martedì 5 aprile 2016

SALEMME E LA RISATA COME OPPOSIZIONE POLITICA

Sabato sera sono stato al Teatro Alfieri di Torino a vedere lo spettacolo di Vincenzo Salemme. Ma che dico “a vedere”, a godere dello spettacolo dell’attore e drammaturgo napoletano: sala stracolma, risate e applausi a profusione, commozione finale. Per un teatrante come me, un vero piacere dell’anima.
Vincenzo Salemme
“Sogni e bisogni”, scritto, diretto e interpretato da Salemme, insieme ad una compagnia di bravi attori – tra i quali Nicola Acunzo, Domenico Aria, Sergio D'Auria, Susy Del Giudice, Antonio Guerriero – è decisamente una simpatica storia.
Il richiamo a “Io e Lui” di Alberto è abbastanza facile, si tratta, infatti, della irruzione nella vita di un uomo del proprio pène, che staccatosi dal “proprietario” si ribella a una situazione personale, familiare, sessuale di degrado morale e fisico. Un pène, insomma, che protesta per la propria umiliante inattività e per lo spegnimento, nell’animo del suo padrone, di qualsivoglia desiderio.
Da tale paradossale assunto, nascono, è facile comprenderlo, una serie di comiche situazioni che spingono il “proprietario” a rivedere tutta la propria esistenza, situazioni condotte non solo con la forza dirompente della commedia comica di grande tradizione napoletana, ma con un gusto che incanta. Non ostante la “scabrosità” dell’argomento, mai una volgarità, basti segnalare che al Lui, con spiritosissima levità è dato il nome di “Tronchetto della felicità” .

Non ho mai scritto una recensione teatrale in vita mia, e non comincerò ora. Mi è sempre parso come un conclamato “conflitto di interessi” (ognuno ha i propri!), e concluso questo breve tratto necessario per farvi comprendere di cosa sto parlando, passo al vero motivo di riflessione suscitatomi dalla visione dello spettacolo di Salemme.

Lo spettacolo si conclude con un monologo del protagonista, malinconico, dolente, triste, nel quale egli espone i motivi di una paura collettiva che è ormai dentro di noi e che noi consapevolmente o no trasmettiamo e insegnamo ai nostri figli. È il misero segno dei tempi, tempi che corrono in modo così veloce che chiunque voglia porsi il compito di essere un buon padre non riesce comunque a stargli dietro. Qualcosa è, in noi e attorno a noi, che ci conduce su una strada di sconfitta e tristezza. E noi siamo spaesati, senza più punti di riferimento, superati nel nostro stesso essere uomini da un qualcosa che resta oscuro e che sentiamo sulle nostre stesse spalle. Ne sentiamo il peso e non lo vediamo, non lo conosciamo.
Un pezzo bello, intenso, scritto quasi tutto in versi come un amaro canto dell’anima.

Due stagioni fa ero scritturato con Sebastiano Lo Monaco per un delizioso (scusate l’auto incensamento) “Non è vero... ma ci credo” di Peppino De Filippo, con la regia di Michele Mirabella, e la partecipazione di Lelia Mangano De Filippo, e altri bravi compagni di lavoro. Anche lì teatri pieni e gente che rideva e rideva con sublime piacere.

Liguori e Lo Monaco in "Non è vero... ma ci credo"
È bello, bellissimo sentir ridere la gente, ve lo assicuro, ti dà la netta sensazione, immediata, concreta, che stai davvero donando qualcosa. Il Dramma, la Tragedia hanno altri piaceri, a volte anche più intensi, profondi, forse “a scoppio ritardato”, ma certamente diversi.
Comunque sia, sentir ridere è bellissimo.
E ridere è bellissimo. Ridere – è ormai comprovato – fa bene, fa bene alla nostra salute. C’è addirittura una branca dello yoga, ne parlai qui denominata lo “Yoga del sorriso”, che insegna proprio questo, a usare il riso per migliorare la nostra condizione fisica e mentale.
La sensazione è quindi quella che stai somministrando una benefica medicina.

Ecco, lo intuii durante quelle repliche di “Non è vero... ma ci credo”, e sabato sera da Salemme ne ho avuto netta conferma: in questi tempi grigi, tristi, talvolta decisa-mente noiosi, in questi tempi dove si ha la netta sensazione che “il Potere” ci voglia tristi e impauriti, che qualcosa e qualcuno ci governino attraverso l’instillazione di una paura continuata e diffusa, far ridere la gente diviene un piccolo ma significativo atto sovversivo, la dichiarazione possente, da parte del pubblico, di un “noi non abbiamo paura, noi ridiamo, di noi, di voi e di tutto”!

Bello, vero? Bellissmo.
Ma... c’è un piccolo ma fondamentale “ma”.

Non basta il “far ridere”, in questi tempi di degrado diviene fondamentale il come si fa ridere.
Il livello delle professionalità, l’ho raccontato altre volte, si sta maledettamente abbassando, il libero mercato non esalta le professionalità, le abbassa sempre più, poiché la chiave determinante è “il costo”, e di ribasso in ribasso si corre sempre più velocemente verso la vittoria del teatro amatoriale sul teatro d’arte e professionale.
I meccanismi del teatro comico sono antichi e difficili, vanno appresi, frequentati, rigenerati in noi continuamente, passati di mano in mano come un artigianato antico che conosce solo il passaggio attraverso l’oralità e la pratica. Affondano le loro radici in schemi e stilemi, in moduli operativi perfezionati e consolidati dal tempo e dalla pratica di centinaia di bravi attori che hanno frequentato il genere prima di noi.
È un “mestiere”, una forza che si rigenera di volta in volta e che nessuno può improvvisare, e che spesso nemmeno la formazione accademica ti consegna. Io stesso, che faccio questo lavoro da quasi 35 anni, ho appreso extra accademia quelle tecniche, stando accanto a mostri sacri come Carlo Giuffrè, Regina Bianchi, Antonio Casagrande, e a bravi attori di grande mestiere come Sergio Solli o Antonella Morea. Eppure, sento chiaramente, c’è ancora tanto da apprendere.
Chiesi una volta a Giuffrè, quasi indispettito perché non riuscivo a capire, a schematizzare, a intellettualizzare: “Maestro, mi spieghi per favore, come fate voi (tra napoletani ci si dà del Voi) a dire con tanta sicurezza: se fai così viene la risata, se fai così viene la risata e l’applauso?”. Era un mistero, una tecnica che volevo, volevo apprendere. Giuffrè sorrise, e mi seppe solo dire: “Eh... è una cosa che... non so spiegartelo... Tu hai fatto poco teatro comico, è vero? È una cosa che si impara... facendolo, non te lo so dire. Un istinto che si impara...”. 

"L'intelletto" andava messo da parte, e  in quel “non te lo so dire, si impara sul campo”, c’è tutta la professionalità del far ridere.
Non basta uno Zelig, o un Made in Sud, la becera velocità di quattro battute del tritacarne televisivo, ci vuole un mestiere che non si improvvisa, e che incontrovertibilmente si apprende da quelli più grandi di noi.

Far ridere i compagni di scuola con l’imitazione dei professori non è far ridere da attori, è far ridere da dilettanti. E il mio vecchio maestro, Mario Ferrero, ripeteva sempre che diffidava degli attori che facevano le imitazioni. Allora non capivo, oggi sì.

In quelle risate allo spettacolo di Salemme c’era una doppia opposizione al potere: quella che ci vuole tutti impauriti, ma pure quella che si oppone al degrado della nostra professione.




Nessun commento:

Posta un commento

dite pure quel che volete, siete solo pregati di evitare commenti inutili e volgarità.