mercoledì 26 aprile 2017

ATTORE, DEVI STARE SCOMODO!

Nel suo "La canoa di carta", Eugenio Barba invita a fare un semplicissimo esercizio: ponetevi in piedi in posizione comoda e rilassata, chiudete gli occhi e osservate il vostro corpo; scopo dell'esercizio è la ricerca della totale immobilità. Si potrà osservare che per quanto si cerchi di restare fermi, assolutamente immobili, il corpo compie autonomamente dei micromovimenti necessari al persistere dell'equilibrio. Da questa semplice esperienza si potrà dedurre che il corpo non è naturalmente portato per la immobilità.

Osservate ora il vostro pensiero: alla più classica e sciocca delle domande, "A cosa stai pensando?", rispondiamo normalmente "A niente"; tutti sappiamo che la risposta è falsa in quanto stiamo sempre pensando a qualcosa, o quantomeno qualcosa sempre attraversa la nostra mente, che il pensiero corre, cammina, spazia da una immagine all'altra e restare concentrati ci costa una enorme fatica.
Da ultimo, osservate la voce: quando vogliamo ottenere un certo suono, preciso, indiscutibile nel suo effetto, mirato a una qualsivoglia esternazione di pensiero e/o sentimento, tendiamo naturalmente a controllarlo, a controllare l'emissione della voce; dico "naturalmente" poiché lo facciamo anche senza esserne consapevoli: se vogliamo sgridare nostro figlio, se vogliamo spiegargli con calma dove ha sbagliato, se vogliamo fare una richiesta a qualcuno senza fraintendimenti...

Quella che Barba propone è davvero una esperienza elementare ma che ci dice chiaramente una verità: noi siamo in un costante disequilibrio, in una costante instabilità, in un perenne movimento.
Nel lavoro attoriale, l'osservazione di questa verità è punto di partenza fondamentale per costruire la propria capacità di concentrazione, deducendo che l'elemento fondamentale della attività attoriale è il controllo. Anche quando "lasciamo andare" è perché sentiamo che la nostra espressività sta perfettamente correndo su di un unico e preciso binario. La "perdita del controllo" è un realtà un inganno, subordinato a una precisa costruzione precedentemente fatta.

Nello stesso testo, Barba affronta il problema dell'energia e del fascino.
Se ne deduce, alla fine, che il fascino non è una dote innata ma una risultante.
Osserviamo per un momento l'etimologia: fasciare, cioè avvolgere, e fascino, maleficio, amuleto, potenza ti attrazione.
Ma sopra tutto il maestro italo-danese si chiede cosa sia l'energia, questa benedetta energia di cui tanto sempre sentiamo parlare e non più solo in teatro.
Il discorso di Barba è realmente complesso, ma di assoluta efficacia. E parte da una asserzione determinante: "Per l'attore l'energia è un come. Non un che cosa. Come muoversi. Come restare immobili. Come mettere in visione la propria presenza fisica e trasformarla in presenza scenica, e quindi in espressione. Come rendere visibile l'invisibile: il ritmo del pensiero. Eppure per l'attore è molto utile pensare questo come alla stregua di un che cosa, d'una sostanza impalpabile che può essere manovrata, modellata, sfaccettata, proiettata nello spazio, assorbita e fatta danzare all'interno del corpo. (...) Avere energia per un attore vuol dire sapere come modellarla.", ed aggiunge una meravigliosa frase di Louis Jouvet: "L'attore è un empirico che sfocia nel pensiero (...) L'attore pensa per una tensione di energia."
E ancora: "Ciò che deve interessarci è il modo in cui questo processo biologico della materia vivente diviene pensiero, è rimodellato, e messo-in-visione per lo spettatore". Sintetizzando, questa benedetta energia è fondamentalmente il pensiero che spinge dall'interno il corpo-mente verso la sua espressività, come - e usiamo lo stesso esempio del Maestro - il pollice di uno scultore che spinge sulla materia per modellarla.
Insiste Barba anche su di un altro punto: non è la grande quantità di energia a fare la grande performance ma la sua gestione oculata a seconda delle necessità.

Noi, dunque, siamo naturalmente in disequilibrio; attiviamo il controllo perché il nostro corpo-mente mostri quel che abbiamo deciso debba essere la nostra giusta espressione; e tale controllo è attivato su pensiero, corpo, voce; "miriamo l'obiettivo", e in questo nostro "mirare" è come se scagliassimo una freccia, un fascio luminoso, emozionale, che vogliamo giunga sullo spettatore, avvolgendolo, cioè "fasciandolo". Il fascino non è null'altro che il prodotto di questo percorso che ho espresso sinteticamente. Perfettamente sintetizzava la splendida insegnante di Dizione Anna Maria Giromella (per tutti noi "la Ninni") dell'Accademia d'Arte Drammatica "S. D'amico" quando diceva che "il fascino è concentrazione", in una sintesi che saltava tutti i passaggi ma a mio vedere coglieva l'essenza del percorso.

C'è un altro elemento che concorda a attuare il percorso e ne è al contempo il risultato felice: il Tempo.
Ciascuno di noi è portatore di un proprio "Tempo interiore"; questo "Tempo" va, da parte dell'attore, determinato, e determinato in azione scenica. Pensiero-Corpo-Voce (in qualsivoglia ordine), debbono tendere alla consustanzialità perché l'interprete divenga "Tempo". Se egli non è "Tempo" non può rinviare sull'uditorio il "Suo Tempo", non può "imporre" il suo tempo.
Questa idea di un "imposizione del tempo" non deve sconcertare: non è un atto violento, ma un atto necessario, che ha bisogno della giusta energia, rifacendoci a Barba. 
Il Tempo, infatti, è per la nostra percezione quotidiana un fattore profondamente fluttuante e inafferrabile, come il pensiero. Per restituire un senso, un barlume, una rifrazione della Verità, è necessario segnare l’azione artistica in un tempo assoluto, in un tempo che somigli in qualche modo alla nostra idea di assoluto, di assenza di tempo, di presente costante e immutabile. 
“Imporre il Tempo” significa, in tal senso, estirpare lo spettatore dalla sua percezione del tempo quotidiano, fluttuante, e trascinarlo, trasportarlo in un Tempo unico, unico e soprattutto comune sia all’esecutore che all’ascoltatore. “Imporre il Tempo” è fornire l’illusione di essere in quel presente costante e immutabile necessario alla percezione di una qualsivoglia verità, necessario dunque al Teatro. 

Spero fin qui di essermi spiegato, per quanto il discorso sia davvero per addetti ai lavori. Se vi interessa, ancora vi rinnovo l'invito alla lettura del testo (e degli altri testi) di Eugenio Barba, così come sempre interessantissime restano le letture degli altri grandi teorici del teatro del '900, ad oggi insuperate.
Tutto questo preambolo, però, era necessario alla esplicitazione di un ulteriore mio pensiero, verificato negli anni, sia nella pratica personale, che nell'insegnamento. 
La necessità del controllo, che non è certo starsene bloccati come stoccafissi (spero sia chiaro), si nutre costantemente proprio del naturale disequilibrio, al punto che noi stessi possiamo ripetutamente alimentarlo. Come? Provocando il disequilibrio
Fin troppo facile comprendere che l'azione recitativa non è naturale: non parlate come nella vita, non vi muovete come nella vita... Anche lo spettatore lo sa. Quello in cui crede non è "la vita", ma "il Teatro", che si compendia nella "azione dell'attore". 

Periodicamente all'interno della nostra performance, o costantemente, noi possiamo alimentare quel disequilibrio al fine di condurci verso la meta prefissa, possiamo cercare, provocare, indurci la scomodità
"Sentiti comodo" è una degli inviti più sbagliati che si possano fare a un attore. Starsene comodi, nella parte o in una semplice posizione scenica, sgonfia la tensione, riavvicina l'attore alla sua quotidianità, lo incanala naturalmente "nella mollezza", lo spinge fuori dalla azione scenica, e dunque dal Teatro. 
L'Attore de-ve stare scomodo
D'altronde, scomodo è il suo modo di parlare, scomodo è il suo modo di muoversi, scomodo è il suo modo di pensare, scomoda è la situazione scenica... Una scomodità che se alimentata artatamente, accresce la necessità del controllo, la rigenera, rafforza, talvolta riavvia, l'azione teatrale, terrà viva "la tensione", come una dinamo rialimenterà l'energia.

sabato 8 aprile 2017

IL GRANDE TORINO, LE MEMORIE CHE NON SI SPIEGANO.

Sono stato ieri sera a vedere un piacevole spettacolo al cinema teatro Agnelli di Torino: "Tesi di Laurea", prodotto da Assemblea Teatro, da un testo di Barbara Mastella, nella riduzione teatrale di Renzo Sicco, regia di Giovanni Boni, interpretato da Silvia Nati, Mattia Mariani, Angelo Scarafiotti, Roberta Fornier, Stefano Cavanna. Qui il link con altre informazioni, stasera (8 aprile) replicano al teatro di Rivalta.
Tema della narrazione Il Grande Torino, raccontato specificamente attraverso la vita di due dei suoi atleti: Aldo e Dino Ballarìn. Il primo fu uno dei pilastri della difesa di quella storica squadra, l'altro, di lui fratello, era uno dei portieri di riserva.
Uno schema di narrazione semplice ma efficace: venti anni dopo la tragedia di Superga, uno studente decide di scrivere la sua tesi di laurea su quella squadra e intervista le vedove dei campioni insieme agli altri due fratelli Ballarin.
Io sono nato nel 1965. Il grande Torino non c'era già più, era già leggenda, leggenda di una Italia che si ricostruiva dopo la terribile ultima guerra mondiale e si attaccava con le unghie e con i denti al suo orgoglio e a quegli eroi dello sport che tenevano alta la fede in un futuro possibile e migliore.
Coppi, Bartali... il Grande Torino... ma anche Toscanini, e la diatriba Tebaldi - Callas...
La squadra più forte del mondo, si diceva. Così ce l'ha consegnata la narrazione, a noi piace pensarlo e nessuno saprà mai se è vero; ma non ha alcuna importanza.
Di certo, come in tutti i miti, la parabola di quella squadra, dalla sua costruzione, alla possente ascesa, fino alla fine tragica, ce la consegna come una icona della Storia nazionale.
Io sono nato nel 1965. Eppure, tutte le volte che sento le storie del Grande Torino, prima o poi mi commuovo. È accaduto anche ieri sera. E mi chiedo perché.
Forse perché la storia del Grande Torino me l'ha raccontata mio padre che orgogliosamente ricorda sempre che lui, aveva dodici anni, li ha visti giocare, a Salerno, nel primo campionato che quella Salernitana innovativa di Gipo Viani fece in serie A.
Papà, 81 anni, ripete ancora la formazione del Torino a memoria, e l'ho sentita tante di quelle volte che alla fine l'ho imparata anche io. Quando viene a Torino, chiede di essere portato su a Superga. Da quando poi abbiamo scoperto nei pressi della Basilica una buona trattoria... tutto mi mescola perfettamente, piacere dei ricordi e piacere dell'oggi.



La mia Salernitana porta la maglia granata. Simpatizzo per il Napoli nella nostra serie A, sono molto contento quando vince, ma solo quando vedo le maglie granata scendere sul verde del campo da gioco io mi emoziono.
Amo lo sport, il ciclismo ancora più del calcio, ma amo lo sport. E francamente non voglio interrogarmi sul perché, non voglio dare motivazioni intellettuali a quella che è solo una piacevole sensazione che nasce nei giorni in cui ero bambino, e seguivo le corse strepitose di Pietro Mennea (per me il campione dei campioni), le sfide tra Merckx e Gimondi e poi Moser Saronni, e il mito di Marc Spitz, e Cassius Clay, Rivera, Mazzola e Riva... fino a Marco Pantani; quanti ne sono passati nei miei occhi fino ai giorni nostri. E per una volta va dato un profondo ringraziamento alla televisione.
Dopo la tragedia di Superga, la Salernitana, che aveva all'epoca una maglia a strisce verticali bianche e celesti, adottò, come tante altre squadre italiane, la maglia granata. Il che, da quando vivo nella capitale sabauda, mi fa guardare sempre con simpatia al Torino: quando lo vedo mi pare di essere sempre un po' a casa.
Ieri sera, al teatro Agnelli, alla fine ci è stata fatta una piacevole sorpresa: c'era in sala un nipote di Ballarìn, venuto appositamente da Chioggia, città natale dei due calciatori; salito sul palco ci ha mostrato un vero e proprio cimelio: una delle nove maglie con cui Aldo Ballarìn giocò in nazionale. Quando questo nipote, di cui, mi scuso, non ho compreso il nome, è ridisceso in platea l'ho fermato - non potevo non farlo - e gli ho chiesto di toccare quella maglia. Da lontano mi pareva piccola piccola. Come ci poteva star dentro uno di quei colossi, mi chiedevo. E infatti piccola lo era. Ma mi ha spiegato il nipote che era di una lana particolare che si stendeva, quasi elastica, e fasciava il corpo del giocatore. "Mamma mia - ho pensato - se papà fosse qui e vedesse questo cimelio...". Io lo conosco, conosco il cinismo che la professione giornalistica lo ha costretto ad acquisire, sorriderebbe, al massimo un sospiro che indica gli anni passati, e poi tirerebbe dritto. Come fai a sapere che si è emozionato? Perché poi, in qualsiasi occasione, te lo ripete mille volte: "Maro', chella maglia 'e Bàllarin...".
Sì, perché lui ha sempre detto Bàllarin, e io così ero convinto che fosse; solo ieri sera ho scoperto la pronuncia veneta. Ma a papà non lo dico. Perché togliergli quella sua musica dalla testa, perché spostare la sua melodia: "Bacigalupo, Bàllarin, Maroso..."? Se le cose, nel nostro cuore, si sedimentano in un modo, un motivo ci sarà, e non è sempre il caso di andarlo a cercare.
Io non ho mai visto il Grande Torino. Eppure fa parte della mia storia, delle mie memorie, mi ricollega a un passato non vissuto ma raccontato, il mio vissuto sono quei racconti, e dietro e dietro ancora, i ricordi di coloro che hanno vissuto o hanno sentito raccontare.
Ci sono volte nelle quali dobbiamo strenuamente, fino allo sfinimento interrogarci per capire, altre in cui credo sia obbligatorio lasciar perdere. In qualche angolo del mio cuore c'è e ci sarà sempre la voce di papà che ripete: Bacigalupo, Bàllarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola...
E va bene così. Punto.

 

mercoledì 5 aprile 2017

ROBOT CONTRO OPERAI: IL NUOVO TERRORE LIBERISTA!

La storiella dei robòt che in un futuro non lontano prenderanno il posto dei lavoratori riducendo drasticamente i livelli occupazionali, è usata, a mio vedere, in modo terroristico e strumentale, e trovo, detto con estrema franchezza e libertà linguistica, che sia una emerita stronzata! 
Per un semplicissimo motivo: la tecnologia si sviluppa, cambia ed è sempre cambiata nel corso dei secoli, ma assieme ad essa sono anche cambiati i lavori; anzi, se ne sono prodotti di nuovi; anzi - provo a dirlo ancor meglio - se ne sono perduti alcuni e se ne sono acquisiti altri. 

A Napoli esiste il vico Scassacocchi, nome folkloristico, ma con un senso antico: era (ed è) talmente stretto che se ci entrava una carrozza, un cocchio appunto, questo si scassava. E se il cocchio si scassava, pur non entrando nel famigerato vico, c'era bisogno di chi lo riparava. 
Poi un giorno qualcuno ha inventato l'automobile! E pian piano i riparatori di cocchi hanno dovuto reinventarsi in altre occupazioni. 

Stando quotidianamente a contatto con le giovani generazioni, noto spesso la loro difficoltà a immaginare il mondo diverso da come lo conoscono. Sono nati già col telecomando in mano? Bene, hanno come la convinzione che "il telecomando" sia sempre esistito. Quando glielo fai notare, sbarrano gli occhi in uno stupefatto: "Uh, è vero!". Questo accade con gli oggetti, non vi dico quando si entra nel campo degli usi, costumi, morale, espressione di sentimenti... che sono profondamente mutati nel corso dei secoli, e, per esempio, in un Goldoni o in un Molière, ci si deve immaginare che per un matrimonio la volontà del padre contava più della volontà della ragazza, o che la pratica di arrivare vergini all'altare era la norma almeno fino agli anni '60. 
Per una volta non è propriamente una deficienza dei giovani: anch'io, figlio della televisione, ho dovuto un giorno recuperare il concetto che nell'infanzia di mio padre c'era solo la radio, e in quella di mio nonno... manco la radio.
Cambia tutto, insomma, e noi ci riadattiamo, normal-mente. 

Tornando ai robòt, cari i miei sei lettori, pensate: prima che inventassero le automobili non esistevano i meccanici. E non esistevano nemmeno gli elettrauti, e i gommisti... Quanto diamine è strano il mondo! Addirittura, prima che inventassero i computer non c'erano i riparatori degli stessi, né i programmatori... 
Avete certamente capito, non credo di dover continuare. 

Qualcuno sicuramente starà pensando "ma per fabbricare l'automobile ci vuole chi la costruisca e domani al posto di un operaio ci sarà un ròbot". Vero, verissimo, anzi auspicabile per liberare l'uomo da un po' di fatica. Ma il robòt chi lo costruirà? "Altri ròbot!" risponderanno sempre quelli (che ovviamente pronunciano all'inglese). Vero, verissimo, anzi auspicabile per liberare l'uomo da un altro po' di fatica. Ma risalendo la piramide, da qualche parte ci dovrà sempre e per forza essere un uomo che progetti, controlli, ripari, sostituisca... A meno che nel vostro futuro immaginario non ci sia Matrix, e allora è inutile che stamo a parlà! 

Verso la fine del '500, causa grande crisi economica che investì l'intera Europa, quindi pure gli Stati della penisola italica, i nostri Principi dell'epoca allontanarono dalle loro corti quelle compagnie dei comici che, stabili a palazzo e totalmente mantenute, avevano il compito di dilettarli assieme ai loro ospiti. Tagli alla spesa (quasi pubblica)!  
Sembrò un disastro, e invece, tra il 1580 e il 1630, i comici dovendo totalmente reinventarsi, gettarono le basi del teatro professionistico per come ancora lo conosciamo. Non basta: siccome è proprio alla fine del '500 che nasce e comincia a svilupparsi l'Opera lirica... beh, molti attori, avendo ottima disposizione per il canto, si rivolsero al nuovo genere. In sostanza, la storia del cocchio e dell'automobile. 

A questo punto, visto che è facile capire che la storia del robòt che lascia a piedi l'operaio non regge, viene da chiedersi perché questa "teoria" si stia insinuando in maniera strisciante e progressiva nel dibattito. 
La sensazione è che venga propinata con intento terroristico: "perderete il lavoro... perderete il lavoro... farete la fame... farete la fame..."; oltre tutto, nel raccontino si omette sempre un elemento fondamentale: i lavori sono cambiati nel corso del tempo e continueranno a cambiare, quelli che persistono sono i ruoli, la presenza cioè di un datore di lavoro e di un dipendente, il vecchio rapporto, quindi, padrone-operaio. 

Un bel giorno Bill Gates se n'è venuto fuori con la proposta di tassare i robòt
Diamine, tutti a pensare, come è umano lei che prende a cuore le sorti dei poveri lavoratori. 
Ne siamo proprio sicuri?

La teoria per cui i migranti vengano fatti arrivare perché sono mano d'opera a basso costo, e la loro presenza sia funzionale all'abbassamento di salari e diritti dei lavoratori, è ben nota: "Se non vuoi farlo tu per questa cifra, c'è uno appena arrivato dall'Africa disposto a farlo a meno"; panico tra i lavoratori, i quali in nome della sopravvivenza loro e della loro famiglia, accettano la compressione di salario e diritti. 

C'è un problema: la questione migranti, solleva un mare di discussioni, non solo tra coloro che vogliono ancora saggiamente difendere i diritti degli operai e dei contadini, ma anche nelle frange più deboli delle società che si sentono poco sicure di fronte ai fenomeni crescenti di delinquenza (indipendentemente se siano i migranti o no a delinquere); e poi c'è quella politica, che su questo trova un "terreno fertile di propaganda"; e poi c'è la storia dei 35€ al giorno per mantenere i migranti, e il rafforzamento della idea del "prima gli italiani", ecc. ecc.
Prendo il problema solo dal punto di vista nostrano, ma si sa che la questione immigrazione ha un grande peso in tutti i paesi occidentali, dagli USA all'Olanda, dalla Gran Bretagna alla Germania. 

Insomma, il migrante - pensa il padrone - ci fa comodo, ma ci crea anche un mare di problemi. Il "terrore" generato dalla sua presenza sul territorio, non basta più per controllare il lavoratore. 
E allora, ecco la geniale idea: o accetti le riduzioni di salario e diritti o al tuo posto ci va un ròbot, anzi il ròbot è già pronto e stiamo per metterlo in funzione. 

Ma che comodo il ròbot: cade la polemica sui 35€ al giorno, crolla l'idea del "prima gli italiani", mette in un angolo il sindacato, dissolve la questione di ordine pubblico, non mina la sicurezza dei cittadini, non ingolfa i centri di accoglienza, le periferie, non bisogna trovare un posto dove tenerlo fino a identificazione... non mangia, non fuma, non va in bagno, non ha bisogno di tempo libero... produce e tace! 

Alla fine, il terrore che il ròbot può spargere è di natura perfetta, e se penso pure di tassarlo, ecco che si presenta davvero come il concorrente ideale per quel dannato operaio che non vuole accettare condizioni da cinese!
Tombola!

E anche i nostri uomini in politica (nostri, cioè di coloro che gestiscono il vero potere) non avranno più una miriade di seccature, non dovranno più perdere tempo a giustificare le loro scelte con decine di favolette buoniste, e potranno fare pienamente i nostri (sempre di quelli) interessi. 
Compito della Politica, tra gli altri, sarebbe quello di trovare soluzioni per la sana convivenza tra due ruoli, datore di lavoro e operaio, nel costante mutare delle situazioni, così che il padrone abbia il suo giusto guadagno, ma anche l'operaio l'abbia nella sicurezza di non essere sfruttato o diventare addirittura uno schiavo; il robòt libera il politicante da questo compito, con il vantaggio di potere ulteriormente colpevolizzare il lavoratore: "Non vorrete mica fermare il progresso tecnologico?"
Il ròbot è la ricetta perfetta all'interno della ricetta neoliberista!
Ari-tombola! Tombola eterna! 

Resterà solo un problema: i ròbot non comprano, gli operai rimasti senza lavoro non comprano... chi consumerà tutto quel che i robòt produrranno? 
Vedremo in futuro cosa si inventeranno per dirci ancora che la colpa è nostra se l'economia non gira. 
Io, pazientemente, attendo. Nel mentre mi godo lo spettacolo della caduta dell'impero. 

Mauro Scardovelli, perché questa economia fa male alla nostra psiche

Mauro Scardovelli, giurista, psicoterapeuta, musicoterapeuta, fondatore della associazione Aleph, è un personaggio estremamente interessante. Dobbiamo ancora una volta ringraziare il canale Byoblu di Claudio Messora per avercelo fatto conoscere. 
Non voglio aggiungere molte cose e vi invito a seguire questo video, nel quale, fondamentalmente, lo psicoterapeuta ci racconta per quali motivi l'economia distorta e competitiva dei nostri tempi metta dolorosamente in competizione gli uomini anche all'interno delle loro famiglie, e come tutto questo si rifletta sull'inconscio singolo e collettivo. 
Buona visione