mercoledì 21 febbraio 2018

PER L'AUMENTO DELLA LUCE RINGRAZIA LA UE (ancora una volta)

"Un decreto silenzioso di fine dicembre ha stabilito che bisogna fare lo sconto a chi energia ne consuma molta."
Così recita Milena Gabanelli in un suo servizio per Corriere tv nel quale si occupa dei prossimi aumenti in bolletta di luce e gas stabiliti appunto da un decreto dell'attuale governo Gentiloni.
In pratica chi più consuma meno paga. E va a farsi benedire la litania della mamma: "spegni le luci. spegni le luci. spegni le luci...". 
"I risparmiatori verranno puniti", pare invece questa la nuova litania dal giorno dell'entrata in vigore del bail-in, e ancora una volta così è con la costante che a risparmiare sono le grandi aziende, le grandissime, anzi, aziende, come ILVA o Marcegaglia o Lactalis, De Cecco, Rana... zia Costanza invece ci rimette.
Queste grandi imprese sono 2800, ci dice sempre la Gabanelli, e il conto che sarà scaricato su famiglie e piccole imprese è di 1 miliardo e 700 milioni di leuri. 1.700.000.000 avete letto bene!
E sempre come ci racconta Gabanelli, dal prossimo gennaio o consumate come pazzi o vi vedrete arrivare un aumento del 46%. Ribadisco

46% ! 
Il servizio della Gabi nazionale è al link ve lo vedete e ci scoprite altre cosucce.
Parrebbe buon giornalismo.
Manca un pezzo...

Alla fine, vedrete, la Gabanelli sintetizza il pensiero del legislatore in un "tutto questo è stato fatto per rendere più competitive le nostre aziende", cioè abbiamo pensato di favorirle togliendogli delle spese che poi sarebbero andate a ricadere sul prodotto finale; che dite, è facile, no? Ti tolgo un costo di modo che il tuo prodotto costando meno possa attirare la gente a comprarselo.
Lo avete capito o lo devo rispiegare? Perché vedo delle facce inebetite come se avessi sciorinato dodici trattati di fisica nucleare.
Cavolo, è facile: Dentro al prezzo del pacco di tortellini Rana che compri ci sono tutti i costi per produrlo, tutti più il guadagno - lo hai capito? - c'è un pezzetto del costo dell'operaio, del costo della corrente elettrica, del costo della scatola che contiene i tortellini, del costo di spedizione, ecc. ecc. ecc. Hai capito adesso? Alla fine il costo è 2.50 €. OK???!!!
Come ti ho detto, dentro c'è anche la corrente elettrica. Se questo costo (diciamo) lo tolgo, il prezzo alla vendita si fa più basso... magari 2,35 € e tu li preferisci al finto tortellino prodotto da un'altra ditta che potrebbe essere di proprietà straniera.
Così l'azienda sta in piedi, i lavoratori lavorano, guadagnano, ecc.
Una buona cosa, direte voi.
Certo, se non fosse che uno sconto del genere il Governo poteva anche farlo tramite una agevolazione fiscale e non farla pagare a zia Costanza. Oppure dando un incentivo in denaro alle aziende, e non sempre ricaricandolo su zia Costanza. Oppure... Insomma c'erano mille modi senza dissanguare zia Costanza!

Ma non lo puoi fare!
Perché (e qui la Gaba non unisce i puntini per noi), perché la Unione Europea non lo consentirebbe, sarebbe "aiuto di stato". Quindi, se vuoi che la tua azienda rimanga competitiva, puoi fare diverse cose, per esempio abbassare gli stipendi ai lavoratori, oppure togliergli un costo e farlo pagare ai cittadini. Questo perché le regole della UE non consentono altre soluzioni.

Basta?
No, perché il main stream è partito alla carica con una storiella che è solo la minima parte del racconto, ma agita così bene le acque da oscurare tutto il resto (che se non fosse stato per la Gaba nazionale chissà se avremmo saputo): Pagherai di più per colpa di chi è moroso!
Ci sono lunghi e articolati pezzi sulla faccenda, come questo del Sole24ore. Ma ci sono in giro anche feroci sintesi che si limitano ad aizzare "le persone corrette contro le scorrette".
Ed è stato proprio questo meccanismo a stuzzicare la mia curiosità, un meccanismo tanto simile proprio a quello del racconto dei fallimenti di Banca Etruria, Carimarche, ecc. basato su un concetto: mettere i cittadini contro i risparmiatori e i risparmiatori contro i cittadini, o pagava l'uno o l'altro.
Come se i cittadini non fossero risparmiatori e i risparmiatori non fossero cittadini ma due distinte categorie sociali.

Anche qui, si replica: cittadini contro cittadini, per nascondere il semplice fatto che a causa delle disposizioni della Unione (Unione Europea), il Governo per sostenere le grandi aziende poteva solo far pagare i cittadini. Eventualmente, le grandi aziende potevano sempre ridurre lo stipendio agli operai, sia ben chiaro. Il che voleva dire... sempre e comunque far pagare i cittadini. O vi vorrete bere anche in questo caso la bufala che cittadini ed operai sono due categorie distinte e separate? 

lunedì 12 febbraio 2018

FAVINO, IL PROGRESSISMO DEL CONSERVATORE


Ma cosa c’era di così stupefacente nel pezzo che Pier Francesco Favino ha recitato a Sanremo?
È sintomatico che nemmeno i suoi colleghi se ne siano accorti, il che ci dice a che livello è scesa la professione, poiché l’abitudine all’orrore è divenuta quotidiana frequentazione.
Eppure proprio voi, cari colleghi, dovreste lasciare agli inesperti le considerazioni sul contenuto, dovreste lasciarle ai giornalisti superficiali, ai politici e ai legulei, dovreste lasciarle a coloro che non sanno che Favino poteva fare un monologo sull’emigrazione o sulla lavastoviglie, l’effetto che avrebbe ottenuto sarebbe stato lo stesso.
Perché la vera forza del pezzo di Favino è LA FORMA, il fatto di avere mostrato come la recitazione sia un’arte che ponendo in campo i suoi strumenti, agendo sul palco secondo i propri dettami tecnici crei meraviglia. È fatta apposta, ma in troppi lo hanno dimenticato.
Lo hanno dimenticato perché quello da cui quotidianamente veniamo bombardati (ormai da decenni) è l’insipienza tecnica e artistica di pseudo attori spacciati per validi interpreti da un sistema mediatico che o vuole venderci un prodotto o vuole venderci una ideologia; bombardati dal doppiaggio che non può essere e non sarà mai una espressione recitativa pura, per due motivi: non c’è il corpo, è mimesi di altra recitazione; lo hanno dimenticato, i miei colleghi, perché ci ritroviamo mille volte su cento a confronto con registi che non sanno più cosa sia la recitazione e ti chiedono di fare cose che sono contrarie alla natura stessa dell’arte recitativa, e tu, per potere sopravvivere, sei costretto ad assecondarli; perché ci siamo abituati ad attori che biascicano e non si capisce che cazzo dicano, perché conviviamo con gente che in teatro usa il microfono dato che non conosce i fondamentali della voce, per non parlare dell’uso del corpo; lo abbiamo dimenticato perché anche noi, per sopravvivere, siamo costretti o a convivere con degli amatoriali o a osannarne alcuni facendoli passare per attori professionisti…
Quello che di Favino ha sconvolto non è la storiella del migrante, ché se ne potevano raccontare cento e centro diverse, più o meno intense. Io, quando l’ho ascoltato (su YT!) ho anche pensato che Pier Francesco pareva fare l’imitazione di Fernandel. 
Quello che vi ha sconvolto è di rivedere, da un attore, che viene dall’Accademia, dal teatro e al teatro torna quando vuole e può, è di rivedere l’arte della recitazione, di rivedere l’arte della recitazione ITALIANA, con i suoi stilemi, le sue pause, i suoi respiri, la sua espressività, la sua credibilità, il suo pensiero che si dipana nell’attore, nel suo corpo, nella sua voce.
Improvvisamente ci siamo ritrovati a fare un salto indietro nel tempo, un salto di almeno 50 anni, nelle puntate televisive di Maigret o in uno sceneggiato di Majano, quando era la norma ascoltare la recitazione italiana. Abbiamo improvvisamente rivisto noi stessi per quel che siamo e che abbiamo perso o almeno stiamo perdendo in nome di una globalizzazione culturale e dunque anche recitativa.
La recitazione è sempre un atto politico, Favino non so quanto fosse convinto di esprimere una idea progressista, di sicuro ha avuto una espressione fortemente rivoluzionaria: aver rimesso in gioco l’attore e la recitazione italiana, aver guardato al futuro nel solo modo che può darci una speranza, l’essere fortemente conservatori.
Ancora una volta è parso evidente che il progresso è tornare all'antico.   

lunedì 5 febbraio 2018

ATTORE PROFESSIONISTA E ATTORE DILETTANTE (le differenze fondamentali)

Quand'ero un giovane attore, alle prime armi, la mia amata e mai dimenticata Isabella Guidotti mi insegnava: "meglio l'ultimo dei primi che il primo degli ultimi". 

Non era nemmeno mio particolare interesse, ma ho dovuto seriamente interrogarmi su quali fossero, nella mia professione, le fondamentali differenze tra un professionista e un dilettante (o amatoriale, termine che gli dà una punta di dignità in più, ma non cambia la sostanza). 
In un'epoca in cui chiunque, poi, si sente in diritto di salire su un palcoscenico o mandare alle stampe i propri pensieri, il cercare di fissare dei termini, dei paletti, delle regole, il cercare di riflettere su parametri che possano in qualche modo definire con chiarezza, diviene ancor più importante anche se più complicato. 

Una prima cosa ve la voglio dire: tutti i cosiddetti "talent" che invadono la tv, andrebbero chiusi e/o vietati, ma soprattutto coloro che vi fanno da giudici andrebbero radiati dagli albi professionali (se vi fossero). Non perché non sia diritto delle persone esibirsi, ma perché dei professionisti che avallano con la loro presenza le performance di autodidatti, non fanno che gettare discredito sulla professione e instillare la certezza che "chiunque lo possa fare". 
Il meccanismo, a mio immodesto parere, vale tanto per i talent artistici, che per quelli di cucina. Cosa ce ne frega della cucina? Nulla, se non fosse per il fatto che ci interessano i meccanismi! 
Indecente che uno che sa fare una capriola (poiché di questo spesso si tratta, di una qualità da circo Barnum) possa essere considerato alla stregua di un vero circense che si è fatto il culo per decenni, così come indecente è che uno che mette in ordine quattro spaghetti nel piatto possa essere considerato alla pari del compianto Gualtiero Marchesi; e la colpa del riverberarsi di questo meccanismo perverso non è di chi si propone, ma di chi, a fronte di una paccata di denaro, si mette a fare il giudice. 
Dal mio punto di vista, questi fenomeni si combattono in un solo modo: cambiando canale. Ricordate sempre che se l'audience crolla, la pubblicità non viene più venduta e quel programma, se non vende pubblicità, sparisce. 
Questo, cari colleghi professionisti che vi divertite a guardare Xfactor o MasterChef pensando di assistere ancora a "La corrida" di Corrado, se vi interessa proteggere la vostra professionalità, se vi interessa unire un paio di puntini tra cose che vi sembrano lontane dal vostro quotidiano e invece lo influenzano profondamente, altrimenti fate come ve pare. 
Mi piacerebbe però che la smettesse di blaterare contro... i cachet elargiti a Sanremo se poi ogni anno state lì a guardare la kermesse. "Ma se non vedo come faccio a criticare?... Ma è solo per vedere che cavolo fanno... Voglio proprio capire come li spendono tutti quei soldi..."
Ragazzi cari, tutte queste sono emerite stronzate. Se sei un professionista lo sai benissimo cosa faranno quelli su quel palco, non hai nessun bisogno di "verificare", non ci sarà alcuna sorpresa. Quindi, cambia canale, ché ormai ce ne sono mille e non dirmi che non trovi un'altra cosa interessante da vedere. 

L'inconfessabile verità è che tu guardi Sanremo perché vorresti essere a Sanremo, guardi la D'Urso perché vorresti essere sulla poltrona di fronte a lei, perché i 'ntomila leuri dati alla Littizzetto di turno, li vorresti tu. 
E allora, che male c'è? Confessalo, non fare il finto indignato, confessalo e basta e noi ti apprezzeremo, io, almeno, ti apprezzerò. 

Detto ciò, quali sono le fondamentali differenze tra un professionista e un dilettante?
Mi direte: il fatto che uno vive fondamentalmente con i proventi di quel lavoro e l'altro no
Verissimo, ma questa sostanziale distinzione, che disegna la questione dal punto di vista pratico, implica delle diversificazioni che sono ancor più impalpabili, profonde e determinanti. Io ne identifico due che scherzosamente definisco: "la tensione di sopravvivenza" e "la tensione da precisione". 

La tensione da sopravvivenza è determinata proprio da quella semplice considerazione che anche voi avete fatto: il professionista vive solo dei guadagni che gli vengono da quel lavoro, il dilettante no. Pare nulla, ma questo cambia completamente la vostra tensione mentale, poiché ogni volta (e ribadisco "ogni volta") che salite sul palco sapete, spesso inconsciamente, che vi state giocando la pagnotta, vi state giocando un pezzo della vostra vita, non soltanto dal punto di vista pratico (bollette, affitto... prossima scrittura), ma anche psicologico: per esempio, la considerazione dei colleghi, nonché l'autostima. Ovvio che per il dilettante così non è, per il semplicissimo motivo che egli non vive dei guadagni che gli derivano dal recitare; la sua sopravvivenza dipende da altro introito, dallo stipendio che percepisce come bancario, o dalle parcelle che emette come avvocato. 
Non mi pare dunque complicato comprendere che la tensione psico-fisica del professionista sarà sempre diversa poiché agisce senza "reti di protezione". Ogni volta egli si gioca tutto! 
Una diversa tensione psico-fisica fa, per forza di cose, diversa l'espressione artistica. Dubbi, su questo, non ce ne sono. Come non ce ne sono sul fatto che la performance potrà non piacerti ma sarà sempre di qualità superiore a quella del dilettante perché costruita con strumenti che derivano da una competenza ricercata e voluta con il lavoro quotidiano e nel lavoro quotidiano, totale e totalizzante, e non con i ritagli di tempo.
Il medico potrà anche sbagliare una diagnosi, ma le sue competenze, rispetto a te che tutti i giorni leggi l'enciclopedia medica, non possono essere messe in discussione.    


Sulla base di quanto detto, non ci possono nemmeno essere dubbi sul fatto che l'espressione artistica di un professionista - sempre indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no - è perpetuamente tesa verso la ricerca della precisione
Questa, a mio vedere, è in realtà la differenza fondamentale, quella che segna compiutamente il guado tra professionismo e dilettantismo.  

Chiariamo un momento un punto: come tutti i lavori che si basano su una forte componente di artigianato, il lavoro dell'attore e del teatrante in genere, non ha bisogno della formazione teorica, né prima di affrontare il lavoro né dopo. Ogni teorizzazione è frutto di personali riflessioni che restano esterne al "gesto perfomativo", che non lo influenzano in alcun modo. Si può, insomma, recitare benissimo, sapere sempre quel che si sta facendo, senza avere mai alcun bisogno di spiegarlo, a se stessi e agli altri. Ecco perché succede che io scriva: "lo sa - o non lo sa - sia pure inconsciamente - o inconsapevolmente".   

Ebbene, in questo lavoro, fatto di consapevole incoscienza e/o inconsapevole coscienza, c'è una sorta di condizione "naturale", quella dell'essere sempre tesi alla ricerca della "recita perfetta". Un po' come Faust cerchiamo l'attimo da fermare, cerchiamo quella perfomance recitativa che ci catapulti in un'altra dimensione, una dimensione sganciata dallo scorrere del nostro tempo, una dimensione che ci rapisca e ci sospenda in un "perfetto presente" avulso dalla nostra miseria, dalla nostra quotidianità, dalla nostra caducità. Combattiamo una disperata battaglia contro il Tempo, una battaglia che sappiamo persa in partenza ma che non possiamo fare a meno di combattere. La precisione è la più forte delle armi a nostra disposizione, la cerchiamo pur sapendo che non potremo mai raggiungerla.
Attenzione: "precisione" non significa "orologio svizzero", meccanica senza scarti. Perché sappiamo benissimo che gli errori, le disattenzioni, sono parte dell'esistenza, parte della vita di un uomo, e una "esecuzione precisa" non può escludere una parte di "improbabile". Cos'è, allora, "preciso"?

Io credo che "preciso" sia un flusso del pensiero, nel quale andare a incanalarsi per esserne alla fine fine trascinati. Per far questo abbiamo bisogno del "mestiere", ne abbiamo un disperato bisogno come un chirurgo ha bisogno dell'anatomia per sapere dove fare il taglio giusto. 
Abbiamo bisogno del mestiere che ci insegna il modo di usare il corpo, la voce, la ragione, la gerarchia, il rapporto con l'altro, in scena e fuori, la conduzione di se stessi, la quotidianità della disciplina, il valore della cultura e quello dell'esperienza... ne abbiamo bisogno per tentare di condizionare questo nostro incanalarci: usiamo il controllo per cercare di perdere il controllo.  
Ma perché un dilettante non può anch'egli far questo, mi si chiederà?
Per il motivo detto in precedenza: la mancanza di dedizione totale, l'arte fatta a "ritagli di tempo", la "pittura della domenica", la non necessità

Il professionismo ha bisogno della necessità, in tutte le sue declinazioni. 


Il mattone fondamentale per essere un professionista è la totale conoscenza del mestiere.
Il mestiere è artigianato. 
L'artigianato si apprende solo a bottega, cioè da uno più grande di te che te lo insegna.
L'autodidatta non sarà mai un vero professionista.  

Per questo motivo le leggi che prevedono che i giovani possano fare da soli senza avere adeguatamente appreso il mestiere da quelli più vecchi di loro, sono contro la natura stessa della professione attoriale. La non conoscenza, da parte dei giovani, di coloro che li hanno preceduti, è offensiva per la loro stessa professione. Il tentativo tutto politico di tagliare le radici con il passato e tutto il suo portato culturale, solleticando un giovanilismo d'accatto e proponendo ai vertici del nostro Teatro attori che, come si evince dai loro CV, non sono mai stati a bottega, è infamante per un Teatro che ha insegnato al mondo l'arte della recitazione: il nostro, il teatro italiano. 
Per questo e per molti altri motivi saremo qui, per quanto piccoli, a non consentire che il nostro mestiere, e quindi la nostra professionalità, sia liquefatta nel mare magno della globalizzazione culturale. Il Teatro, e dunque l'Attore, per crescere ha perennemente bisogno di interscambio culturale. L'omologazione può solo essergli nemica poiché sopprime questo interscambio. Il Teatro ha bisogno di confini, nazionali quando non addirittura regionali. Solo così potrà seguire a pieno la sua vocazione che è quella di uscire dai propri confini per portare la propria particolarità, la propria unicità.  

La fondamentale differenza tra un professionista e un dilettante è la ricerca della precisione. Vi fareste mai operare da un chirurgo che non tagli precisamente? 
Io no.  

giovedì 1 febbraio 2018

LA REPUBBLICA DEI GIORNALISTI

Sta accadendo una cosa che ha del paradossale, e che potete facilmente osservare, se non avete consuetudine con i quotidiani, assistendo ai vari programmi politici dei quali è disseminata la televisione italiana.
Siamo in campagna elettorale, e questo lo abbiamo capito tutti per forza di cose anche se non avessimo voluto saperlo. I politici si alternano nei vari salotti tv e snocciolano le loro proposte.
Queste proposte non nascono per caso, e sempre più hanno riscontro e dettagli espositivi in libricini, siti internet, brochure, manifestini ecc.
Non mi metto dalla parte di nessuno, perché il meccanismo che osservo sta colpendo tutti.
Ebbene, quasi sempre queste proposte - che vengono dalla stampa definite "promesse" e già questo è una chiara indicazione dell'atteggiamento mentale, ma ci torno dopo - queste proposte sono supportate da studi di esperti, analisi e dati. Ora voi vi aspettereste che un politico di parte avversa si scagli contro la proposta fatta dall'avversario e la contesti, la smonti, ne mostri la inconsistenza.
Non si fa a tempo. Non scherzo, non si fa a tempo. Perché prima ancora che il politico di parte avversa riesca ad articolare il discorso, c'è un giornalista che ha già stabilito che "non si può fare!".
Non so se avete capito, se mi sono spiegato bene: le proposte dei politici, di qualsiasi parte siano, sono bocciate dai giornalisti i quali stabiliscono quello che si può e quello che non si può fare, e in genere "non si può fare!".
A mia memoria, una cosa del genere non l'avevo mai vista, non mi era mai accaduto di vedere questa sorta di "partito dei giornalisti", che si oppone alle proposte della politica e mette la politica in un angolo, ne sminuisce il valore, spesso ne sottoscrive la inutilità. Si ha come l'impressione che ci sia un "gruppo di giornalisti padroni della repubblica". Capito, adesso, perché definire le proposte, "promesse", le svilisce? Perché per anni abbiamo sentito che "i politici non hanno mantenuto quello che hanno promesso in campagna elettorale", con una critica che era sviluppata al passato; oggi si va direttamente sul futuro: se sono promesse state pur certi che come hanno sempre fatto non le manterranno.
Non si può, alla fin fine, non chiedersi: a chi giova?
Perché se è vero che i giornalisti sono dei dipendenti... il loro "partito", in questo caso lavorerebbe per chi?
Ovviamente da anni i giornalisti si affannano anche a deridere la categoria dei "complottisti", categoria creata ad hoc in questi decenni, perché i complotti ci sono sempre stati, le corti ne erano piene... soltanto oggi ci si meraviglia e si stigmatizza il fatto che qualcuno ipotizzi che dietro un certo comportamento ci sia qualcosa di strano.