giovedì 17 novembre 2022

TRENTOTTO ANNI DOPO, ESSERE ATTORE

Salerno 17 novembre 1984 - Torino 17 novembre 2022 

Oggi sono trentotto anni dalla prima volta che sono salito su di un palcoscenico. 
Trentotto anni. Durante i quali sono successe molte cose, belle e brutte, durante i quali ho capito tante cose, belle e brutte. 
Essere attore è sostanzialmente un paradosso, è cercare la sanità mentale sbandierando la propria malattia, il proprio disturbo. Perché essere attore è un disturbo, un disturbo nella testa, che si pensa di curare, o quanto meno mitigare, assecondando quel bisogno di curare un disturbo; ma nell'assecondare si trae piacere, ed ecco, quindi, che il disturbo non può che essere alimentato. 
Essere attore è una devianza, il bisogno di essere sé e altro al contempo, è la ricerca di un se stessi già chiaro fin dal principio: sei questo è lo sarai sempre anche quando non farai l'attore, e l'augurio è che non guarirai mai, e non guarirai mai perché solo in quella condizione stai bene. 
Essere attore è una metafora, essere attore è essere una metafora, e, come dicevo, un paradosso: è essere portatore di un profondo erotismo ed al contempo essere un soggetto totalmente asessuato. Sono maschio, sono femmina, sono omosessuale, sono transessuale, sono tutti i personaggi cui presto questo mio corpo, la mia voce, il mio pensiero; io non esisto come loro non esistono, siamo tutti solo funzione di un racconto il cui obiettivo è "riconoscersi". 
Niente è più doppio di un attore, niente è più uno di un attore. 
La sostanza delle cose è in sé e sfugge allo stesso tempo, così come sfugge il tempo, come sono sfuggiti questi trentotto anni solo d'amore. 
Buon compleanno, attore. Tu sei nulla, orgogliosamente nulla, sei in ogni istante tutti coloro che ti hanno preceduto, tutti coloro che ti succederanno fino a che un uomo avrà respiro per raccontare, per raccontarsi una storia tentando di comprendere "chi sono". 
Buon compleanno. Ogni debutto è il primo attore del mondo che rinasce, felice di rifare tutta la strada, felice di sapere che non troverà mai la risposta, felice di perpetuare il cammino. 

A tutti "i senza nome e senza memoria", cuore vero del Teatro, cui orgogliosamente appartengo e sempre apparterrò, buon compleanno.  




venerdì 7 ottobre 2022

MA PERCHE' RACCONTIAMO?

Perché fin dalla notte dei tempi l'uomo ha bisogno di raccontare? Io sono certo lo abbia fatto sempre, in tutti i modi che gli erano possibili e che aveva a disposizione. Chi ci dice che davanti a quegli elementari disegni sulle pareti delle caverne, non ci fosse qualcuno che raccontava agli altri una storia che era già illustrata? O davanti a quegli stessi disegni elementari, ognuno costruisse o rivedesse una propria storia, perché magari era in testa al gruppo che cacciava l'animale per sfamare la tribù, oppure era in fondo, o nel mezzo del gruppo, e ha visto un compagno cadere dietro di sé, o davanti a sé, ha visto la fiera azzannare un amico che era di lato, o ha sentito un amico dietro di sé urlare perché una fiera lo aveva azzannato. Ogni uomo la stessa storia, ogni uomo una storia diversa. 
Punti di vista. Ciascuno mette sull'infinito piatto dei racconti la propria versione della storia: ognuna è vera, ognuna è solo un pezzo della verità. 

Ma cosa cerca ogni uomo nel racconto, perché ci raccontiamo delle storie, con le parole, con il disegno, con il movimento del corpo o plasmando la materia. 
Io credo che sia la necessità di un riflesso in cui specchiarsi, e finalmente vedersi, almeno un po', almeno per un attimo. Ogni storia che raccontiamo agli altri è la storia che di noi raccontiamo a noi stessi nella speranza di sapere chi siamo. 
Ogni racconto è un atto di conoscenza, un tributo di amore e curiosità che rivolgiamo a noi stessi. 

Fin dalla notte dei tempi, gli uomini raccontano storia per sapere chi sono. 
Niente di più.

martedì 4 ottobre 2022

IL VOTO E' LIBERO

Sai cosa mi piace del voto? Che sei completamente solo. In quella cabina non può e non deve esserci nessuno. La responsabilità è solo tua, verso la tua Nazione innanzi tutto, ma soprattutto verso te stesso. Sì, la responsabilità più grande è verso te stesso anche se non si vede subito. "Il voto è libero" è una delle affermazioni più belle che ci sono nella Costituzione, e "libero" penso voglia dire tante cose: per prima cosa che devi sentirti e devi essere libero dentro, che la libertà è appunto una assunzione di responsabilità, e che la libertà non è uno spazio, la libertà io credo sia una condizione, interiore ed esteriore, e perché la libertà è strettamente legata, per fortuna e per disgrazia, alla solitudine. Per tutti questi motivi il voto è libero, e in quella cabina non può e non deve esserci nessuno. Solo.

sabato 2 aprile 2022

LA PIU' BELLA SCONFITTA DELLA NOSTRA STORIA: SALERNITANA - TORINO, 17 APRILE 1948

     Se volete davvero comprendere cosa sia il calcio spettacolo, “ascoltate questa favola antica” che i veri salernitani conoscono a memoria, perché cento volte è stata loro raccontata, e loro stessi continuano a raccontarla a figli e i nipoti come il momento più bello della Storia del calcio, un momento esaltante, appassionato, di calore e conforto, d’esplosione di vita, anche se parla di sconfitta. Perché nessuna sconfitta fu mai così dolce per un salernitano, perché quella volta, quella sola volta non si era andati allo stadio per veder vincere la propria squadra, ma per guardare negli occhi la leggenda, poter dire “io c’ero, li ho visti”, per potersi dire, insieme a una nazione intera “siamo ancora vivi”, per potersi sentire parte di quella nazione. Non c’era nessuna partita quel giorno, ma solo lo Spettacolo. 

Torino e Salernitana schierate prima della gara

Fu il 17 aprile del 1948. In quel campionato, 1947/48, per la prima volta la Salernitana giocava in serie A, ed arrivava a Salerno il grande Torino.
Il giorno dopo ci sarebbero state le elezioni politiche, forse le più importanti e tese della storia della Repubblica, si sarebbe deciso il destino di una nazione per chissà quanti anni a venire.
Ma l’arrivo del grande Torino, del quale si leggeva nelle emozionanti cronache giornalistiche, che si vedeva al cinema negli spezzoni di partita che offriva la Settimana Incom, che si ascoltava alla radio nel racconto secco e preciso di Nicolò Carosio, era un evento troppo grande per la nostra piccola città. Vederli, finalmente vederli davvero, gli undici campioni con la maglia color del sangue più fiero, riscatto di una Patria in rovina tutta da ricostruire, baluardo di una dignità perduta da riconquistare. Le forze dell’ordine in città scarseggiavano, non si sarebbe potuto in contemporanea garantire il servizio alle urne e allo stadio, così, cosa eccezionale per quel tempo, si decise di anticipare la partita al sabato.

“Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola”. Così papà la ripete ancora oggi, e così io l’ho imparata. Perché papà quel giorno c’era, aveva dodici anni. A quel tempo le banche la mattina del sabato erano aperte, e mio nonno, commesso alla Banca Nazionale del Lavoro, alle 7,30 del mattino lasciò papà a un custode dello stadio suo amico.
Lo stadio, il Donato Vestuti, oggi è al centro della città, a quel tempo era solo una prima periferia già con dei palazzi attorno dai quali si vedeva il campo di gioco. La capienza era limitata, dodicimila posti, e quel giorno per accaparrarsi un posto ci sarebbe voluto un miracolo.
Il catino infatti si riempì prestissimo, papà ebbe la fortuna di essere fatto accomodare nel gabbioto dello speaker.

La gara di andata, a Torino, era già stata segnata da un curioso episodio: si era sul 6 – 1 per i sabaudi, l’arbitro fischiò la fine, ma mentre erano già nel tunnel, un assistente del direttore di gara fece notare a questi che aveva fischiato con qualche minuto d’anticipo; la giacchetta nera, resosi conto dell’errore, ordinò alle squadre di tornare in campo, pochi minuti, il tempo che il Torino segnasse il settimo gol.

Ora, sulla partita di ritorno, quel sabato 17 aprile 1948, il racconto dei salernitani veri dice questo: iniziò la partita, la Salernitana si batteva coriacemente, e dopo una decina di minuti circa passa addirittura in vantaggio con un gol di Merlin su cross di Onorato; ci si sarebbe aspettati un boato dei tifosi locali, invece il gelo scese sullo stadio, e dagli spalti iniziarono a volare una impressionante serie di improperi verso il grande Torino: “E questo sarebbe il Torino – Andate via – Vergogna – Tornatevene a casa – Scandalo…”, la folla non si quietava più.
Valentino Mazzola, il grande capitano granata, raccolse la palla in fondo al sacco, si portò a centrocampo, sistemo il pallone per la ripresa del gioco, poi alzò lo sguardo verso le tribune: col palmo della mano in aria fece chiaramente segno agli spettatori di aspettare, poi fece quel gesto che ne caratterizza ancora oggi la leggenda: si tirò su le maniche, sbatté più volte le mani e urlò ai suoi: “Andiamo, ragazzi!”.
In sette strepitosi minuti il Torino segnò tre gol! E a quel punto lo stadio esplose in un tripudio inarrestabile, uno scroscio di applausi senza fine, urla di gioia, canti, una festa infinita.

Ci fui poi un quarto gol, ma a quel punto poco importava; quel che contava era che il Grande Torino c’era, era lì, davanti a loro, esisteva sul serio, non era solo una sequela di parole nelle cronache. E se il Grande Torino c’era forse c’era ancora la speranza di casa, di vincere ancora, di ricostruire, di rinascere, di ripartire. Una vittoria che era solo una vita era ancora possibile.
Più passano gli anni e più mi convinco che in fu per questo il tripudio, la meraviglia, il bisogno della rassicurazione di essere ancora vivi, anche in una piccola cittadina di provincia. Ed è l’unico episodio di vero calcio-spettacolo che io conosca, dove anche i tifosi di casa erano andati allo stadio non per vincere ma per essere stupiti dalla leggenda.

Poi ci fu lo schianto di Superga. La nostra maglia, come quella di molte altre compagini italiane, divenne granata in omaggio a quei leggendari campioni, e anche un giornalista salernitano, Renato Casalbore, in quella tragedia trovò la morte. La piazza dove ancora oggi si trova il vecchio stadio Donato Vestuti fu intitolata a lui.

Stasera giocano al nuovo stadio, l’Arechi, Salernitana e Torino, ma non sono più i tempi delle favole; noi intanto continuiamo a raccontarci questa come la più bella sconfitta della nostra storia, essendone ancora felicemente fieri.
“Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigam…”

martedì 29 marzo 2022

GIUSEPPE PATRONI GRIFFI O DE L'ESTETICA CITAZIONISTA

   Talvolta le conoscenze personali mettono sulla strada sbagliata o quanto meno impediscono di vedere con chiarezza. Aver avuto vent’anni di sincera amicizia e affetto con il M° Giuseppe Patroni Griffi, scrittore, drammaturgo, regista di teatro e cinema, uomo di straordinaria qualità, vasta cultura e creatività sfrenata, mi ha per lungo tempo quasi inibito l’analisi e la comprensione razionale della sua opera. L’ho amato, ammirato, mi sono commosso sui suoi lavori, ne ho riso e goduto, ma solo adesso, a quindici anni dalla sua scomparsa, comincio a comprendere quali fossero gli architravi del suo mondo artistico. 

Patroni Griffi col suo amato cane Dario 


Si annovera quasi sempre Patroni Griffi tra quegli scrittori e registi il cui tratto distintivo sarebbe “l’estetica”, volendo indicare con questa generica definizione una sorta di ricerca del “fatto estetico” fine a se stesso. Diciamo subito che la definizione, per i critici ideologizzati degli ultimi 40 anni, cioè la maggioranza, assume carattere spregiativo.


Esaminando il côté maggiormente noto di Patroni Griffi, quello teatrale, autore e regista, lo si è quasi sempre collocato in quella sorta di “dannunzianesimo registico” che vien fatto risalire a Luchino Visconti; il discorso non è peregrino dato che Patroni Griffi era amico di Visconti e se ne considerava registicamente allievo, così come considerava altrettanto importante nella sua formazione da metteur en scene un altro grande purtroppo dimenticato, Ettore Giannini: “Ho imparato – amava ripetere - stando seduto in platea a guardarli provare”; e negli anni era poi stato “seduto in platea” a guardare le prove di Giorgio De Lullo in cui si mescolavano la lezione viscontiana e quella di Orazio Costa Giovangigli, e del suo grande amico della giovinezza Mario Ferrero, allievo e per anni assistente di Costa. 


Visconti e Patroni Griffi 


A questo punto, in realtà, la domanda da porsi sarebbe: ma Visconti era davvero “dannunziano” come lo si descrive, era davvero un regista per il quale il senso estetico veniva prima di qualsiasi altra cosa? 
 "L'Innocente" di Visconti 

Io sono certo di no: Visconti era tantissime cose, il decadentismo e l’estetismo dannunziano facevano certamente parte del suo mondo, ma coglierne solo questo aspetto è limitarlo colpevolmente (e forse anche con una certa intenzionalità). Il discorso, però, ci porterebbe lontano, sarà meglio rimandarlo ad altra riflessione.


Dunque, come spesso accade, tante strade s’incrociano nella formazione di un vero talento creativo, al punto che quando questo trova la propria autonomia resta difficile indicarne una come preponderante o determinante. Certamente il seme gettato da Visconti, sia in cinema che in teatro, ha prodotto molti frutti e ciascuno con una propria precisa individualità, pensiamo soltanto al gusto per la maestosità e il dettaglio di Zeffirelli, alla maniacalità, sotto ogni aspetto, di De Lullo, o al realismo civilmente impegnato di Rosi.  

Per Patroni Griffi, però, il discorso è leggermente diverso; poiché egli nasce, volendo esserlo, scrittore, e solo in un secondo momento, quasi inconsapevolmente egli accoglie in sé la lezione di Luchino: il suo debutto registico, infatti, è tardo e casuale, a 44 anni con "La governante" di Brancati. Scrittore egli si sentirà sempre e tale si dichiarerà fino alla fine: “Sui miei documenti ho scritto scrittore”, ponendo così una netta cesura tra sé e i registi, invocando la propria alterità come tratto distintivo di una maggiore completezza. 

Il mondo di Patroni Griffi si sviluppa in realtà per percorsi non convenzionali, spesso inaspettati e insospettabili: il non essere entrato in arte come giovane desideroso di diventare regista, ma l’essercisi ritrovato per caso, lo ha probabilmente costretto a elaborare una propria poetica e una propria metodologia di lavoro, recuperando improvvisamente dalla memoria, non solo cosciente, tutto quello cui aveva assistito nelle serate di prove teatrali.

Egualmente, in un percorso precedente a quello registico, in maniera non convenzionale inventa il suo teatro. Un teatro che è già cinema pur rimanendo teatro, lì dove il classico testo teatrale si mescola alla sceneggiatura: un teatro adeguato al suo tempo, alle nuove esigenze e gusti degli spettatori. Basta leggere la sua prima commedia, “D’amore si muore”, per rendersene conto. 

Valli e De Lullo in "D'amore si muore"
(foto da programma di sala T. Eliseo)

Fidandosi quasi ciecamente di quella che oggi definiremmo intelligenza empatica Patroni Griffi si lascia sprofondare senza timori nel suo mondo, procedendo in una sperimentazione costante che non ha e non può avere limiti, e che in poco tempo lo porterà a scrivere quel capolavoro assoluto che è “Metti, una sera a cena”, una commedia senza più luogo e tempo definiti, dove la trama è una non-trama che ciascuno spettatore può liberamente ricostruire nella propria mente.   

E tutto questo non gli impedirà di realizzare commedie nella più tradizionale delle forme, come la commovente e spiritosa “In memoria di una signora amica”, o la scandalosa “Persone naturali e strafottenti”, fino a quella favola antica che è “Una tragedia reale”. 


"Metti, una sera a cena", I rappresentazione 1967
Orsini, Albani, Valli, Giuffré, Falk
(foto da programma di sala Teatro Eliseo)


 














Bene, ma di cosa è fatto il mondo di Giuseppe Patroni Griffi, sia come autore che come regista?

Io lo definirei un mondo di “estetica citazionista”.

Patroni Griffi tesse le sue tele con i mille elementi sedimentati nel suo animo e nella sua memoria, la maggior parte dei quali sono richiamati con piena coscienza, mentre altri emergono con felice inconsapevolezza: un tessuto ornato di prezioso ricamo, la tela di ragno nella quale lo spettatore rimane invischiato.

Attraverso la miriade di citazioni che popolano le sue opere, verbali e visive, palesi o no, Patroni Griffi aggancia empaticamente il lettore-spettatore nel fondo di una memoria comune, in un inconscio culturale collettivo nel quale riconoscersi. “Qualcuno deve averle scritte queste frasi se io le ho lette tante volte”, dice Nina in “Metti, una sera a cena”, commedia che è un vero e proprio florilegio di richiami letterari, pittorici e drammaturgici. Perché come Nina afferma, quelle frasi, quelle storie o immagini, sono dentro di noi, e noi le abbiamo acquisite dalla letteratura, dalla pittura, dalla musica. Pare quasi dirci, Patroni Griffi, in un percorso che sicuramente prosegue quello Pirandelliano, che è l’arte a scrivere la vita; ed ancor più: la sua visione supera Pirandello, poiché è l’arte a scrivere l’arte, arte che, in fondo, non parla di niente altro che di se stessa, e attraverso se stessa si racconta, raccontandoci la vita.    

Ecco, dunque, che la Storia prende a svolgersi su più livelli: c’è quello intellettuale, di chi coglie i vari riferimenti, e c’è quello da inconscio collettivo, di chi ha in sé la citazione pur non avendone memoria. Ma c’è un terzo livello cui Patroni Griffi non rinuncia, ed è quello della pura narrazione che, sostenuta in maniera forte da questa trama memonica, trova una solida base di appoggio per aprirsi allo spettatore nel più semplice dei modi e colpire lì dove deve: nel sentimento, come nella coscienza, come nel pensiero. Chi non coglie le citazioni, è colto però dalla solidità evidente del tessuto narrativo, fatto al contempo di accadimenti e di stile, uno stile ricercato, spesso raffinato, ma sempre funzionale alla storia, storia che sta in piedi perché trova in questo tessuto “citazionista” il terreno fertile nel quale essere coltivata. Ed attenzione: la citazione, il richiamo può essere raffinatissimo o assolutamente popolare, talvolta anche volutamente volgare lì dove ce ne sia una esigenza drammaturgica.

È dunque in questo modo che Patroni Griffi conduce il lettore/spettatore all’emozione, non attraverso “il caldo”, attraverso l’abbraccio rassicurante, ma tramite il gelo della lucidità, lo sbarbaglio di un bisturi, la crudezza della realtà, disvelando una memoria collettiva che è presenza, incarnarsi dell’arte nella nostra esistenza quale elemento pienamente partecipe.

Un “sistema” efficace, dunque, che soddisfa ogni livello di percezione, in una lezione parallela e sovrapponibile a quella di Pier Paolo Pasolini, e che ugualmemte non trova alcuna difficoltà nel descrivere qualsivoglia situazione sociale o storica. 


da "Addio fratello crudele"






"Addio fratello crudele", scenografie di Mario Ceroli








Credo che in questo senso l’opera letteraria, le messe in scena, il cinema ed anche la televisione di Patron Griffi siano marcate dal “discorso estetico”, discorso che non si fa minimamente riduttivo così come intende certa critica in malafede, ma che tende verso una spasmodica ricerca della bellezza.

“La bellezza – ripeteva convintamente Peppino – è oggettiva”, un’affermazione per troppi versi contestabile e che è stata oggetto serale di cento appassionate discussioni dalle quali sono sempre uscito poco convinto; ma mi è chiaro oggi che per lui la bellezza diveniva oggettiva nel momento stesso in cui la identificava come parte imprescindibile del comune sentire degli uomini, elemento condiviso che travalica mode e singole culture di riferimento. 

Ciò che è bello è anche giusto, sano, e morale anche quando pare ammantato di immoralità; essa bellezza è viva, ci appare o perdura in una sorta di comune inconscio primordiale, compito dell’arte e dell’artista è farla riemergere o emergere. 


Stamp e Antonelli in "Divina creatura"

  

 

 

 

 

 







Mi si lasci chiudere con un episodio che mi ha visto coinvolto. 
Preparavamo la diretta televisiva mondovisione di "Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca", era (ahimé!) il lontano 1992, una estate torrida e meravigliosa nella quale facemmo, posso dirlo con orgoglio, la storia della televisione, grazie, innanzi tutto, alla genialità di un grande produttore, Andrea Andermann, inventore del meccanismo che consentì l'operazione. Io ero un giovane e imberbe assistente del regista. 

I luoghi dove lavoravamo erano straordinari: la chiesa di Sant'Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo. Patroni Griffi, forte della solida collaborazione di Vittorio Storaro, cercava in ogni modo inquadrature che, oltre a rendere la precisa idea della storia che egli aveva in mente, potessero mostrare al mondo i nostri capolavori. Mai però come documentario - errore oggi abbastanza frequente in registi senza qualità e cultura - ma sempre come scenografia, come reale ambientazione dell'opera, capolavori a fare da naturale corollario a un capolavoro. 

Le scena del Te Deum, finale I atto, che qui vi lascio è esemplificativa. 


Giunse il coro per le prove, e dopo qualche giorno arrivarono sul set anche le comparse che avrebbero dovuto essere il clero, il popolo, le guardie svizzere... 

Peppino era ovviamente preso dai mille problemi che una tale regia può comportare. 
Tra le comparse, il mio occhio cadde sul viso di un ragazzo, avrà avuto vent'anni, dai lineamenti finissimi, un naso dritto e gli occhi acquosi, azzurro pieno, alto, elegante.

Ne fui molto colpito, c'era un qualcosa di affascinante in lui che però non cogliere pienamente.

Al ragazzo il capo-comparse aveva assegnato, in attesa di conferma da parte della regia, il ruolo di "portatore della croce".

Quando Patroni Griffi arrivò per occuparsi dei movimenti delle comparse, mi avvicinai a lui e con una ammirazione sincera gli dissi: "Peppino, guarda come è bello quel ragazzo". 
Fu un attimo, egli si voltò di scatto e urlò a Stroraro indicando il giovanotto: "Vittorio, dobbiamo fare un primo piano qua! Ma lo vedi, questa è la testa del David di Michelangelo! Ma facciamo vedere che non sono solo opere d'arte, facciamogli vedere che noi queste cose ce le abbiamo nella vita!". Era il suo profondo orgoglio di italiano davanti al mondo, mostrare la nostra bellezza. 



Ecco, la differenza era tutta qua: io, sia pur scusabile nella mia inesperienza, ero rimasto affascinato da una volto senza sapere il perché; Giuseppe Patroni Griffi era istantaneamente volato al collegamento d'arte e di vita, aveva subito compreso dov'era la bellezza che ciascuno di noi, anche inconsapevolmente, si porta dentro come un bene comune dal quale non possiamo staccarci, una bellezza a tutti noi nota e da tutti noi riconosciuta, la sua amata "bellezza oggettiva".


Pier Luigi Pizzi, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio De Lullo, Romolo Valli 
durante le prove di "D'amore di muore", 1958
(foto da un programma di sala del Teatro Eliseo)

domenica 27 marzo 2022

IERI HO AVUTO PAURA

 A un certo punto ieri sera ho avuto paura, il cuore ha cominciato a battermi fortissimo anche se apparentemente ero calmo, molto calmo, sorridente, e da fuori non si vedeva proprio niente, ma ho avuto paura. 

Nel tardo pomeriggio sono uscito di casa per andare a fare la mia solita camminata a passo sostenuto, perché devo assolutamente dimagrire, sono sovrappeso in un modo che non è più tollerabile, e ho scoperto che dimagrire è un lavoro! 
Così, come costanza vuole, nel tardo pomeriggio, messi da parte i vari impegni quotidiani, ho infilato le scarpette di gomma e sono andato. 
A metà strada sono come sempre passato per una piazza, dove ci sono panchine, anziani, badanti, qualche tavolino di bar e tanti ragazzini che giocano a pallone. 
La sera era appena calata e c'erano i lampioni accesi. L'immagine di quei ragazzini, dieci, dodici, forse quindici anni che giocavano a pallone mi ha affascinato, poiché è sempre più raro vedere nelle nostre piazze dei ragazzi che giocano a calcio. Ormai vanno tutti nelle scuole-calcio, nei campetti attrezzati delle parrocchie o dei quartieri popolari, ma i ragazzini che in una piazza, isola pedonale ovviamente, giocano mettendo le giacche in terra per fare le porte è roba che mi riporta alla mia infanzia. 
L'immagine era toccante, e ho deciso di fare una foto che avrei poi postato sui social con qualche bella frase che esprimeva il mio sentimento di dolce nostalgia. 









Ma nel mentre scattavo, un pensiero terribile mi ha attraversato la mente: e se mi prendono per un pedofilo? 
Fatta la foto col cellulare mi sono allontanato, ho visto che c'era una chiamata cui non avevo risposto e ho richiamato. Ma intanto ho sentito i ragazzini urlare un qualcosa di cui non distinguevo tutto, se non poche ma inquietanti parole: "La fotografia... il telefono... è quello là... ha fatto la foto...". 
Il telefono squillava e nessuno all'altro capo rispondeva, e io intanto sentivo i passi di ragazzi che mi rincorrevano. Ho continuato a camminare, ostentando calma e attenzione ai miei affari. 
A un certo punto un ragazzino di un dodici anni, su un monopattino, mi ha affiancato e ha gridato a un altro: "è lui", e un altro dodicenne mi è corso affianco. Ho chiuso l'inutile telefonata e il ragazzino a piedi mi ha chiesto: "ma vi siete preso il telefono?". L'ho guardato, e con un grande sorriso sostenuto da molta calma ho risposto: "no, guarda, è il mio". 
Il ragazzino ha guardato la schermata ed è corso via urlando al compagno: "no, è suo", e si sono allontanati. 
Una coppia che era dietro di me ha incrociato il mio sguardo e mi ha sorriso per la comica scena, ma dentro il mio petto il cuore andava a mille. 
E se mi avessero preso per un pedofilo, per uno che andava facendo foto ai ragazzini per chissà quale vergognoso motivo, se fosse scoppiata una situazione allucinante nella quale come avrei potuto difendermi? 

Non lo avrei creduto mai, ma mi sono calmato a fatica, e ho capito. Ho capito in che schifo di mondo viviamo, e come tutta l'informazione malsana, che condiziona le nostre vite ci entri dentro anche se non vogliamo, si acquatti nel fondo del nostro animo e lo scuota quando meno ce lo aspettiamo come una improvvisa burrasca in mare. 
Come ho potuto avere così paura di due dodicenni? Ne ho avuta perché tutto poteva in un lampo volgersi al peggio e per un nonnulla, perché basta una parola a inchiodare le persone, per metterle alla gogna, perché nessuno di noi ha più un rapporto sereno con il mondo che lo circonda, perché ormai ogni nostro gesto è fortemente condizionato dal pensiero e dagli sguardi che ci circondano. Non siamo più liberi dentro.

Ho cancellato la foto. Che mi era venuta anche male. 

domenica 27 febbraio 2022

IO NON SONO DALLA PARTE DI PUTIN, MA...

Io non sono dalla parte di Putin.
Per lo meno non lo sono come tifoso.
Mi sforzo, per quanto possibile, di essere lucido ed equilibrato nelle analisi e nel giudizio. 
Ma queste mie analisi, questi miei giudizi, dipendono inevitabilmente dalle informazioni che mi giungono.
Ed è qui che il problema esplode.

Non sono dalla parte di Putin e contro l’Ucraina, o contro quell’Occidente che difende a spada tratta l’Ucraina, sono contro – e lo sarò finché non mi verrà fornita una sostanziosa prova contraria – contro l’informazione, questa informazione, che manipola perpetuamente le notizie, che le fornisce a sostegno di una ideologia e di una propaganda costante e implacabile, il cui unico scopo è convincerti della bontà del mondo in cui sei stato immerso, mondo in cui stai male, di cui percepisci, sulla tua stessa pelle, il disagio di vita, l’ansia che ti produce, il dolore e la sofferenza, eppure questa propaganda fa di tutto per dirti che tu devi amare il tuo dittatore, che ogni cosa che viene fatta dai tuoi governi è fatta per il tuo bene, e nel caso tu percepisca un male, un disagio, tale disagio dipende da te, che sei inadeguato o inadatto o disadattato rispetto alla bontà dell’operato del tuo governo. Se stai male è colpa tua. Se non comprendi che Putin è un dittatore, di sicuro in qualche modo è colpa tua. Se non capisci che la UE, l’euro, il vaccino, o l’unione bancaria, o il MES, o il PNRR, o il Trattato del Quirinale, o la Transizione ecologica e digitale… sono fatti per il tuo bene, la colpa è solo tua.

Io non sono dalla parte di Putin, anche se spero, a questo punto in una sua vittoria a tutto tondo, piena, e non soltanto sull’Ucraina, ma su questo sistema liberista-progressista-globalista che sta distruggendo le nostre vite, le nostre civiltà, tradizioni, storie, famiglie. Io sono contro questa informazione truffaldina che manipola i fatti, che non informa più, che si nutre solo di opinioni facendole passare per fatti, io sono contro questo inganno costante.
Decidiamo cosa votare, cosa fare, decidiamo “cosa ne penso” sulla base delle informazioni che riceviamo. Siamo certi di decidere in un pieno regime di verità e libertà?
Una vera e libera informazione è il fondamentale presupposto per una compiuta democrazia.
Noi non siamo in democrazia.
Questa informazione, ormai a livello globale, mente da anni, ed in maniera spudorata. Quasi mai ammette i propri errori, e più inganna più insiste nell’inganno.
E la menzogna ha un suo cardine ben preciso dal quale non può prescindere: soffocare il dibattito, stritolare le altrui opinioni, screditarle, ridicolizzarle, renderle insomma inutili e inaffidabili.
E qui veniamo all’altra parte della storia: i fruitori dell’informazione.

Quale speranza possiamo avere se i cittadini male informati nel corso dei decenni hanno compreso di essere male informati, ma ad ogni nuova occasione si fidano e ri-fidano di quella stessa informazione che li ha ingannati?
Il conto delle menzogne che ci sono state propinate è grande, le prove e controprove immense, a cominciare dai benefici che ci avrebbe portato essere in una Unione Europea, per non dire di quelli che ci avrebbe portato l’euro (cosa ormai ammessa anche da quella informazione che si batteva per la sua indiscutibilità), per non dimenticare l’inganno dello spread o i vantaggi del bail-in, oppure le menzogne su una immigrazione irregolare e incontrollata, o sul mercato libero e la libera concorrenza (che a guardar bene non esiste ed è deleteria per i lavoratori), e non dimentichiamo le menzogne sui vantaggi che al nostro Paese avrebbero portato le privatizzazioni, lo smantellamento delle grandi industrie di Stato, o quelle sui vantaggi della integrazione tra Sanità pubblica e Sanità privata, la trasformazione degli ospedali o delle università in aziende, le riforme della Scuola che ne hanno massacrato la qualità, l’abolizione del servizio di leva obbligatorio… E si potrebbe continuare per ore.
Ciascuno di noi sa – ormai anche i quindicenni – che ci avevano promesso di portarci in un mondo fantastico, nuovo, veloce, efficiente, attento in primis ai bisogni del cittadino che diveniva il centro di tutta la vita della Nazione, e invece ci hanno precipitato in un mondo di merda! Un mondo di merda dove la prima attività del cittadino è difendersi da tutto quello che gli sta intorno e cercare il più possibile di difendere i propri cari, in particolare gli anziani, che sono quelli più mortalmente spaesati.

Non ostante tutto questo, la gente, quando apre un tg e sente parlare di guerra o di pandemia o di banche, crede a quella informazione che le ha mentito.
Ne usciremo mai? E se ne usciremo, ne usciremo migliori, come in questi ultimi anni si ama dire, o peggiori?
Giulio Bosetti era solito ripetere che “è vero: non c’è mai limite al meglio; ma non c’è nemmeno mai limite al peggio”.
In tal senso sono pessimista: ne usciremo peggiori. La pandemia (che miracolosamente Putin ha sconfitto in due giorni, non se ne parla più e nessuno si straccia le vesti per le manifestazioni di piazza pro pace senza osservanza delle regole Covid), la pandemia, dicevo, ce lo ha mostrato plasticamente che siamo decisamente peggiori di quel che immaginiamo e che spesso non c’è modo di fermarci. Non abbiamo avuto remore davanti a lavoratori privati dei loro diritti, di fronte alla frode sanitaria perpetuata a danno dello Stato e del cittadino, non ci siamo fatti problemi di fronte alle persone che sono state molto male a causa dei vaccini che ci venivano propinati, anche davanti alle morti accertate, non abbiamo battuto ciglio di fronte alla Costituzione calpestata, al sangue dei nostri padri coperto con una sabbia lercia e sporca. Come possiamo credere di “uscirne migliori”? Siamo già peggiori di prima, e lo saremo ancora di più perché non vediamo oltre il nostro stesso occhio. Siamo ciechi.

Io non sono con Putin. Ma non voglio arrivare a scuola e vedere i miei ragazzi in ansia, preoccupati, con gli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno per il terrore della guerra. Escono – forse, se sarà loro consentito da governi schifosi – da due anni di pandemia che hanno stravolto la loro naturale gioventù, sono alla ricerca disperata di punti di riferimento a cui agganciarsi per potere ripartire alla scoperta della loro vita e delle loro aspirazioni, ed ora che forse gli viene concesso di guardare di nuovo l’orizzonte, devo vederli ripiombare in un nuovo terrore per una cosa che potrebbe anche non coinvolgerli fisicamente perché questa propaganda li fa sentire già fisicamente coinvolti? Vuol dire che il meccanismo della paura è entrato in loro, e vi rispondono come il cane di Pavlov, basta un nonnulla; e io non lo accetto. Se questo è il mondo in cui volete vederli calati fino alla fine dei loro giorni, è bene che qualcuno apra loro gli occhi solo per fargli capire che “il dubbio” è assioma imprescindibile di una vita libera, faticosa, dolorosa, ma libera. Che la Libertà è un duro cammino che ogni uomo deve compiere prima dentro se stesso e poi nel mondo. Che essere condizionati è il presupposto della schiavitù.
Ogni parola che potrà essere loro detta perché si riapproprino legittimamente del loro tempo verrà detta. Poco possiamo, ma non ci esimeremo dal farlo accompagnati dalla sola paura che un uomo ha il diritto di avere: la paura di sbagliare.
Tra Ettore e Achille sceglieremo sempre Ettore, perché abbiamo paura, ma dobbiamo andare.
Io non sto con Putin, ma solo la Verità ci farà liberi.
  

lunedì 17 gennaio 2022

ERA MIO NONNO

Il 17 gennaio sta per terminare. 
Oggi si festeggia Sant'Antonio Abate. Il santo del porcellino. 
Mio nonno, nacque a Messina proprio in questo giorno, nel 1906. La sua era una famiglia decisamente benestante, secondo alcuni ricordi ricca. Gli fu dato nome Antonio,  in onore del santo del giorno, e così per compleanno e onomastico ebbe sempre una sola festa.
Suo padre, Vittorio, era un disegnatore navale, la madre, una Crisafulli, proprietaria terriera. 
Vittorio morì presto, e mio nonno Antonio, da tutti detto Totò, si ritrovò a dover essere capofamiglia ben prima del tempo. Da quella morte tutta la sua vita cambiò. 
Le redini della famiglia furono prese in mano da un cugino che aveva sposato sua sorella Maria Rosaria, sposati con una dispensa ecclesiastica perché i matrimoni tra cugini non erano propriamente permessi. 
Il cugino, però, era un accanito giocatore, e come accade spesso in queste storie, dissipò in breve tempo, a Zicchinetta, tutto il patrimonio di famiglia. 
Le donne, a quei tempi, non parlavano. Le responsabilità erano dell'uomo, e loro vi si adeguavano qualsiasi cosa accadesse. 
La famiglia si ritrovò in miseria, il cugino-sposo fu colto da un improvviso malore e morì. Totò non aveva ancora 17 anni. Dovette lasciare gli studi. Ma non era pensabile, all'epoca, che le donne, soprattutto le donne di una famiglia agiata e nota in città, lavorassero. La sola strada fu l'emigrazione, la meta fu Roma. 
6 e 17, fa 23. Era dunque il 1923 quando, fatte le valigie, la famiglia La Bella/Crisafulli si trasferì nella capitale: era da poco arrivato il Fascismo. E Totò non trovò di meglio, per mantenere la famiglia che diventare un militare. Entrò nella Milizia. La famiglia trovò un po' di respiro. Non è difficile immaginare perché Totò vedesse il Cav. Benito Mussolini come una sorta di secondo padre. E a quel padre fu fedele sempre, finché alla caduta del fascismo, alla sconfitta, alla fine della guerra, Totò elaborò il nuovo lutto e di tutto quel periodo della sua vita non parlò mai più. 
Antonio ha vissuto da lì in poi la sua vita come tutti, tra gioie e dolori, benvoluto e rispettato da coloro che lo conoscevano. Nel 1963 perse la sua prima figlia per un brutto male. Da allora ha sempre portato la cravatta nera del lutto fino all'ultimo dei suoi giorni, non è mai più andato al cinema o a teatro. La sola cosa che si concedeva era andare al ristorante ma soltanto quando c'erano i suoi figli e i suoi nipoti.
Non tornò mai più in Sicilia. Tutte le volte che attraverso lo Stretto non riesco a non immaginare un ragazzo bello, di 17 anni anni che guarda la sua casa allontanarsi per sempre. Era mio nonno.   

OBTORTO COLLE

Dal caro amico nella vita e in Twitter, Ismaele, con grande piacere ricevo e pubblico, nella certezza che quanto prima si "sdebiterà" con un buon bicchiere di Nebbiolo.


Quirinale? O se volete ‘momento PeterGoodwin’.

A Torino c’era un barbiere che per ogni tornata elettorale o referendaria piazzava l’urna in negozio e faceva votare i clienti. Organizzava dibattiti che hanno richiesto l’occupazione autorizzata di suolo pubblico, con chiusura della via e maxischermi esterni, per i molti che non trovavano posto in barberia. Clientela che spaziava dal senato accademico al circolo degli immigrati sardi, dalle amministrazioni comunale-provinciale-regionale alla gente del quartiere, su su fino alle fondazioni delle banche e - non plus ultra - ai suonatori un po’ sballati e ai balordi come me. Mimmo non dava ragione a tutti e non stava sul vago perché, si sa, il cliente… no no: lui ti diceva la sua e contestava la tua. E poi a bere e mangiare e cantare. Alla sua memoria dedico questo texto. 


Qualche puntata fa il #GattoThunbergShow è decollato dalla vetta del Colle per raggiungere quote ben più elevate.

Per chi se la ricorda vorrei rimarcare che: 

1)la battaglia che rese non più credibile lo stato d’emergenza e portò alla destituzione del Comitato tecnico scientifico di salute pubblica con conseguente liquidazione dell’avvocato Maximilien Robersperr e della sua potenza fu quella di Fleurus e non quella di Valmy;

2) riguardo alle coordinate spaziali tutti gli interventi sono rimasti nel recinto italico, solo ‘Durezza del vivere’, col nome di David Sassoli, aveva montato il grandangolo; riguardo a quelle temporali non si è risaliti oltre Napolitano. 

E qui sta il problema. 

Non si tratta di un gioco fra i partiti. Si tratta dell’Ambasciata di Via Vittorio Veneto e di quella di via XX Settembre. E non si tratta di un ruolo del presidente che sarebbe cambiato con la nuova gestione, forno a legna, di Napolitano e Mattarella. Da qualche anno chiunque, anche se stava facendo l’Erasmus o prendendo un PhD, dovrebbero essersi accorto che la favola delle elementari - il presidente che taglia solo nastri - non è mai stata più vera di quell’altra sull’Italia paese sovrano nato dalle resistenze, mentre invece è nato dai condensatori. 

Chi ha detto che Mattarella “è spuntato fuori dal nulla” si è dimenticato che lo stesso fu Vice di D’Alema alla Presidenza del consiglio dei ministri, con delega ai servizi segreti, e Ministro della difesa nel secondo governo D’Alema. A quei tempi un ragazzino di nome Novak si esercitava fra un bombardamento e l’altro, in Serbia, dov’era Nato.

Cossiga lo ha detto e lo ha scritto di aver garantito per D’Alema con inglesi e americani, da ex-Presidente. Ma Scalfaro fu un tagliatore di nastri? E Ciampi? E Pertini non diede l’incarico al primo socialista di formare il governo? In piena autonomia? E Moro (cof, cof … ehm!)? e Segni? E Saragat, ieri citato come un pistola qualsiasi, dimenticando che il Partito socialdemocratico è stato letteralmente una creatura USA?

Ho cominciato a prendere sul serio la candidatura di Draghi al Quirinale il giorno in cui chiamò dittatore Erdogan. Non era una gaffe. Si parla di Libia, per dire. Leviamoci dalla testa l’idea che il presidente della Repubblica, nonché del suo Consiglio supremo di difesa, possa scaturire solo dall’aula sordocieca e arcobaleno. 

Ora, esiste la versione di Boni, secondo cui bisogna tifare per Draghi al Quirinale perché potrebbe fare meno danni, forse perché non completamente in grado di controllare l’imprevisto elettorale e le dinamiche fra i partiti. Insomma, sui massimi sistemi resterebbe in grado di esercitare un controllo, ma sull’attività ordinaria dell’esecutivo forse resterebbero margini di manovra. Mah…

Un pronostico forse non campato in aria è questo: Draghi resta a Chigi, e Mattarella resta al Quirinale, con la scusa del DDL Zanda, a tempo determinato. Poi: fine della legislatura approvato il DDL o al massimo al 2023, elezioni delle Camere ridotte dalla riforma e riallineate all’elettorato che non si astiene, dimissioni e elezioni presidenziali.



Ismaele @ChiamatemiI