mercoledì 27 settembre 2017

IN MORTE DEL GIORNALISMO

(Questo post nasce dalla conversazione con un amico, un giornalista vero e serio, che mi ha confessato di avere ormai difficoltà a fare il proprio mestiere, perché le notizie, i fatti, che porta al suo giornale, affinché siano pubblicati, paiono non interessare, non tanto i lettori, quanto la direzione: "Ormai le notizie le scrivo su Facebook", mi ha detto amareggiato.
Io amo il giornalismo, non fosse altro perché amo mio padre, ed ho un profondo rispetto per quella che è stata una carriera semplice e onorata. Colleghi come lui, oggi in pensione, ce ne sono ancora, ma vivono relegati nell'angolo. A costoro, alla loro strenua battaglia giornaliera, va il mio sincero affetto, con la speranza che mie riflessioni possano sostenerli e forse aiutarli a capire, essendo io occhio esterno, perché le cose non vanno più come dovrebbero andare...)


Poche parole soltanto per raccontarvi un pezzo di tutto quel che non va.
Mio padre, oggi in pensione, è stato un bravo giornalista de Il Mattino (di Napoli!). A rileggere oggi gli articoli suoi e dei colleghi, fa davvero una certa impressione. Sembra di avere sotto il naso dei lunghi telegrammi infarciti di notizie, asciutti, essenziali, e pure senza emozioni.
Per farvi un esempio, un articolo aveva all'incirca questo tono: "Il cadavere di un uomo di 42 anni è stato ritrovato questa mattina alle h 6,40 in via Vinciguerra, all'altezza del ristorante Stella. Il soggetto, per quanto risulta dalle prime indagini dei Carabinieri guidati dal capitano Antonio Forcella, si chiama Gaetano Iovine, commerciante, proprietario di un negozio di antichità sito nella stessa via, ed è stato freddato da quattro colpi di arma da fuoco al torace, di cui uno ha colpito in pieno il cuore provocandone l'immediato decesso. Lo Iovine risulta incensurato...", e così dicendo.
Papà mi ha ripetuto tante volte una cosa semplice: "I fatti subito, all'inizio, perché dopo venti righe la gente si è rotta le palle e passa ad altro", ed il suo grande vanto è sempre stato: "Je scrivo pe 'e pisciaiuole e i fruttaiuole" ("Io scrivo per i pescivendoli e i fruttivendoli"), intendendo - mi pare chiaro - che tutti devono poter capire, anche le persone più semplici.
Ora, prendete un articolo di oggi, ed è molto probabile che troverete una cosa più o meno così: "Lo hanno trovato riverso in una pozza di sangue, accasciato sul bordo del marciapiede, mentre con la mano sul volto cercava probabilmente di difendersi dal suo aggressore. Ad avvertire le forze dell'ordine è stato un passante, che solo per poco non ha incrociato gli assassini mettendo egli stesso a rischio la propria vita all'alba di un nuovo giorno di lavoro...", e non è raro incappare in pezzi che dopo le famose venti righe non ti hanno ancora fatto capire che caz... è successo!
Siamo passati dalla cruda esposizione dei fatti alla narrativa. Ma il giornalismo non ha molto a che vedere con la narrativa, anzi quasi nulla.
Racconta Hemingway che quando su suggerimento di Gertrude Stein decise di passare da fare il cronista a fare lo scrittore, impiegò mesi e mesi di pratica per liberarsi dallo stile giornalistico. La letteratura era altra cosa. Inutile sottolineare che vi riuscì. Mentre quasi mai vedo uno dei tanti giornalisti di oggi che improvvisamente si lanciano nella pratica del romanzo, riuscirvi, e questo credo dipenda dal fatto che loro sono convinti di avere consuetudine con la scrittura. Ma non è così.

Questa nuova tendenza del giornalismo nostrano alla narrazione più che al riferimento di fatti, si è cominciata, secondo me, ad avere negli anni '90, ed è esplosa con l'esplodere del web, motivandola con il fatto (sic) che essendoci nuove forme di comunicazione delle notizie, i giornali dovevano trovare "altre vie". Il corto circuito, però, lo ha dato proprio il web nel momento in cui ha spopolato questo nostro strumento, il blog, il diario, lo spazio libero del racconto che ha incamerato tutto e il contrario di tutto: dalla esposizione di notizie ai racconti erotici.
Appare a questo punto evidente che "inseguendo si perde" e forse i giornali, anche nelle loro forme on line, avrebbero dovuto continuare a proporre "telegrammi". Non sarà un caso se all'ultimo Macchia Nera Awards la Migliore testata giornalistica è risultata - guarda un po' - l'ANSA, l'agenzia di stampa che... passa quasi solo notizie.
Carmelo Bene diceva che "non si può informare sui fatti, ma solo informare i fatti". Capisco che per i più la frase suonerà strana. Eppure affronta un nodo cruciale della nostra comunicazione: l'impossibilità di afferrare la verità, soprattutto con le nostre parole.
Vi parrà strano, ma dire "Pasquale ha ucciso Nicola" è molto diverso dal dire "Nicola è stato ucciso da Pasquale". Voi chiederete: "Ma perché, il risultato è sempre che Nicola è morto!". Certo, ma la sostanza della esposizione si ribalta, perché poniamo il nostro accento, focalizziamo l'attenzione del lettore su di un soggetto invece che sull'altro. Nel primo esempio è molto probabile che il protagonista del nostro racconto sarà Pasquale, nel secondo Nicola.
Dunque, la frase di Bene ha senso pieno, perché non puoi vera-mente informare sui fatti, ma solo metterli in forma, dargli una forma, quindi: in-formare i fatti. Ed in tal ottica non ho nessun problema ad ammettere che anche lo sforzo di papà Gino e dei suoi colleghi aveva comunque dei limiti, anzi delle lacune, ma naturali lacune.

Se tutto si limitasse ad aver intrapreso un percorso di esposizione sbagliato, o poco efficace, il problema quasi non esisterebbe, poiché basterebbe ricambiare strada. Ma il "romanziere" ha per sua inconscia natura il desiderio di esporre il proprio e incontrovertibile punto di vista, la propria... OPINIONE. E questo ha mortalmente complicato le cose.
Nel vocabolario Treccani alla voce n° 3 di fatto trovate: 
3. a. Ciò che ha consistenza vera e reale, in opposizione a ciò che non è concreto, tangibile, sicuro. 
Nello stesso vocabolario, alla voce opinione si trova:
Concetto che una o più persone si formano riguardo a particolari fatti, fenomeni, manifestazioni, quando, mancando un criterio di certezza assoluta per giudicare della loro natura (o delle loro cause, delle loro qualità, ecc.), si propone un’interpretazione personale che si ritiene esatta e a cui si dà perciò il proprio assenso, ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale.

Ecco, la morte del giornalismo è tutta qui: nell'avere trasformato i fatti in opinioni e, soprattutto, le opinioni in fatti. Vi pare una affermazione forte? Può darsi, ma fate lo sforzo di seguire i quotidiani, o di osservare distaccata-mente i notiziari o i dibattiti tv (non quelli stile D'Urso, ovviamente), e vi accorgerete con facilità che ormai si fa di tutto pur di piegare i fatti alla propria convinzione interiore, per cui si appioppano etichette a destra e a manca, si dà del fascista o del nazista ad uno sulla base di non si sa quale fatto o semplicemente cogliendo nel calderone un unico fatto e portandolo come "prova scientifica" di una personale tesi. Avviene per tutti i grandi temi che oggi attraversano la nostra società, dall'immigrazione all'euro, dalla legittima difesa al fisco fino ai dati sulla economia.
"Si propone una interpretazione personale", come ci dice il Treccani, ma pur di far prevalere la propria convinzione interiore, come appunto un romanziere, si eliminano gli altri due punti che ho sottolineato: "mancando un criterio di certezza assoluta" e "ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale".
Talvolta, anzi spessissimo, davanti a una tabella o a un grafico, si arriva anche a negare l'evidenza o a ribaltare il ragionamento pur di non ammettere, non tanto che l'avversario ha ragione, ma semplicemente che i numeri dicono altro.
Lo fanno sempre i politici, mi direte voi. Vero, ma un altro cortocircuito che non si considera mai è nel fatto che ad un certo punto, in particolare dall'arrivo di Berlusconi in politica (e non gliene sto dando colpa poiché il sistema ha in tal senso camminato da solo), i giornalisti hanno preso nei talk show politici a sostituire i politici stessi, schierandosi, consapevolmente o no, da un lato o dall'altro. Talvolta non si sono nemmeno schierati, ma gli stessi colleghi che la pensavano diversamente da loro, li hanno immediatamente collocati su una sponda piuttosto che sull'altra.
Si è così, ironicamente, venuta a palesarsi finalmente la vera natura della ben nota frase che indica la stampa come "cane da guardia del potere". E già, perché se sono "il cane da guardia del potere" vuol dire che proteggo il potere, non il cittadino, altrimenti mi si dovrebbe definire "cane da guardia del cittadino o dello stato".
È chiara questa semplice contraddizione, vero? Ché se io ho una villetta con un cane, lui è il cane da guardia mio, non dei ladri che vi vogliono entrare. La frase, quindi, è sbagliata, ma non deve meravigliarvi visto che è una frase che arriva dagli USA.

Negli ultimi giorni io, non so voi, mi sto divertendo un mondo nel vedere gli accartocciamenti, i "rintorcinamenti", le capriole doppie e triple, della stampa "cane da guardia del potere" per spiegare fatti che si spiegano da soli se uno soltanto guarda i numeri, come le elezioni tedesche o i sussulti catalani. E almeno una verità appare nella sua semplicità: i giornali sono tutti in perdita, in particolar modo quelli della grande stampa, che non perde solo nel cartaceo ma anche sui servizi on line (il che fa anche decadere la tesi che "la carta" perde perché i lettori vanno su internet; ci vanno, ma comunque non da voi), avere un quotidiano è un esercizio di masochismo per un editore. Ma allora, perché ci sono editori che comprano ancora giornali o che fanno battaglie per acquisirne? Facile: perché questi propagandino le loro idee. Se il tornaconto non c'è dal giornale, ci sarà da un'altra parte, che voi non vedete. O quanto meno non vedete perché non guardate bene.

lunedì 4 settembre 2017

LA CITTA' TEATRALE

Ho timore che molti dei miei dodici lettori non comprenderanno appieno cosa sto per raccontare loro. Perché la mia vuole essere, e spero sarà, una osservazione da puro teatrante quale sono, più o meno importante, più o meno famoso, più o meno talentuoso, più o meno fortunato, non ha importanza.
Dopo trenta e più anni di palcoscenico, sono giunto ad una semplice conclusione: sono un teatrante perché mi piace stare in teatro, e mi piace starci più che in qualsiasi altro luogo, e lo starci mi fa stare bene anche più che a casa mia, è il solo posto in cui mi senta al sicuro, protetto, sereno; riavvolgo il nastro e, ne sono certo, non mi è mai capitato, in tutti questi anni, di essere a disagio anche nella peggiore delle fogne in cui mi è toccato di dover andare a lavorare, mai. E tutto questo deve per forza voler dire qualcosa. Non sarà la riprova che sono un Attore, ma un teatrante, come tutti i miei colleghi (attori e tecnici), sì. Una riprova semplice e mica tanto scientifica, ma per ora non so dare altre spiegazioni.

Girare l'Italia in lungo e largo per decenni, vuol dire arrivare a conoscere le città di questo nostro Paese, soprattutto quelle dove torni più spesso e ti fermi di più, come i capoluoghi di regione e spesso anche alcuni di provincia. Un teatrante vero non fa mai il turista. E questo è un vantaggio. Perché arrivi in città belle, come... Parma, e puoi pensare: "Non ho voglia di andare, di corsa, a vedere il Teatro Farnese, ci vado la prossima volta, oggi voglio passeggiare mentre me ne vado a teatro."
E, parrà strano, ma le città così si conoscono: passeggiandoci, osservandone l'umanità, chiacchierando nei bar, guardandone l'attività, i negozi, poi giri un angolo e trovi una chiesa, entri e scopri un capolavoro...

Ma cosa rende una città "teatrale"?
Credo che la risposta sia: lo scambio tra teatranti. Che è scambio di idee, di umori, di pensieri seri e faceti. E perché questo avvenga in pieno e in rilassatezza, occorre un luogo: il ristorante dopo-teatro.
Che sta scomparendo. Come istituzione, intendo. E fondamentalmente per due ragioni: i teatranti non hanno più soldi da spendere, i ristoranti non ci guadagnano più come una volta (e questo comporta che non abbiano nemmeno più il piacere di accoglierti come una volta).
La trattoria o il ristorante dopo-teatro era il luogo dove le varie compagnie si incontravano la sera, dove a fine cena si passava da un tavolo all'altro, si scambiavano informazioni, opinioni, risate, dove i giovani stavano vicino ai vecchi e apprendevano un sacco di cose: dalle storie di teatro, alle regole di comportamento, fino all'affinamento del gusto: il suggerimento di un libro, l'indicazione di uno spettacolo da andare a vedere, o di un nuovo attore interessante da seguire, o le divertenti stilettate tra capocomici per sottolineare che uno aveva o stava incassando più dell'altro, che l'altro aveva più "piazze" in calendario o che la critica aveva detto...
Una scuola che oltre ad essere di vita, era parte integrante della formazione attoriale.

Non voglio fare il nostalgico e annoiarvi con "quanto era bella la mia gioventù e quante cose ho imparato stando a tavola con vecchi e giovani" (anche il modo di stare a tavola, ché la buona educazione sta divenendo un altro dei Paradisi perduti...).
Voglio solo segnalarvi che ci sono città che sono sempre state teatrali, perché si sapeva dopo lo spettacolo "dove si andava a mangiare", e quella piazza sul calendario si aspettava con ansia gioiosa, sapendo che vi avresti incrociato altri colleghi con i quali magari avevi lavorato anni prima, e magari riuscivi a organizzare per andare a vedere tu il loro spettacolo e loro il tuo... Ci sono invece città dove non si è mai saputo e non si sa dove gli attori mangino dopo lo spettacolo, città anche importanti, e questo ne fa città "non teatrali", perché tra i componenti di questa grande e bislacca famiglia non c'è scambio, non c'è mai stata vera osmosi.

Mi piacerebbe - se sono riuscito a spiegarmi - che questo i giovani lo sapessero, che non basta, per fare parte della comunità dei teatranti, starsene a bere nel bar alla moda insieme ad altri coetanei, poiché viene a mancare un elemento basilare: il passaggio di testimone tra vecchi e giovani, che è l'unica vera forza del Teatro. Non è un costume solo italiano. Bergmann, per esempio, diceva che lui la regia la faceva la sera a tavola con i suoi attori.

Abbiamo sempre lavorato per poter mangiare, ed è anche per questo che "si mangia dopo", dopo che si è contato "l'incasso". Questa santa abitudine del ritrovarsi dopo-spettacolo, insieme, a tavola, si sta dissolvendo e con essa "la città teatrale".