Sabato sera sono
stato al Teatro Alfieri di Torino a vedere lo spettacolo di Vincenzo Salemme.
Ma che dico “a vedere”, a godere dello spettacolo dell’attore e drammaturgo
napoletano: sala stracolma, risate e applausi a profusione, commozione finale.
Per un teatrante come me, un vero piacere dell’anima.
Vincenzo Salemme |
“Sogni e
bisogni”, scritto, diretto e interpretato da Salemme, insieme ad una compagnia
di bravi attori – tra i quali Nicola Acunzo, Domenico Aria, Sergio D'Auria, Susy
Del Giudice, Antonio Guerriero – è decisamente una simpatica storia.
Il richiamo a “Io
e Lui” di Alberto è abbastanza facile, si tratta, infatti, della irruzione
nella vita di un uomo del proprio pène, che staccatosi dal “proprietario” si
ribella a una situazione personale, familiare, sessuale di degrado morale e
fisico. Un pène, insomma, che protesta per la propria umiliante inattività e
per lo spegnimento, nell’animo del suo padrone, di qualsivoglia desiderio.
Da tale
paradossale assunto, nascono, è facile comprenderlo, una serie di comiche
situazioni che spingono il “proprietario” a rivedere tutta la propria
esistenza, situazioni condotte non solo con la forza dirompente della commedia
comica di grande tradizione napoletana, ma con un gusto che incanta. Non
ostante la “scabrosità” dell’argomento, mai una volgarità, basti segnalare che
al Lui, con spiritosissima levità è dato il nome di “Tronchetto della felicità”
.
Non ho mai
scritto una recensione teatrale in vita mia, e non comincerò ora. Mi è sempre
parso come un conclamato “conflitto di interessi” (ognuno ha i propri!), e
concluso questo breve tratto necessario per farvi comprendere di cosa sto
parlando, passo al vero motivo di riflessione suscitatomi dalla visione dello
spettacolo di Salemme.
Lo spettacolo si
conclude con un monologo del protagonista, malinconico, dolente, triste, nel
quale egli espone i motivi di una paura collettiva che è ormai dentro di noi e
che noi consapevolmente o no trasmettiamo e insegnamo ai nostri figli. È il
misero segno dei tempi, tempi che corrono in modo così veloce che chiunque
voglia porsi il compito di essere un buon padre non riesce comunque a stargli
dietro. Qualcosa è, in noi e attorno a noi, che ci conduce su una strada di
sconfitta e tristezza. E noi siamo spaesati, senza più punti di riferimento,
superati nel nostro stesso essere uomini da un qualcosa che resta oscuro e che
sentiamo sulle nostre stesse spalle. Ne sentiamo il peso e non lo vediamo, non
lo conosciamo.
Un pezzo bello,
intenso, scritto quasi tutto in versi come un amaro canto dell’anima.
Due stagioni fa
ero scritturato con Sebastiano Lo Monaco per un delizioso (scusate l’auto
incensamento) “Non è vero... ma ci credo” di Peppino De Filippo, con la regia
di Michele Mirabella, e la partecipazione di Lelia Mangano De Filippo, e altri
bravi compagni di lavoro. Anche lì teatri pieni e gente che rideva e rideva con
sublime piacere.
Liguori e Lo Monaco in "Non è vero... ma ci credo" |
È bello,
bellissimo sentir ridere la gente, ve lo assicuro, ti dà la netta sensazione,
immediata, concreta, che stai davvero donando qualcosa. Il Dramma, la Tragedia
hanno altri piaceri, a volte anche più intensi, profondi, forse “a scoppio
ritardato”, ma certamente diversi.
Comunque sia,
sentir ridere è bellissimo.
E ridere è
bellissimo. Ridere – è ormai comprovato – fa bene, fa bene alla nostra salute.
C’è addirittura una branca dello yoga, ne parlai qui denominata
lo “Yoga del sorriso”, che insegna proprio questo, a usare il riso per
migliorare la nostra condizione fisica e mentale.
La sensazione è
quindi quella che stai somministrando una benefica medicina.
Ecco, lo intuii
durante quelle repliche di “Non è vero... ma ci credo”, e sabato sera da
Salemme ne ho avuto netta conferma: in questi tempi grigi, tristi, talvolta
decisa-mente noiosi, in questi tempi dove si ha la netta sensazione che “il
Potere” ci voglia tristi e impauriti,
che qualcosa e qualcuno ci governino attraverso l’instillazione di una paura
continuata e diffusa, far ridere la gente diviene un piccolo ma significativo
atto sovversivo, la dichiarazione possente, da parte del pubblico, di un “noi
non abbiamo paura, noi ridiamo, di noi, di voi e di tutto”!
Bello, vero?
Bellissmo.
Ma... c’è un
piccolo ma fondamentale “ma”.
Non basta il “far
ridere”, in questi tempi di degrado diviene fondamentale il come si fa ridere.
Il livello delle
professionalità, l’ho raccontato altre volte, si sta maledettamente
abbassando, il libero mercato non esalta le professionalità, le abbassa sempre
più, poiché la chiave determinante è “il costo”, e di ribasso in ribasso si
corre sempre più velocemente verso la vittoria del teatro amatoriale sul teatro
d’arte e professionale.
I meccanismi del
teatro comico sono antichi e difficili, vanno appresi, frequentati, rigenerati in
noi continuamente, passati di mano in mano come un artigianato antico che
conosce solo il passaggio attraverso l’oralità e la pratica. Affondano le loro
radici in schemi e stilemi, in moduli operativi perfezionati e consolidati dal
tempo e dalla pratica di centinaia di bravi attori che hanno frequentato il
genere prima di noi.
È un “mestiere”,
una forza che si rigenera di volta in volta e che nessuno può improvvisare, e
che spesso nemmeno la formazione accademica ti consegna. Io stesso, che faccio
questo lavoro da quasi 35 anni, ho appreso extra accademia quelle tecniche,
stando accanto a mostri sacri come Carlo Giuffrè, Regina Bianchi, Antonio
Casagrande, e a bravi attori di grande mestiere come Sergio Solli o Antonella
Morea. Eppure, sento chiaramente, c’è ancora tanto da apprendere.
Chiesi una volta
a Giuffrè, quasi indispettito perché non riuscivo a capire, a schematizzare, a
intellettualizzare: “Maestro, mi spieghi per favore, come fate voi (tra
napoletani ci si dà del Voi) a dire con tanta sicurezza: se fai così viene la
risata, se fai così viene la risata e l’applauso?”. Era un mistero, una tecnica
che volevo, volevo apprendere. Giuffrè sorrise, e mi seppe solo dire: “Eh... è
una cosa che... non so spiegartelo... Tu hai fatto poco teatro comico, è vero?
È una cosa che si impara... facendolo, non te lo so dire. Un istinto che si
impara...”.
Non basta uno Zelig, o un Made in Sud, la becera velocità di quattro battute del
tritacarne televisivo, ci vuole un mestiere che non si improvvisa, e che incontrovertibilmente si apprende da quelli più grandi di noi.
Far ridere i
compagni di scuola con l’imitazione dei professori non è far ridere da attori,
è far ridere da dilettanti. E il mio vecchio maestro, Mario Ferrero, ripeteva
sempre che diffidava degli attori che facevano le imitazioni. Allora non
capivo, oggi sì.
In quelle risate
allo spettacolo di Salemme c’era una doppia opposizione al potere: quella che
ci vuole tutti impauriti, ma pure quella che si oppone al degrado della nostra
professione.
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