Osservate ora il vostro pensiero: alla più classica e sciocca delle domande, "A cosa stai pensando?", rispondiamo normalmente "A niente"; tutti sappiamo che la risposta è falsa in quanto stiamo sempre pensando a qualcosa, o quantomeno qualcosa sempre attraversa la nostra mente, che il pensiero corre, cammina, spazia da una immagine all'altra e restare concentrati ci costa una enorme fatica.
Da ultimo, osservate la voce: quando vogliamo ottenere un certo suono, preciso, indiscutibile nel suo effetto, mirato a una qualsivoglia esternazione di pensiero e/o sentimento, tendiamo naturalmente a controllarlo, a controllare l'emissione della voce; dico "naturalmente" poiché lo facciamo anche senza esserne consapevoli: se vogliamo sgridare nostro figlio, se vogliamo spiegargli con calma dove ha sbagliato, se vogliamo fare una richiesta a qualcuno senza fraintendimenti...
Quella che Barba propone è davvero una esperienza elementare ma che ci dice chiaramente una verità: noi siamo in un costante disequilibrio, in una costante instabilità, in un perenne movimento.
Nel lavoro attoriale, l'osservazione di questa verità è punto di partenza fondamentale per costruire la propria capacità di concentrazione, deducendo che l'elemento fondamentale della attività attoriale è il controllo. Anche quando "lasciamo andare" è perché sentiamo che la nostra espressività sta perfettamente correndo su di un unico e preciso binario. La "perdita del controllo" è un realtà un inganno, subordinato a una precisa costruzione precedentemente fatta.
Nello stesso testo, Barba affronta il problema dell'energia e del fascino.
Se ne deduce, alla fine, che il fascino non è una dote innata ma una risultante.
Osserviamo per un momento l'etimologia: fasciare, cioè avvolgere, e fascino, maleficio, amuleto, potenza ti attrazione.
Ma sopra tutto il maestro italo-danese si chiede cosa sia l'energia, questa benedetta energia di cui tanto sempre sentiamo parlare e non più solo in teatro.
Il discorso di Barba è realmente complesso, ma di assoluta efficacia. E parte da una asserzione determinante: "Per l'attore l'energia è un come. Non un che cosa. Come muoversi. Come restare immobili. Come mettere in visione la propria presenza fisica e trasformarla in presenza scenica, e quindi in espressione. Come rendere visibile l'invisibile: il ritmo del pensiero. Eppure per l'attore è molto utile pensare questo come alla stregua di un che cosa, d'una sostanza impalpabile che può essere manovrata, modellata, sfaccettata, proiettata nello spazio, assorbita e fatta danzare all'interno del corpo. (...) Avere energia per un attore vuol dire sapere come modellarla.", ed aggiunge una meravigliosa frase di Louis Jouvet: "L'attore è un empirico che sfocia nel pensiero (...) L'attore pensa per una tensione di energia."
E ancora: "Ciò che deve interessarci è il modo in cui questo processo biologico della materia vivente diviene pensiero, è rimodellato, e messo-in-visione per lo spettatore". Sintetizzando, questa benedetta energia è fondamentalmente il pensiero che spinge dall'interno il corpo-mente verso la sua espressività, come - e usiamo lo stesso esempio del Maestro - il pollice di uno scultore che spinge sulla materia per modellarla.
Insiste Barba anche su di un altro punto: non è la grande quantità di energia a fare la grande performance ma la sua gestione oculata a seconda delle necessità.
Noi, dunque, siamo naturalmente in disequilibrio; attiviamo il controllo perché il nostro corpo-mente mostri quel che abbiamo deciso debba essere la nostra giusta espressione; e tale controllo è attivato su pensiero, corpo, voce; "miriamo l'obiettivo", e in questo nostro "mirare" è come se scagliassimo una freccia, un fascio luminoso, emozionale, che vogliamo giunga sullo spettatore, avvolgendolo, cioè "fasciandolo". Il fascino non è null'altro che il prodotto di questo percorso che ho espresso sinteticamente. Perfettamente sintetizzava la splendida insegnante di Dizione Anna Maria Giromella (per tutti noi "la Ninni") dell'Accademia d'Arte Drammatica "S. D'amico" quando diceva che "il fascino è concentrazione", in una sintesi che saltava tutti i passaggi ma a mio vedere coglieva l'essenza del percorso.
C'è un altro elemento che concorda a attuare il percorso e ne è al contempo il risultato felice: il Tempo.
Ciascuno di noi è portatore di un proprio "Tempo interiore"; questo "Tempo" va, da parte dell'attore, determinato, e determinato in azione scenica. Pensiero-Corpo-Voce (in qualsivoglia ordine), debbono tendere alla consustanzialità perché l'interprete divenga "Tempo". Se egli non è "Tempo" non può rinviare sull'uditorio il "Suo Tempo", non può "imporre" il suo tempo.
Questa idea di un "imposizione del tempo" non deve sconcertare: non è un atto violento, ma un atto necessario, che ha bisogno della giusta energia, rifacendoci a Barba.
Il
Tempo, infatti, è per la nostra percezione quotidiana un fattore profondamente fluttuante
e inafferrabile, come il pensiero. Per
restituire un senso, un barlume, una rifrazione della Verità, è necessario
segnare l’azione artistica in un tempo assoluto, in un tempo che somigli in
qualche modo alla nostra idea di assoluto, di assenza di tempo, di presente
costante e immutabile.
“Imporre il Tempo” significa, in tal senso, estirpare
lo spettatore dalla sua percezione del tempo quotidiano, fluttuante, e
trascinarlo, trasportarlo in un Tempo unico, unico e soprattutto comune sia
all’esecutore che all’ascoltatore. “Imporre il Tempo” è fornire l’illusione di
essere in quel presente costante e immutabile necessario alla percezione di una
qualsivoglia verità, necessario dunque al Teatro.
Spero fin qui di essermi spiegato, per quanto il discorso sia davvero per addetti ai lavori. Se vi interessa, ancora vi rinnovo l'invito alla lettura del testo (e degli altri testi) di Eugenio Barba, così come sempre interessantissime restano le letture degli altri grandi teorici del teatro del '900, ad oggi insuperate.
Tutto questo preambolo, però, era necessario alla esplicitazione di un ulteriore mio pensiero, verificato negli anni, sia nella pratica personale, che nell'insegnamento.
La necessità del controllo, che non è certo starsene bloccati come stoccafissi (spero sia chiaro), si nutre costantemente proprio del naturale disequilibrio, al punto che noi stessi possiamo ripetutamente alimentarlo. Come? Provocando il disequilibrio.
Fin troppo facile comprendere che l'azione recitativa non è naturale: non parlate come nella vita, non vi muovete come nella vita... Anche lo spettatore lo sa. Quello in cui crede non è "la vita", ma "il Teatro", che si compendia nella "azione dell'attore".
Periodicamente all'interno della nostra performance, o costantemente, noi possiamo alimentare quel disequilibrio al fine di condurci verso la meta prefissa, possiamo cercare, provocare, indurci la scomodità.
"Sentiti comodo" è una degli inviti più sbagliati che si possano fare a un attore. Starsene comodi, nella parte o in una semplice posizione scenica, sgonfia la tensione, riavvicina l'attore alla sua quotidianità, lo incanala naturalmente "nella mollezza", lo spinge fuori dalla azione scenica, e dunque dal Teatro.
L'Attore de-ve stare scomodo.
D'altronde, scomodo è il suo modo di parlare, scomodo è il suo modo di muoversi, scomodo è il suo modo di pensare, scomoda è la situazione scenica... Una scomodità che se alimentata artatamente, accresce la necessità del controllo, la rigenera, rafforza, talvolta riavvia, l'azione teatrale, terrà viva "la tensione", come una dinamo rialimenterà l'energia.