giovedì 31 marzo 2016

GLI ITALIANI E L'AUTORAZZISMO

Ieri sera ero, come ogni mercoledì, all'Università Popolare di Torino per la consueta lezione di Inglese.
Ebbene sì, non ostante le mie precedenti dichiarazioni, anche io mi sono arreso alle necessità che dominano il mondo contemporaneo.
Con scarsi risultati, devo ammetterlo, e ho il sospetto che tale inconcludenza sia comunque il frutto di un inconscio e imperituro rifiuto, perché tanto, è una lingua che non riesco a comprendere. Non la capisco - che posso farci?! - non nelle frasi o nelle parole, questo è ovvio, ché quelle basta studiarle, memorizzarle e si va avanti, ma nel suo senso. Tanto per farvi sorridere e fare un esempio, non capirò mai perché nel verbo "Avere" (To Have), al cambio della terza persona singolare (I have, you have, he - she - it HAS), non corrisponde uno stesso cambio alla terza plurale (we have, you have, they HAVE). Vi sembrerò folle, ma memorizzarlo così, mi è decisamente più difficile.
Il luogo comune è: "L'inglese è facile". Mi rassicurano sempre tutte le insegnanti che ho incontrato: "L'inglese non è facile". E certo: nessuna lingua è facile, non esiste una lingua facile. Facile può essere solo il modo di comunicare "perché tanto ci si capisce", e allora questo vale per qualsiasi lingua.
Ma il luogo comune è un mostro durissimo da sconfiggere, una sorta di terremoto inarrestabile dal quale è quasi impossibile salvarsi, e se è vero - e io credo che sia vero - come dice il dott, Freccero che "tutti, cinque minuti al giorno siamo fascisti", è per me altrettanto vero che tutti, almeno tre minuti al giorno, siamo "luogocomunisti" (e si ringrazia Alberto Bagnai per la deliziosa definizione).
Il che mi porta anche a pensare che tra luogocomunisti e fascisti ci sia una relazione più stretta di quanto pensiamo.

Accade dunque che durante la lezione, la simpatica insegnante si sofferma qualche minuto a fare un po' do conversazione (o "conversation" come dicono loro), e ci parla di un suo viaggio pasquale a Francoforte, e ci invita a comporre delle domande, in inglese ovviamente.
Alla domanda su quali siano i luoghi culturali che ha visitato, io già penso che a Francoforte mi sa che c'è poco da vedere. E infatti ella risponde che la cosa interessante erano i tanti paesini antichi che sono poco distanti dalla città.
Tralasciamo che per "poco distanti" intendeva, come ha poi specificato, 140 - 190 km. Per me, che sono salernitano, un borgo interessante è Cava de' Tirreni, 5 chilometri da Salerno...
La cosa che l'aveva più colpita erano... le decorazioni pasquali. Ammazza quante antichità!
E le mura delle cittadine. XIV, XV, XVI secolo. Ammazza quanta arte!
E io che stavo ancora fermo alle chiese e ai dipinti.
E soprattutto, ha detto, era stupefatta perché c'erano per le strade tante uova dipinte a mano (non si è capito messe dove, o forse non l'ho capito io visto che lo diceva in english), e nessuna di queste uova era rotta! Ammazza che annotazione!

Ed ovviamente, a questo punto, con il supporto della platea, è partito il solito panegirico sulla civiltà tedesca e la totale inciviltà italiana, che ha i suoi corposi riflessi anche nella nordica Torino, dove al tempo delle Olimpiadi avevano messo delle fioriere lungo il LungoPo e dopo qualche giorno le avevano trovate rotte o non le avevano trovate proprio più. E poi come erano carini questi paesini, che le porte avevano chiavi semplici perché non c'erano ladri, e che tutto era ordinato e pulito e...
Ammazza, ho pensato, Torino è come Napoli; o come Napoli viene raccontata, perché io, nei giorni del G7 partenopeo, non ho visto un solo spillo sparire e il capoluogo campano pareva... la solita Svizzera.
Ma a questo punto la platea degli allievi si è scatenata: altra civiltà, peccato per il clima altrimenti sarebbe un paradiso, da noi sarebbe impossibile, il chiosco dei giornali senza edicolante dove tutti lasciano i soldi, da noi non si può fare, la fortuna è che lì ci sono i tedeschi...

Su "la fortuna è che lì ci sono i tedeschi", ho sentito di intervenire, ma qualcosa mi ha frenato.
Avrei voluto chiedergli se li hanno mai osservati per bene i Sàssoni in vacanza, quando vengono da noi, quando pensano che in questo Paese si possa fare quello che si vuole, e fanno quello che vogliono anche se i vigili urbani li richiamano all'ordine, quando si siedono fuori ai bar con le camicie aperte e loro pance orrende gonfie di birra a tracannare boccali di "pane liquido" anche da 1 litro; quando fanno foto dove gli viene chiaramente detto che non è consentito, e via dicendo... e facendo.
Ma, francamente, non era e non è la denigrazione del popolo tedesco ad interessarmi.
Quello che mi colpiva profondamente era il peggior sentimento da cui un popolo possa essere attraversato, sentimento del quale, essendo meridionale, mi sento un valente esperto: l'autorazzismo!

La facilità con cui quegli italiani intorno a me parlavano male degli italiani era sconcertante, senza nessun appello, senza alcuna scusante, senza un briciolo di motivazioni o comprensioni.
Noi siamo una razza inferiore e per questo dobbiamo soffrire!
La civiltà è al Nord.

Ora, sentire dei polentoni che parlano così di loro stessi, da meridionale che per anni ha sentito queste cose, avrebbe dovuto farmi gongolare, ma siccome voglio bene al mio Paese, soprattutto nelle sue mille diversità, che spero siano sempre sostenute ed evidenziate, poiché sono la sua vera ricchezza, ero incazzato nero! Ho chiuso il quaderno e ho cortesemente e silenziosamente salutato.

Questa nostra Italia, io credo, è una fantastica nazione con un fantastico popolo. Popolo però malato di due mali quasi incurabili: il concetto del "Io mi faccio i fatti miei" e, appunto, l'autorazzismo.
Autorazzismo che, badate bene, non si rivolge a noi italiani nel complesso, ma sempre da italiano che è sicuro di essere civile, ad altri italiani che lui è sicuro siano incivili.
Certo, perché una delle meravigliose nostre caratteristiche è sempre quella di puntare il dito verso gli altri, io che parlo sono sempre escluso dal discorso, quasi che "io sono italiano, ma gli incivili sono gli italiani, non io", e dunque il gioco è perfetto: io posso sempre parlare.
Se poco poco qualcuno di quegli allievi italiani si fosse reso conto che parlando "degli italiani" parlava di se stesso, sarebbe scattato, automatico, l' "io no, io sono civile!".
E se gli avessi fatto notare che tra cinquanta allievi nessuno diceva di sé di essere incivile, allora chi erano gli incivili, ovviamente avrebbero risposto: quelli al di fuori di quel contesto, gli altri.
Ché alla fine, tradotto, "gli altri" significava comunque "gli italiani".

Insomma, un circolo vizioso dal quale non si esce. Ecco perché poi ho preferito non parlare e andarmene, per non alimentare una inutile discussione, che, così come quelle menti erano pienamente invase dal luogocomunismo, so bene si sarebbe spostata, a poco a poco, su altri luogocomunismi.

Ieri sera, ho toccato con mano quanto il potere dei media che parlano sempre di noi come di un popolo inetto, sia potente e abbia devastato le nostre menti e le nostre anime. Inutile dimostrare con numeri e fatti che non è così, che abbiamo i nostri meriti, indiscutibili, le nostre qualità, lo sport nazionale preferito non è il calcio, ma l'autorazzismo.

È che io sono preoccupato, questa storia dell'autorazzismo l'ho già vista, l'ho vista nella mia terra e sentita tante volte quando da bambino sentivo parlare della civiltà del Nord come di una chimera inafferrabile, di un mito da emulare. E so come è andata a finire.
La Storia si ripete, perché se ne vogliono ignorare i meccanismi. E come un main-stream asservito ci raccontò la favola del Nord Italia bello ed efficiente, così oggi ci racconta quella del nord europa bello ed efficiente. E noi, supinamente, cosa facciamo? Ripetiamo il racconto che ci fanno, credendoci, credendoci a più non posso. Ripetiamo le parole che ascoltiamo, allo stesso modo in cui un bambino pronuncia la parola "mamma" automaticamente nella lingua che sente dal momento della sua venuta al mondo. Noi parliamo la lingua che ascoltiamo. E ormai ripetiamo il racconto che ascoltiamo, senza porci il minimo dubbio.
Ma senza dubbi, non si va da nessuna parte. O meglio, si va lì dove il "potere" ha deciso di mandarci: nella notte più nera.

2 commenti:

  1. Vorrei esporre un bel esempio di autorazzismo trovato sulla rete,che calza a pennello con quanto scritto sull'articolo, vecchio di quasi tre anni.

    Era il periodo nel qualche il famoso software photoshop passava dalla versione cs alla cc, in sostanza da un metodo di pagamento di mille e passa euro a botta a un semplice abbonamento mensile. Non si compra più il software ma la licenza d'utilizzo.

    Polemiche su internet, in tutte le lingue, preoccupazioni reali e alcune insensate... insomma, il solito.

    In quel periodo avevo letto un articolo, di un professionista del settore, che esaltava il passaggio al cc. Ma metà del suo articolo riguardava il carattere genetico degli italiani che, essendo mentalmente rimasti all'età della pietra, non vogliono accettare un sistema più dinamico, moderno, flessibile e migliore di quello con cui siamo nati.

    Insomma... oltre che scambiare questo sistema di aggiornamento come morderno, quando per alcuni programmi e sistema operativi esistevano da almeno quindici anni. Sembra sempre l'ora per dell'autorazzismo, anche quando noi non centriamo nulla.

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  2. Assolutamente d'accordo. L'autorazzismo è un virus da estirpare. È il peggior male di questo Paese, perchè apre le porte a chi lo vuole spolpare vivo.

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