La conclusione del nostro percorso. Ringrazio coloro che hanno avuto la bontà di seguirmi, non siete stati tanti (perché nasconderlo), ma dai riscontri avuti, certamente appassionati. E questo fa piacere. Se contasse solo "l'audience" (che pure conta!) ci sarebbero "scrittori" contemporanei che conterebbero più di Dante. Fortunatamente non è così.
Un dovuto riassunto delle "puntate" precedenti per chi arrivasse solo ora, e poi la conclusione. Anche questa ultima giornata, come quella precedente, tutta di seguito (ci sono discorsi che non si possono interrompere...), e ancora grazie, di cuore.
Ultima
giornata
«Oggi non posso
nascondere un po’ di malinconia nell’ “annunciarvi solennemente” quello che
tutti voi già sapete: è la nostra ultima giornata!
Malinconia, sì. Oddio,
una lieve malinconia, non esaltatevi troppo, mia cara, mia tenera “gioventù
bruciata”. Perché quando si è stati in buona compagnia, quando lo scambio
affettivo è stato sincero (e sento che il nostro lo è stato), è difficoltoso
staccarsi; difficoltoso perché è un po’ come staccarsi da se stessi, staccarsi
da una creatura cui si è dato amore e attenzione, cui ci si è dedicati, ed
accogliere il momento in cui questa creatura dovrà viaggiare da sola, senza più
il nostro sguardo presuntuosa-mente e velleitaria-mente vigile su lei, è un po’
come prendere irrimediabilmente coscienza degli anni che passano, e che un
giorno passeranno definitivamente.
Con voi, in questi pochi
giorni, poche ore, sono stato bene, molto bene. Vi ringrazio dal più profondo
del cuore. Avete stimolato i miei pensieri, mi avete costretto a cercare nuovi
modi di dire vecchie cose ed anche costretto a capirne meglio altre per
potervene parlare; ma soprattutto, in questi nostri pochi giorni – non ve lo
nascondo – sono stato bene con Alfonso Gatto; sono stato bene con il dovermi
occupare a tempo pieno di lui, dei suoi scritti, sono – almeno spero – cresciuto
ancora un po’ nel ripensare a cose che molte volte avevo letto senza
comprenderle fino in fondo. Sono stato felice nel leggere i suoi piccoli/grandi
meravigliosi pensieri, ed in essi, ogni giorno, ho visto qualcosa non solo di
lui, ma di un possibile me.
Ma
oggi, la creatura che io sento di dover lasciare andare, non siete voi, non è
questo mio spero appassionato discorso, ma quella che questo discorso ha fatto
nascere in voi. È una creatura, un figlio (non ho timore a definirlo così) che
non conosco né conoscerò mai, ma che sono certo esiste ed esisterà sempre, e
che chissà in quale bizzarro modo elaborato dalla vita, forse irriconoscibile a
me e a voi stessi, un giorno passerete a qualcun altro. È la Poesia, che corre,
silenziosa sovrana, nel cuore dell’uomo. Ad alcuni è dato di esercitarla nelle
forme canoniche, ad altri di viverla in forme apparentemente irriconoscibili:
un abbraccio, un sorriso, la composizione di una pagina tipografica, sfornare
una pizza, redigere un ricorso per un Tribunale, rimettere in sesto la lamiera
di un auto, dare calci a un pallone, curare una malattia, insegnare le
tabelline… non so… è dovunque. Dovunque noi siamo con l’onestà verso noi stessi
e verso gli altri di mettere sempre tutto il nostro cuore in gioco.
“Sono un uomo di cuore”
scrive Gatto. Saremo, siamo noi capaci di essere in ogni istante “uomini di
cuore”? Non lo so, non so nemmeno se io lo sono. Ma so che possiamo provarci. E
già solo il provarci è riuscirci.
Ho
guardato spesso, nella mia vita, a quella luna così incredibilmente grande sul
golfo di Salerno, della mia, della sua Salerno. Solo un’illusione ottica, nulla
di più. Ed ogni volta, guardandola, mi sono chiesto che cosa siano “le radici”,
cosa voglia dire “avere delle radici”. Oggi vi dico: nulla. Terre, città,
nazioni, regioni, confini… tutte cose che non esistono. Gli uomini non sono
diversi, gli uomini sono uguali. La diversità non è un valore, è solo una
stupida cosa che non esiste, e con cui il nostro tempo si scontra, sforzandosi
in ogni modo di pensarla positivamente come una ricchezza, ma l’unica
ricchezza, credo, è capire che la diversità non esiste, capire che tutti gli
uomini, nei punti più lontani della terra e del tempo, amano, organizzano le
loro società, mangiano in forme diverse le stesse cose, bevono acqua (quelli
che ne hanno, sic!), adorano divinità, sperano che ci sia qualcosa dopo la
morte, litigano, crescono i figli, qualcuno li abbandona… Facciamo tutti le
stesse cose, in fondo. Sempre. Anche poesia, e anche poesia nelle forme
canoniche. Gatto ha ragione, Alfonso Gatto, soprannominato “il poeta con la
valigia”, ha ragione: “essere alle radici è essere nel sangue”, e “il sangue è
tutto rosso” ha detto qualcuno, ecco perché gli uomini sono tutti uguali.
Così, ognuno ha i suoi
poeti e ognuno ama i suoi propri poeti. A me piace Alfonso Gatto, ma forse voi,
che pure avrete amato questa conversazione, non sceglierete Gatto e andrete
verso altri poeti. Che magari non usano la penna ma i piedi, un pennello, una
bicicletta. Sono certo che Gatto non si offenderebbe. A Gianni Rivera, uno dei
più grandi calciatori di sempre, egli stesso, in una lettera aperta su “Il
giornale” allora diretto da Indro Montanelli, scrisse: “lei è un poeta”. E lo
stesso Gatto, parlando della sua vocazione ha scritto – ricordate, lo abbiamo
letto all’inizio –: “Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che
non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi.”
Ecco, forse adesso,
giunti al nostro ultimo incontro, per raccogliere le fila e riportarci per un
attimo al campo letterario, se la vita – come Gatto dice – è nella presenza dei poeti, quello che dobbiamo ancora chiederci è:
chi è, cos’è un poeta, e soprattutto noi, “lettori felici”, come lo
riconosciamo?
Lo schemino che mi ero
preparato per oggi era molto diverso. Volevo parlarvi di un volume a mio parere
bellissimo e oscuro di Gatto, “Osteria flegrea”, dove l’osteria è
simbolicamente la vita, quel luogo lungo la strada dell’uomo dove si entra, ci
si rifocilla, si osservano o conoscono gli altri, poi si va via. Flegrea, è
riferito ai Campi flegrei, vicino Napoli, un luogo antico, carico di storia, e
che dunque rimanda alle più profonde radici del poeta, quindi dell’uomo: un
uomo per tutti gli uomini. Uno splendido volume, una grande meditazione sulla
morte, e dunque sulla vita, come lo stesso Gatto scrive nella nota finale: “…il
sole di questa serena contemplazione della
morte che è, o dovrebbe essere il vino dei poeti. Così, spero, riceva un senso
anche il titolo. È un titolo che mi riporta, tra tanti aberranti finalismi
della vita di oggi, al sole dei millenni familiari e alla mia terra. (…) Chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della
sua evidenza, delle sue mani, dei suoi occhi, del suo mistero duro in sé e
incomunicabile. Chi ne è fuori – spettatore e retore - ha solo il «gusto molesto
dell’esagerazione»”. Ancora mani, occhi… corpo, e quel mistero “duro in sé e
incomunicabile”, incomunicabile ma che spinge comunque alla prova perché “chi è
dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza”; sua del fenomeno, o sua
del poeta? È uguale, in realtà, non c’è distinzione. Borges scrive: “Il verso
ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta,
il verso ricorda sempre di essere stato un canto”. A chi lo ricorda? È un gioco
sottilissimo, un’ambiguità che solo le parole, e solo i grandi che sanno andare
verso il cuore delle parole possono restituirci: lo ricorda a se stesso e a
noi. Il verso è una cosa viva, quanto noi. La Parola è viva, quanto noi, perché
noi siamo parola.
Avrei voluto parlarvi
dell’Ermetismo, di quella grande corrente letteraria che fa nuova la poesia
italiana, che strappa totalmente con il passato, che nasce grazie a Ungaretti,
Montale, Quasimodo, Saba, e che trova nei giovani che succederanno a questo imbattibile
poker, i Gatto, i Sereni, Caproni, ecc. un terreno fertilissimo; di come tutti
questi poeti abbiano, dopo secoli, trovato il modo per andare nuovamente alle
radici della nostra poesia e quindi della nostra lingua, rompendo gli schemi, a
volte abbandonando la punteggiatura, procedendo per strappi, simboli, sonorità,
immagini… e di come un “m’illumino/ d’immenso” sia… perfetto, senza bisogno di
spiegazioni, anzi, le spiegazioni lo svilirebbero. E avrei voluto chiarirvi
come un Gatto, per esempio, faccia propria questa lezione, fidando nel potere
evocativo delle parole, pur consapevole della loro indiscutibile
precisione/imprecisione. Ma non ha importanza, è una esplorazione che se
vorrete potrete continuare da soli, innaffiando questo discorso con le vostre
sensazioni, le vostre idee, la vostra voglia, privatissima, di diventare
“lettori felici”.
Quello che ora trovo più
importante dirvi è che, al di là delle malinconie, al di là dei luoghi comuni,
tutti i luoghi comuni che accompagnano la poesia, soprattutto lo studio della
poesia, Gatto è un poeta vivo, vitale, po-si-ti-vo… non ostante il suo amore
per Leopardi (lasciatemi quest’ultima, sorridente battuta polemica), e il
pessimismo pare non riesca mai a scalfirlo. I dolori che Gatto racconta sono in
un certo qual senso “cronaca”, momenti della vita, momenti che la compongono
allo stesso modo delle gioie, tasselli di un incomponibile puzzle.
Consapevole di essere
nel tempo, egli ha fiducia proprio nel tempo, poiché sa di avere raccolto da
coloro che lo hanno preceduto e fida in coloro che gli succederanno. Ha fiducia
nei ragazzi che osserva, nei giovani che vede amarsi, nei bambini, nelle rughe
dei vecchi, nelle esperienze drammatiche della sua vita, nella luce, nei colori
della terra. È un poeta che ama le cose della vita, che ama la vita, ama coloro
che la vivono. Ogni uomo, ogni azione, ogni gesto, ogni atto anche della
natura, è uno stimolo a gioire, a stupirsi dell’esistenza, a stupirsi della
propria esistenza, “inspiegato anche sul come sono” dice nel discorso a Palazzo
di Città.
Non è un poeta lunare.
Ma, attenti, non è nemmeno un poeta solare. È solare e lunare al contempo.
Perché tutto il problema è negli occhi, tutta la questione è nella luce. Il
sole non è il maschio, la luna non è la femmina (in tante mitologie è
esattamente il contrario). E la luce della luna non è banalmente un riflesso
della luce del sole. La luce del sole è solo quella del sole, la luce della
luna è solo quella della luna, e basta.
Mi pare sia Leonardo da
Vinci a scrivere che noi non vediamo grazie alla luce poiché essa acceca, ma
vediamo attraverso la luce, vediamo ciò che la luce ci consente di vedere, e
questo è evidente se pensiamo al sole. Ma se osserverete bene nelle notti di
luna vedrete che quella tenue, apparentemente flebile luce circoscrive,
disegna, indica, evidenzia solo le cose che quella luce sanno raccogliere e
rimandare: sono le cose a mostrarci la luce.
Esiste, dunque, anche un
modo di guardare la luce, e io credo che sia proprio ribaltando l’ordinario
pensiero sulla luce che Gatto guarda. E lo sappiamo chiaramente perché questo
continuo rovesciamento del “pensiero osservante”, o della “osservazione
pensante”, è in tutti i suoi scritti. È come se ci dicesse: c’è sempre un altro
modo per guardare le cose.
All’altezza
dei gridi in cui non vola
altra gioia
celeste che lo slancio
dei loggiati
dipinti alle colombe
torna al
silenzio il suo tremare
al vento la
sua pietra
(…)
chi
è che vola, si slancia, trema? Le colombe o la pietra dei loggiati? Quante
possibili visioni si nascondo in una cosa così semplice e consueta come quella
di colombe che si lanciano da un loggiato?
Se mi chiedete che
cos’è, chi è un attore, una risposta posso anche darvela, è il mio specifico,
la mia categoria, io sono un attore,
e ci penso da anni quotidianamente: un attore è una idea in continuo movimento.
Questa risposta fino ad oggi mi soddisfa. Ma probabilmente, anzi no,
sicuramente se mi chiedete chi è un poeta, io non lo so. Tra le tante
definizioni possibili posso dirvi che secondo me un poeta è uno cui la Poesia
“ordina” di osservare, ascoltare, percepire le cose, le sensazioni, quella
Armonia in cui tutta la nostra vita è adagiata come in un ventre materno, al
quale la Poesia “ordina” di rimandarci, in qualche modo, quella Armonia.
C’è in giro, ahinoi, c’è
in giro troppa gente che confonde l’ordine con l’Armonia.
Al di là delle poche
necessità dettate dal convivere sociale, l’ordine è qualcosa di imposto
dall’alto e che prima o poi crea dolore.
Chiudete
gli occhi, invece, e immaginate di essere sulla vetta di una grande montagna,
con un meraviglioso foulard tra le mani. Lo lasciate andare. Comincia a volare,
a fluttuare in una infinità di spostamenti piccoli, grandi, sempre nuovi.
Immaginate di seguirlo, quel foulard, istante per istante, movimento su
movimento, abbandonatevi al desiderio di essere sempre con lui, un tutt’uno con
lui nei suoi mille giochi colorati. Essi saranno dentro i vostri occhi, e
potrete arrivare a sentire che ciò che guida il tutto non è il caos, ma una
misura impercettibile che vive simbioticamente fuori e dentro di noi. Non so in
che altro modo dirlo, ma credo che questa sia l’Armonia: ci siamo dentro anche
se non ce ne accorgiamo, sta solo a noi scegliere di essere con lei.
Essere con lei per
scoprire la cosa più importante che può svelarci, ciò che si nasconde tra le
sue pieghe, tra le pieghe di quel foulard, misteriosa, imperscrutabile,
incomprensibile, morbida come un bambino: la Bellezza.
Stendhal dice: “che
cos’è la Bellezza per me? È quel carattere che è necessario alla mia anima; la
Bellezza è la promessa della felicità”. Padre Dante nella Commedia definisce decine di cose complicatissime, la fede, il
famoso trasumanare che “significar per verba/ non si poria”, arriva anche a
dare una definizione di Dio: “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”; ma per
quanto abbia cercato non vi ho trovato una sola definizione della Bellezza,
sebbene questa sia richiamata moltissime volte. Quella di Stendhal è la
migliore che mi sia capitata tra le mani, e per conto mio, nel valore di
soggettività assoluta che il francese attribuisce alla cosa, non definisce
proprio nulla, il che rientra perfettamente nel gioco; mi sorge dunque il
sospetto che quel “mistero” di cui Tom Robbins parla alla fine del “Picchio”
sia proprio la Bellezza, ed è lei, in conclusione, che io credo cerchi un
poeta. E di rimando, ciò che noi cerchiamo in un poeta.
Alfonso Gatto non è
fuori da questo meraviglioso gioco. È assolutamente quello che Gianni Mura
definirebbe un “mendicante di bellezza”.
Mura è un grande
giornalista, appassionato di Alfonso Gatto al punto che parlando con lui si ha
la netta sensazione che lo abbia conosciuto. Ma se glielo chiedete vi svela che
non è così e c’è da rimanerne stupiti. Perché anche questo può fare l’amore per
la poesia.
“Mendicanti di bellezza”
è una definizione splendida, perfetta, perché è ciò che realmente siamo
soprattutto quando amiamo qualcuno o qualcosa. Mura dice che la definizione è
di Eduardo Galeano. Ma non è propriamente vero. Sono andato a verificare,
Galeano scrive: “Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il
mondo con il cappello in mano e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per
l’amor di Dio »”.
Ma anche questo fa
l’amore: sposta i piani, mischia le cose, ci alleggerisce di noi, ci
restituisce l’oblio in cui siamo nati, ci inebria, ci confonde, così
teneramente ci confonde da renderci autori inconsapevoli di un sempre nuovo,
piccolo miracolo, come questo: una definizione, una definizione perfetta che
prendo per me nella certezza di essere anch’io soltanto un “mendicante di
bellezza”, uno tra i tanti, che va per le strade, vaga tra i libri, la musica,
i colori, si perde in un paio d’occhi solo per elemosinare qualche spicciolo di
bellezza, che scruta nei poeti, in un poeta vero come Alfonso Gatto, sicuro che
gli regalerà un po’ di Bellezza.
Io non lo so se Alfonso
Gatto sia più o meno grande di un Montale o decisamente più piccolo di un
Ungaretti, o del suo amato Leopardi. Quello che so è che, tra le tante cose, un
poeta è anche colui che prima o poi tira fuori un verso cristallino,
folgorante, unico, puro, di paternità e bellezza inoppugnabile, come “un uomo
vivo col tuo cuore è un sogno”.
È in una poesia dedicata
al padre. Quando lo dico questo verso non posso fare a meno di pensare a mio
padre, al momento in cui, se natura vorrà, dovrò accompagnarlo nel suo ultimo
viaggio:
Se mi tornassi questa
sera accanto
lungo la via dove scende
l’ombra
azzurra già che sembra
primavera,
per dirti quanto è buio
il mondo e come
ai nostri sogni in
libertà si accenda
di speranze di poveri di
cielo,
io troverei un pianto da
bambino
e gli occhi aperti di
sorriso, neri
neri come le rondini del
mare.
Mi basterebbe che tu
fossi vivo,
un uomo vivo col tuo
cuore è un sogno.
Ora alla terra è un ombra
la memoria
della tua voce che
diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e
com’è buona
ad amarci così con
l’aria in piena
fin dentro il sonno”. Tu
vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere
a quel cielo,
gli uomini incamminati
verso l’alba.
Ecco, io vi chiedo: è
morte questa? È morte questo stupirsi? Sono morte i nostri sogni, la libertà,
occhi neri, rondini, mare, il ricordo
caldo di una voce, il cuore, il sogno? Sono morte gli insegnamenti dolci che
porteremo sempre con noi? È morte questo mondo affacciato nel plenilunio a
guardare nuovi uomini incamminati verso nuove albe? No! E io sento che è questa
la bellezza, è questa l’altra luce che può illuminare la nostra vita, è questa
la poesia: una cosa inutile, talmente pura nella sua inutilità da esserci assolutamente
necessaria. È un canto dell’anima (lo ripeto), o il canto da cui l’anima,
volente o nolente, è attraversata.
E se ancor di più è vero
che la poesia è fare (dal greco poiêin: fare), mi pare possa anche diventare irrilevante sapere che cosa
sia: l’importante è farla, testimoniarla,
come si direbbe nella religione cristiana.
L’arte è certamente una
cosa che si fa e non di cui si parla. È per questo che tutta la critica resta
sempre un passo indietro, perché il critico non fa. Mi è capitato di sentir
dire: “La critica non ha ancora risolto il tal problema, sciolto il tal nodo”.
Come può la critica sciogliere un qualsivoglia nodo se la sua azione è sempre a
posteriori, se arriva sempre dopo che l’opera è fatta?
So come gli attori si
riconoscono tra di loro, me lo spiegò, in una calda sera siracusana, un collega
che purtroppo non c’è più, Piero Di Iorio: “Solo il fratello può riconoscere il
fratello”, perché lo percepisce, lo intuisce, ne riconosce gli odori e le
sensazioni, sensazioni che, descrivendole, ti accorgi che solo chi fa il tuo
stesso lavoro comprende perfettamente. Di sicuro è così anche per i poeti: si
annusano e riconoscono tra loro per una serie di problematiche di cui il
linguaggio è veicolo chiaro per loro e tra di loro, e sovente incomprensibile
agli altri.
Sarà anche per questo
che la critica ufficiale mal digerisce gli Eliot, i Borges, o i Calvino quando
“fanno i critici”? Quando un autore parla di un altro autore sicuramente ne
comprende, e rivive, le difficoltà del percorso creativo. La sua “azione
critica” diviene ancor più destabilizzante poiché sui concetti s’innesta
l’impalpabile fascino di una nuova poesia, ed è paradossalmente un’azione falsa
poiché alla fin fine parla di se stesso utilizzando l’altro autore come
riflesso attraverso il quale comprendere le sue difficoltà o esaltazioni.
Eppure, dato per
assodato tutto questo, escludendo i puri dati tecnici della composizione,
escludendo in toto l’auto-asserzione “sono un poeta”, noi lettori sempre
“felici” come facciamo a dire, ed a ragion veduta: “è un poeta!”?
Ipotizzo, perché mi pare
veramente che arrivati a questo punto “significar per verba non si poria”:
penso che non si possa riconoscere il poeta se non attraverso l’intuizione e la
simbiosi, lasciando che, così come è stato per il suo al momento della
“ispirazione”, il nostro stesso corpo si abbandoni per poter essere
attraversato. È ancora una volta un gioco di rimandi e riflessi: il poeta è
attraversato dal soffio delle sue intuizioni, noi da quelle che lui ci rimanda.
Sarà anche per questo che non a tutti piacciono gli stessi poeti.
Ecco,
forse è così: riconosciamo un poeta perché percepiamo che ha lasciato se stesso
per “essere cantato”, per essere attraversato da quel canto che diventa il
nostro canto nel momento in cui ci abbandoniamo al suo e ce ne lasciamo
attraversare. E in quel momento, la nostra funzione di lettori è vitale,
fondante. La parola scritta, chiusa, sola, non è nient’altro che un simbolo
morto. È in quel contatto tra lei e il nostro occhio che si attua, dentro di
noi, la sua resurrezione. È lì, in quell’istante, che possiamo sentire che quel
corpo del poeta, fratello del nostro in quell’attimo, abbandona le rigidità e
le durezze che la vita gli ha costruito addosso per essere di nuovo puro e
malleabile; come quando era bambino, ma proprio bambino bambino bambino, un
bambino che gioca con suoni per noi adulti informi, senza ancora conoscere la
gioia ed il peso mortale della Parola.
Non penso di essere
riuscito a spiegarmi, e ve ne chiedo scusa (poi parlo male di Bigongiari!); e
non ho nemmeno molto altro da aggiungere, se non due piccole annotazioni:
1-
non so quale sia esattamente la “visione del mondo” o “della vita” di Alfonso
Gatto, e francamente non mi interessa nemmeno saperlo. Mi interessa, invece, il
fatto che so che ritrovo e ritroverò in una qualche sua pagina le parole del
mio tempo, del mio personalissimo tempo, passato, presente, e forse futuro. Mi
interessa sapere che esiste, in qualche angolo di questa mia terra, il cantore
dei miei giorni. Lo vogliamo o no, ne siamo consapevoli, coscienti o no, noi
cerchiamo le parole del nostro tempo;
2- credo che Alfonso
Gatto lasci sui nostri piccoli tavoli inadatti ad accogliere la storia, un
“insegnamento”: accogliete le vostre passioni, i vostri sogni di ragazzi, con
la consapevolezza – quella sì adulta – che non ci saranno solo glorie, ma anzi
molti bocconi amari. Solo così il futuro sarà sempre possibile. Sarà necessaria
l’onestà, tanta onestà, intellettuale e interiore, l’onestà non della
convinzione di essere, ma dell’avere, con tutte le nostre forze, “cercato di
essere”.
Bene, credo proprio che
possa bastare. Vi avevo fatto una piccola promessa all’inizio, c’è una poesia
che abbiamo lasciato in sospeso, ora la leggiamo:
Il vicolo della neve
È nella notte d’inverno
il pallido azzurro
fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo
febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il
balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito e
limone.
Il vicolo aveva
l’inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l’ultimo palpito d’aria
di fresca cantina,
d’arancio,
che torna – oh, se
torna! – nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel
gancio
l’insegna
contrabbandiera
del c’era una volta il
lontano
racconto del tempo che
fu.
Straniero, se passi a
Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo
febbraio,
se vedi il bianco
fornaio
che batte le mani sul
tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce
perduta.
L’odore di menta
t’invita,
la tavola bianca, la
stanza
confusa dall’abbondanza.
In quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue
mani
a quegli accordi lontani
del tempo che fu.
Lasciate che vi abbracci
tutti di cuore sul cuore.
Grazie, e… Buena vida!»
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