dei due giovani, alla fiducia in futuro “affacciato” sulla “ricca, splendida” Firenze. E in questo gesto, oltre Gianni, ognuno è coinvolto, costretto in un segreto, in una finzione acquisita come Verità, in poche parole: Teatro; in poche parole: il Paradiso e la speranza sono legati all’atto più antico e completo dell’umanità, quello teatrale, quello da cui tutto nasce, in cui tutte le arti e tutte le risposte che l’uomo cerca sono già contenute. Per questo la chiusa di Schicchi non è affidata al canto, ma a quel declamato alto che rimanda all’origine della cultura occidentale, e Gianni, compiuta la sua opera, non ha più nulla da cantare: tutto è ormai nelle mani dei due giovani.

Ma se Lauretta è compimento del percorso, da dove eravamo partiti? Da Giorgetta, da quella chiatta sulla Senna che tanto ricorda la barca di “Caron dimonio, con gli occhi di bragia”, e la piccola brace, della pipa e del fiammifero, sono parte dell’inganno che costerà la vita a Luigi e - si resta nel dubbio - a Giorgetta, novelli Paolo e Francesca, in un ambiente oscuro, fondo, al di sotto dello scorrere del vivere umano. In alto lontano una Notre-Dame imponente, platani lussureggianti, amanti che dolcemente si salutano; invece, per andare alla chiatta di Michele si scende, in basso, come nell’Inferno, un inferno in cui gli uomini sono condannati ad eterna pena, e dove i pochi elementi lieti sono richiamo a un passato ormai solo sognato, come la casetta desiderata dalla Frugola, o la Belleville dei due amanti.  Per tutti, in scena e in platea, il ricordo felice degli anni in cui viveva d’amore e per amore moriva Mimì, piccola tenerezza che il musicista concede prima di tutto a se stesso, quando “era gioia la vita”. Giorgetta è costretta al suo inferno, non può uscirne - i due amanti, curiosamente, non parlano di fuga, ma solo di desiderio - e il suo inferno ha un punto di inizio chiaro: la morte del figlio. La gioia della maternità le è stata negata e con essa il futuro. Giorgetta non guarda al futuro, non ha futuro
Il figlio morto è il punto di raccordo con la straziante storia di Suor Angelica. L’atto centrale del Trittico è forse il più interessante e pregno di richiami, nemmeno tanto mascherati, al poema dantesco (“liberamente al desiar precorre” per “liberamente al domandar precorre”, preghiera di Bernardo alla Vergine). La seconda cantica del Poema è certamente la più umana poiché in essa vi è il Tempo. Infiniti Inferno e Paradiso, il Purgatorio si distingue per la necessità del tempo, che scandisce l’attesa del passaggio delle anime, e nel XXVII canto, come a insistere sull’incidenza del Tempo, giunge il tramonto, poi la notte, e Dante si addormenta, sognando di una donna, Lia, che coglie fiori per intrecciare una ghirlanda. 
Il convento vive nella scansione del tempo: da quello della preghiera a quello del lavoro, fino ai tre giorni l’anno della fontana dorata dal sole. Ed Angelica, che si occupa di fiori e di erbe coltivate per curare, e dalla cui conoscenza scaturirà il rischio della sua perdizione assoluta, conta ore e giorni che l’hanno separata dal suo bambino, nell’attesa di una qualche notizia. “Giunto alla sommità del Purgatorio, giunto al paradiso terrestre, Dante è abbandonato da Virgilio, e si trova solo, e lo chiama” (J. L. Borges), ma in quel momento, in suo soccorso giunge una donna, Beatrice, che dopo averne impietosamente declinato i peccati, gli apre la via per il Paradiso. Angelica riconosce il suo estremo peccato, il tentativo di suicidio, e invoca la Vergine, che accolto il pentimento compie il miracolo. L’apparizione del bambino ha funzione simbolica: se per il compimento del percorso dell’uomo Dante è necessaria l’aiuto del femminile, ad Angelica giunge in soccorso l’elemento maschile, che non può essere un adulto in quanto ricorderebbe la colpa, anche di Giorgetta, ma quel bimbo, ancora puro, del quale il fato ha privato entrambe. In quel bimbo, le due figure femminili si purificano e trovano la via verso la nuova vita, verso Lauretta.
Maschile e femminile si ritrovano, attraverso il percorso di crescita, presa di coscienza e sviluppo del femminile, nell’atto d’amore più umano che esista, il bacio, negato da Giorgetta a Michele ad inizio d’opera, che drammaticamente e ambiguamente conclude Il tabarro, ricordato in Angelica come unico momento di gioia con il figlio, e che esplode prima come ricordo felice, poi come gesto tra Rinuccio e Lauretta alla fine del Trittico. La complementarietà è ricostituita, guarda fiduciosa al futuro, e chissà… si presume avranno dei bambini.