domenica 29 ottobre 2017

RECITARE... O DEL SENTIRSI INADEGUATI (gli anni che passano)

Ieri sera, nella sala dei Granai della meravigliosa Certosa di Padula, abbiamo debuttato con uno spettacolo ideato, costruito, diretto dall'amico Pasquale De Cristofato, "Kosmograph", tratto da vari scritti di Luigi Pirandello.
Mi hanno detto quelli del pubblico che è una bella cosa, emozionante, coinvolgente.
Può solo che farmi piacere sentire questi giudizi, anche perché, facendo lo spettacolo, è evidente che non lo vedo. Già, non ho mai visto gli spettacoli che ho fatto, e sono tanti ormai.
De Cristofaro ha messo insieme un perverso e accattivante meccanismo fatto di attori, di ballerini (i ragazzi del Liceo Coreutico Alfano I di Salerno, per le coreografie di Annarita Pasculli), di estratti da un film del 1926, "Il fu Mattia Pascal" tratto dall'omonimo romanzo, filmati appositamente girati e musiche selezionate e originali (di Antonello Mercurio).
Ce ne andremo a fare un po' di repliche in giro nel corso di quest'anno teatrale, da Napoli a Bari a Salerno.
Bene, tutto bene. E il fatto che la performance sia piaciuta non può che dare soddisfazione.
Solo che...

Solo che alla fine, quando alcuni sono venuti a farmi i complimenti per la mia recitazione, ho sentito in me una certa ritrosia, ritrosia che con il passare degli anni si mostra sempre più evidente al mio animo.
Mi è tornata in mente una intervista a Lavia, nella quale il grande Maestro si definiva - cito a memoria - incapace di fare il proprio lavoro. Certo - aggiungeva ironicamente - sempre meno incapace di altri, ma comunque incapace.
Poteva sembrare una battuta, un autodileggiarsi, ma in realtà Lavia toccava una corda profondissima e sensibilissima del nostro lavoro. Che è di tale complessità che troppo spesso gli stessi attori non ne sono consapevoli.
Il Teatro, l'arte della Recitazione è Arte primaria "che tutte le contiene e nella quale tutte le risposte che l'uomo cerca sono già contenute" (Lavia), questo la rende profondamente complessa, difficile, ambiziosa, strana, irraggiungibile...
Dico da anni che l'Accademia funziona se entrando ti senti un Dio, uscendo un idiota; diffido sempre di coloro che aprendo il copione sanno già come andrà affrontato, mi fido invece ciecamente di coloro che sfogliate le prime pagine si mettono le mani nei capelli disperati dicendo a loro stessi: "e mo', come si fa 'sta roba!?"; è il segno dell'umiltà che avanza, e che si ispessisce con il passare degli anni. Umiltà che nulla ha a che vedere con la modestia.
Gli anni passano e il senso di inadeguatezza ci assale anche se nessuno di noi è pronto a confessarlo, allo stesso modo in cui ci si sente inadeguati all'amore con il passare dei giorni: si continua ad amare, sempre di più, chiedendoci se ne siamo davvero capaci, se stiamo davvero facendo bene, ma continuiamo a farlo.

Così, tendo a discostarmi dai complimenti, a scartarli con un sorriso o un dileggio, a non prenderli/mi troppo sul serio anche se fanno maledettamente piacere.
Mi accorgo di apparire antipatico, forse, o scostante, o magari presuntuoso.
Non voglio e non devo giustificarmi con alcuno, perché so sempre di più che questo, tutto questo fa parte della stessa natura del mio lavoro. E come tale soltanto lo prendo, come lavoro. Di complimenti non c'è in realtà bisogno perché ognuno di noi nel proprio intimo sa perfettamente se ha fatto bene o male, e non ce n'è necessità come non è necessario dire tutte le volte all'impiegato che espleta una pratica che è stato bravo: fa il suo lavoro, come io ho fatto il mio.
Venite pure a complimentarvi, perché gli attori come i bambini hanno bisogno di affetto. Non sorprendetevi se di fronte alla vostra manifestazione di ammirazione li vedrete perplessi. Cosa passa nella loro testa, nel loro animo? Forse questo, sapere che nel maturare delle capacità, avanza implacabile il senso di INcapacità, di inadeguatezza.
Perdonateci, e vogliateci bene, perché recitare è troppo difficile, ma continueremo ad amare il nostro lavoro sempre chiedendoci se siamo in grado di farlo.

lunedì 23 ottobre 2017

LEONILDE CHE NACQUE QUAND’ERA GIÀ NATA

(Ho scritto questo post ieri, riesco a pubblicarlo soltanto oggi. Io sono stato un bimbo fortunato perché ho potuto ascoltare centinaia di storie)

Oggi, 22 ottobre, sarebbe stato il compleanno di mia nonna. Ma non lo era, e fin dalla più tenera età non lo è mai stato. Perché mia nonna venne al mondo dopo essere venuta al mondo.
Leonilde Grauso di Giuseppe, commerciante in profumi, e Lucia Brizzi, ballerina del Regio Teatro di San Carlo, vide la luce in Napoli, alla via dei Fiorentini, quartiere de “i guantai”, nel 1904.
Quando Leonilde emise il suo primo vagito, Giuseppe Verdi era morto da circa tre anni, e Giacomo Puccini era pienamente sulla cresta dell’onda. Al Maestro lucchese è legata la carriera teatrale di nonna Leonilde, cominciata e finita nello stesso giorno con un “protesto”.  Era infatti il 1910, così raccontava nonna, e al San Carlo si dava la prima partenopea di Madama Butterfly, occorreva, come testo richiede, il figlioletto di Pinkerton e Cio-Cio-San, e Leonilde, paffutella e dai bei riccioli biondi per via della sua ascendenza asburgica, venne scelta.
Fu condotta da mamma Lucia alla prova generale, e dopo avere ricevuto le semplicissime istruzioni per il ruolo, vestita e truccata di tutto punto, giuoco meraviglioso che a sei anni la rese ovviamente raggiante, svolse la sua parte con assoluta diligenza. Quando però durante la drammatica aria finale il soprano protagonista la prese in braccio… beh, il bimbo/bimba si rivelò decisamente paffutello. Pesava troppo: protestata! Così ebbe inizio e fine la carriera teatrale di Leonilde Grauso, che da quel momento fu condannata per tutta l’infanzia a vedere il teatro da dietro le quinte.
Nonna, infatti, amava la tombola, ed ogni natale ci costringeva, sia pur con elegante discrezione, a qualche giro di quel gioco che tutti noi trovavamo noiosissimo. Ma cedevamo con amore, perché dai suoi racconti sapevamo che da bambina, ogni benedetto venticinque di dicembre che nostro Signore mandava in terra, dopo il più classico dei pranzi natalizi, mentre gli altri familiari si apprestavano a giocare con cartelle e bussolotto, lei era obbligata ad accompagnare mamma Lucia in teatro perché aveva spettacolo. Come poteva non intenerirci l’immagine di quella bimba strappata a forza dal tavolo dei giochi per passare il pomeriggio tra le quinte di un polveroso palcoscenico, sia pur glorioso come quello del San Carlo?
Da allora, nei suoi ricordi, come in quelli di sua sorella Giovanna, per noi tutti zia Giovannina, rimasero impressi indelebilmente il Ballo Excelsior e tutte quelle Opere che contenevano un balletto, evidentemente perché in tali occasioni per Lucia era più facile ospitare i suoi familiari in teatro. La forza del destino, per esempio, sarà anche un’opera che gode ancor oggi di maligna fama, ma nonna Leonilde e zia Giovannina la canticchiavano con una leggerezza che poteva essere soltanto ricollegata al ricordo dell’infanzia.
Leonilde vide due guerre mondiali, ma di sicuro quella che maggiormente incise sulla sua esistenza fu la prima, che portò con sé, insieme con gli americani che venivano ad aiutarci, la terribile epidemia di influenza spagnola. Quella influenza si portò via mamma Lucia. Papà Giuseppe invece si salvò, forse perché, questa la teoria di zia e nonna, perse tanto sangue dal naso, e con quel sangue scaricò il feroce morbo.
Le due ragazzine, al contrario, dall’epidemia non furono nemmeno sfiorate. Anzi, per tutta la vita non conobbero il fastidio di una febbre o di un comune malanno. La sola volta che vidi nonna nel letto, fu quando, già avanti con l’età, cadde da un tavolo sul quale era salita, benedetta donna!, per spolverare un lampadario, e si ruppe un femore.
Quando le due sorelle si incontravano – per una serie di contorte circostanze, nonna era finita a vivere a Salerno, Giovannina a Roma - chiacchierando tornavano alla loro infanzia. Immancabile, in quelle occasioni, saltava prima o poi fuori l’attribuzione della loro incrollabile salute a “l’uomo della vacca”. Tutte le mattine, infatti, passava sotto la loro casa di Napoli, un contadino che conduceva una mucca, dalla quale per un soldo ti mungeva un bicchiere di latte. Mamma Lucia, dicevano, su quel bicchiere di latte era inflessibile, e doveva essere stato proprio quel latte “sporco”, altro che pastorizzazioni, a costruire la loro invalicabile barriera immunitaria.
Fatto sta, che la spagnola si portò via mamma Lucia nel fulgore degli anni e della carriera, e dopo poco tempo papà Giuseppe, detto ovviamente Peppino, volle risposarsi con una loro parente, che aveva solo due anni più di nonna, la diciottenne Costanza. La cosa era per Leonilde inaccettabile! Così decise, carattere mite ma inflessibile, di andarsene a Roma in casa della zia di cui portava il nome, la quale aveva sposato un nobile signore della capitale. Fu felicemente accolta e lì rimase. Il nobile zio acquisito, era proprietario di alcuni cinema a Roma. Le sere si passavano lì, tra film, chiacchiere, spumoni e risate, e in uno di quei cinema, ormai ventiduenne, Leonilde conobbe un giovane messinese di due anni più giovane di lei, Antonio, detto Totò. Anche Totò si era dovuto trasferito a Roma per una serie di vicissitudini familiari, sia pur di diversa natura, ed era diventato ufficiale della Milizia.
Contro l’iniziale volere della madre di lui, che non vedeva di buon occhio un matrimonio con una donna più grande, Leonilde e Antonio si sposarono, ebbero sei figli, di cui due morti prematuramente, affrontarono un’altra guerra, le mille traversie di ciascuna vita, e alla fine, tra gli altri nipoti, si ritrovarono sulle ginocchia… il sottoscritto.
Sottoscritto che bene di testa non è mai stato. Ero il solo, infatti, una volta scoperta la storia, a non farle gli auguri il 22 di ottobre per quel suo fasullo compleanno, arrabbiandomi e non capendo come tutti gli altri potessero partecipare – vilmente a mio parere – a quella farsa andata in scena fin dal suo primo anno di vita. Io gli auguri glie li facevo nel giorno giusto, e nonna ne rideva compiaciuta.
Sui documenti di Leonilde Grauso – in origine Kraus, poi cambiato sotto regime fascista – era scritto che aveva visto la luce del cielo di Napoli il giorno 22 ottobre. Ma l’aveva davvero vista quella splendida luce?
C’era all’epoca una norma – non credo esista ancora - per la quale se non andavi subito a dichiarare la nascita di un bimbo, pagavi una sanzione. Nonno Peppino, così narra la leggenda famigliare, non era un uomo di manica larga, anzi pare fosse abbastanza… tirchio.
Il giorno 20 di ottobre, quando in verità Leonilde Grauso venne al mondo, suo padre Giuseppe non poté uscire di casa, nessuno poté uscire di casa, perché il Vesuvio, in quei giorni, “pioveva cenere”. Il cielo, racconta la storia famigliare, era un unico tappeto grigio, e nonna venne alla luce… senza vedere la luce.
Come avrebbe fatto, dunque, nonno Peppino a registrare per tempo la nascita della sua prima figlia evitando la sanzione? Semplice: attese, finché la pioggia grigia si placò, poi corse all’ufficio comunale e senza colpo ferire dichiarò che la sua bambina, Leonilde Grauso, di Giuseppe e Lucia Brizzi era nata… due giorni dopo, il 22 ottobre.
Papà Vesuvio tenne quella bimba per due giorni al caldo sotto la sua coltre grigia, forse volendole insegnare fin da subito che: “la vita non è soltanto sole”. Leonilde, penso talvolta, evidentemente apprese subito la lezione, la sua vita fu dura, come quella di tanti altri, ma certamente, lo ricordo bene, non perse mai la leggerezza regalatale da quella pioggia di cenere che segnò la sua venuta al mondo, non perse mai il sorriso.   





giovedì 19 ottobre 2017

L'EUROPA VERA, L'EUROPA FALSA (UN MANIFESTO DA LEGGERE)

"1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.
2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa." (...)
Così inizia un interessantissimo manifesto, La dichiarazione di Parigi - Una Europa in cui possiamo credere, pubblicato da un gruppo di importanti intellettuali europei, francesi, inglesi, ungheresi, tedeschi... i cui nomi sono tutti in calce, e che vi invito a leggere nella versione italiana. Ancora una volta dobbiamo ringraziare Roberto Buffagni per averlo divulgato sui social (e forse anche tradotto... non so). Il pregio, a mio vedere, di questo manifesto, che mette in discussione la visione della Unione Europea quale futuro dei popoli del nostro continente, contrapponendo una idea di "Europa vera" con quella di una "Europa falsa", come le definiscono gli autori basandosi sua una disamina storico-filosofica, culturale, concettuale, artistica, è la chiarezza espositiva. Si potrà essere o non essere d'accordo con loro - io lo sono quasi totalmente - ma non si può non riconoscergli il pregio della nettezza di pensiero e di enunciazione. Nettezza che per forza di cose si incastra perfettamente con il concetto di semplicità, intesa come punto di arrivo, come sintesi, come elaborazione di una serie di questioni e di pensieri complessi.
Diceva Eduardo De Filippo che "la recitazione naturale è la cosa più costruita e difficile che ci sia", la sua semplicità era il punto di arrivo di un percorso lungo, faticoso, elaborato. Peccato che oggi, in troppi confondano semplice con facileFacile, non ci interessa. Almeno se non decidiamo che... Nun voglio fà niente.
Buona lettura.PS - vi rimetto il link: https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

giovedì 12 ottobre 2017

LA TV DELLA MALEDUCAZIONE

Penso che i pubblicitari siano la genia peggiore che potesse partorire questo Paese.
Pardon, ho sbagliato: questo mondo.
Al minuto 5:00 di questo meraviglioso video
potrete sentire la sora Lella, che si scusa con i telespettatori perché per impastare la carne trita con l'uovo, con la quale andrà poi a riempire dei peperoni, usa le mani.
Sottigliezze e raffinatezze della buona educazione di un tempo, che sta andando sempre più fuori moda (per usare un eufemismo). E se vogliamo riconoscere un principale colpevole, questo è proprio la televisione.
Dal 1954, anno della sua nascita nel nostro Paese, la tv ha sempre svolto, ponendoselo come fondamentale obiettivo quello di unificare gli italiani, nella lingua, nella cultura, nell'esercizio democratico e politico, nella socialità, nella coesione di un intero popolo che, era bene evidente, fino a quel momento non aveva conosciuto una coesione vera se non quella imposta dall'alto dal regime dittatoriale.
La buona educazione, e la divulgazione di un comune sentire e modo di comportarsi, non era soltanto... questione di etichetta, ma svolgeva una subliminale funzione nel concreto muoversi dell'ascensore sociale. Perché le classi conoscessero una vera integrazione, non bastava soltanto che l'operaio facesse studiare i figli, occorreva che apprendesse buona regole di comportamento, regole condivise, e soprattutto regole indirizzate verso l'alto. Saper stare a tavola è sempre stato segno distintivo del signore, insegnare ciò ai propri figli era dunque importante quanto il ritrovarseli laureati in legge o ingegneria.
Curiosamente, a riprova di quanto sostengo, le classi più agiate, le ritrovammo in contrapposizione a tali dettami di buon comportamento. In decine di film dell'epoca possiamo vedere nobili che allegramente si passano il bicchiere o usano le mani per mangiare... Ma non basta: Giuseppe Patroni Griffi diceva che nelle case veramente nobili "la roba da mangiare si deve buttare!". Intendendo due cose: era il segno distintivo del fatto che il signore poteva farlo - il povero ovviamente no - e che il cibo non consumato veniva regalato quale mancia ai meno abbienti. Ed in quest'ottica, il buon Peppino, Barone di Faivano, considerava i nuovi ricchi, come gli Agnelli, dei veri e propri parvenu. Alla notizia che "l'avvocato" era andato a festeggiare i suoi 60 anni a New York, il Maestro si mostrò profondamente indignato: "Ma tu che puoi, fai aprire uno dei bellissimi castelli della tua terra, Stupinigi per esempio, e invita il mondo, mostrandogli le meraviglie del tuo paese".
Ma altro che "la roba di deve buttare", il nuovo ricco... mangiava poco. Mangiar poco era il segno distintivo della nuova "nobiltà" e della nuova etichetta. Altro che timballi del Gattopardo!
Alla distanza, il risultato sono i signori chef che ti mettono due ravioli nel piatto o venti grammi di carne, ovviamente al prezzo di 60 leuri a portata! Roba che viene da chiedersi: "ma che ho fatto di male?!".
In sintesi, la buona educazione ha ribaltato i suoi parametri, fondandosi oltre tutto su di un concetto, in nome dello stare insieme e dell'allegria, tutto si può fare.
E qui, come cavallette, intervengono i pubblicitari, che in messaggi fulminei divulgano una modalità di comportamento che scardina qualsiasi certezza consegnataci dai nonni: accarezziamo il cane mentre siamo a tavola, il gatto ci cammina sul piano lavoro della cucina, assaggiamo al cucchiaio di legno che usiamo per cucinare, infiliamo le forchette con cui mangiamo nei piatti di portata (che regolarmente sono sprovvisti di loro proprie posate), afferriamo fette di prosciutto con le mani...
Ecco, andate al 30'' di questa schifosa pubblicità
Arriva un piatto di prosciutto a tavola. Ci sono le nonne, le zie, le mamme... Forchette da portata nel piatto non ce ne sono, il ragazzone si alza e allunga la mano dentro al piatto, prende una fetta e se la ficca in bocca, davanti all'aria divertita delle altre commensali.
Mio nonno mi avrebbe staccato una mano, per mille motivi: prima le signore, aspetta il tuo turno, che le hanno inventate a fare le forchette (a proposito: guardando le pubblicità delle acque minerali, non si sa perché abbiamo inventato i bicchieri!)... E per chiudere il cerchio, mia nonna mi avrebbe cacciato di tavola e i miei genitori avrebbero dato ragione a entrambi.
Ecco, prendete questo comportamento del ragazzo dello spot, lasciate che i vostri figli lo adottino come un comportamento normale, e poi mandateli a una bella cena di lavoro, o di gala, o a casa della sua promessa sposa che magari è pure nobile e ricchissima mentre voi in famiglia non lo siete e dunque la famiglia di lei già non lo vede di buon occhio. Arriva un bel piatto di prosciutto... e il ragazzone, opera! Perché per lui è normale, lo ha visto fare alla tv.
Fatemi poi sapere cosa dirà la famiglia di lei. Molti di voi so cosa mi diranno: "Ma lo fanno loro, li ho visti, i ricchi, i nobili, li ho visti che mangiavano il prosciutto con le mani, lo fanno loro!". Appunto, loro. Che quando vogliono, loro possono e voi no, oppure loro possono e voi forse, o voi anche, o voi sì. Così è, anche se non vi pare.

Ma a questo punto l'obiezione classica su certi comportamente è: "Siamo in famiglia!". Beh, vi svelerò un segreto: non esiste "siamo in famiglia". Non ho mai amato Aristotele, forse perché non l'ho mai capito, ma una cosa ricordo che diceva e la trovo sacrosanta: la virtù è una abitudine.
Se non si è normalmente allenati a certi comportamenti, come il cedere il posto in autobus ai più anziani, chiedere con gentilezza, non dire parolacce, non infilzare senza nemmeno chiedere il permesso la propria forchetta nel piatto dell'altro... il risultato sarà che poi, in certe situazioni, si farà uno sforzo enorme per fare attenzione a ciò che è corretto e a ciò che non lo è. E prima o poi si  commette l'errore, non il piccolo, innocente errore, ma quello marchiano.

Nessuno di noi è Lord Brummell, tutti commettiamo piccoli errori, anche la regina Elisabetta ne commetterà (ne sono certo), ma il risultato è che quella tv che era nata per darci il buon esempio si sta rivelando sempre più un concentrato di maleducazione, ristabilendo un distacco sociale che ci vorrano decenni per ricolmare.
C'erano un tempo trasmissioni che "insegnavano" il buon gusto nel vestire alle signore, oggi siamo pieni di reality nei quali il pacchiano, passando per divertimento, la fa da padrone.
Avete mai pensato a quante anime semplici pensino che quello sia il buon gusto?

PS - E per favore, non prendete esempio dai film americani: sono il popolo più maleducato che abbia mai visto in azione.