venerdì 25 marzo 2016

DAL SUD UNA RICETTA (forse piccola) ANTI-RADICALISMO

Provate a passeggiare per Spaccanapoli nella pausa pranzo. Vedrete decine di ragazzi che escono dall'Università, che sia la Federico II o L'Orientale, i quali girano con una fumante pizza tra le mani, o un sacchetto di "panzarotti", una frittatina di maccheroni, o una pizza fritta.
È il cibo da strada di Napoli, quello di praticamente sempre, quello della tradizione.
Kebab in giro non se ne vedono.
Nessuna guerra etnico religiosa. Semplicemente i ragazzi napoletani preferiscono le cose di casa loro. Stessa scena potrete osservare per le vie di Palermo o di Catania, tra "pane e panelle" e arancini/e.

Per motivi lavorativi mi è capitato di vivere a Napoli per mesi interi. Non ricordo di aver visto un ristorante giapponese. Ce ne saranno, ma non con la stessa densità di Milano o Torino, e i cinesi sono in penoso disuso.
Il kebabbaro al Sud non attacca, e all'egiziano conviene imparare a fare la pizza piuttosto che provare a vendere falafel. E se poi frequentate i social, vi sarà certo capitato di vedere quei video dove vispi bambini di colore cantano e ballano al ritmo di antiche canzoni napoletane, chiedendo l'elemosina, mentre il papà suona spericolatamente il bongo.

In questa faccenda del radicalismo e del terrorismo islamico ci sono molte cose da dire, tante considerazioni e riflessioni da fare, ma forse il Sud può insegnarci qualcosa di pratico e diretto.
Avere radici estremamente forti ti evita di essere assorbito dalle "abitudini" altrui; tende anzi a costringere l'altro ad adattarsi alle tue abitudini.
Ai giovani di Napoli o di Palermo piace il kebab, ma se devono scegliere tra una pizza "piegata a libretto" e un kebab, scelgono la cara vecchia pizza.
Certo, nel nostro Sud le condizioni economiche non invogliano il migrante a fermarsi, e la condivisione di povertà crea situazioni di coesistenza meno cruente, ma a questo si affianca di sicuro una forza delle tradizioni che non ti fa avere paura del diverso. Se sono, insomma, sicuro di me stesso, della mia storia, della mia terra, delle mie tradizioni, da un lato non provo attrazione per il diverso, dall'altro è il diverso che è costretto ad adattarsi a me, evitando di creare comunità parallele.

In tal senso possiamo rilevare che il nascere, crescere e prosperare di quartieri ghetto, o di comunità che quasi si autogestiscono, ha di sicuro un punto di contatto con la perdita della propria cultura e della propria identità. Chi ha radici più forti resiste meglio all'impatto con la tempesta, chi non le ha... beh, comincia a vivere nella costante paura anche perché non sa più quali siano i suoi punti di riferimento.

E a questo punto sorge la domanda: l'Europa è - o era - un posto fantastico proprio perché ricco di migliaia di diversità fortemente radicate nei loro territori, siamo proprio sicuri che la perdita delle radici in nome di un sogno di unificazione costruito sulla perdita delle radici ci porti nella giusta direzione?
Fino ad oggi ci hanno indicato come modelli di integrazione i grandi processi inclusivi del Nord: Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio... e ad oggi appare evidente che questi modelli si siano rivelati tutti fallimentari.
E se dessimo una occhiatina al Sud?









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