mercoledì 28 ottobre 2015

6 - Ultima puntata, "Della Poesia" - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (Informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)

La conclusione del nostro percorso. Ringrazio coloro che hanno avuto la bontà di seguirmi, non siete stati tanti (perché nasconderlo), ma dai riscontri avuti, certamente appassionati. E questo fa piacere. Se contasse solo "l'audience" (che pure conta!) ci sarebbero "scrittori" contemporanei che conterebbero più di Dante. Fortunatamente non è così. 

Un dovuto riassunto delle "puntate" precedenti per chi arrivasse solo ora, e poi la conclusione. Anche questa ultima giornata, come quella precedente, tutta di seguito (ci sono discorsi che non si possono interrompere...), e ancora grazie, di cuore. 














Ultima giornata

«Oggi non posso nascondere un po’ di malinconia nell’ “annunciarvi solennemente” quello che tutti voi già sapete: è la nostra ultima giornata!
Malinconia, sì. Oddio, una lieve malinconia, non esaltatevi troppo, mia cara, mia tenera “gioventù bruciata”. Perché quando si è stati in buona compagnia, quando lo scambio affettivo è stato sincero (e sento che il nostro lo è stato), è difficoltoso staccarsi; difficoltoso perché è un po’ come staccarsi da se stessi, staccarsi da una creatura cui si è dato amore e attenzione, cui ci si è dedicati, ed accogliere il momento in cui questa creatura dovrà viaggiare da sola, senza più il nostro sguardo presuntuosa-mente e velleitaria-mente vigile su lei, è un po’ come prendere irrimediabilmente coscienza degli anni che passano, e che un giorno passeranno definitivamente.
Con voi, in questi pochi giorni, poche ore, sono stato bene, molto bene. Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Avete stimolato i miei pensieri, mi avete costretto a cercare nuovi modi di dire vecchie cose ed anche costretto a capirne meglio altre per potervene parlare; ma soprattutto, in questi nostri pochi giorni – non ve lo nascondo – sono stato bene con Alfonso Gatto; sono stato bene con il dovermi occupare a tempo pieno di lui, dei suoi scritti, sono – almeno spero – cresciuto ancora un po’ nel ripensare a cose che molte volte avevo letto senza comprenderle fino in fondo. Sono stato felice nel leggere i suoi piccoli/grandi meravigliosi pensieri, ed in essi, ogni giorno, ho visto qualcosa non solo di lui, ma di un possibile me.
Ma oggi, la creatura che io sento di dover lasciare andare, non siete voi, non è questo mio spero appassionato discorso, ma quella che questo discorso ha fatto nascere in voi. È una creatura, un figlio (non ho timore a definirlo così) che non conosco né conoscerò mai, ma che sono certo esiste ed esisterà sempre, e che chissà in quale bizzarro modo elaborato dalla vita, forse irriconoscibile a me e a voi stessi, un giorno passerete a qualcun altro. È la Poesia, che corre, silenziosa sovrana, nel cuore dell’uomo. Ad alcuni è dato di esercitarla nelle forme canoniche, ad altri di viverla in forme apparentemente irriconoscibili: un abbraccio, un sorriso, la composizione di una pagina tipografica, sfornare una pizza, redigere un ricorso per un Tribunale, rimettere in sesto la lamiera di un auto, dare calci a un pallone, curare una malattia, insegnare le tabelline… non so… è dovunque. Dovunque noi siamo con l’onestà verso noi stessi e verso gli altri di mettere sempre tutto il nostro cuore in gioco.
“Sono un uomo di cuore” scrive Gatto. Saremo, siamo noi capaci di essere in ogni istante “uomini di cuore”? Non lo so, non so nemmeno se io lo sono. Ma so che possiamo provarci. E già solo il provarci è riuscirci.
Ho guardato spesso, nella mia vita, a quella luna così incredibilmente grande sul golfo di Salerno, della mia, della sua Salerno. Solo un’illusione ottica, nulla di più. Ed ogni volta, guardandola, mi sono chiesto che cosa siano “le radici”, cosa voglia dire “avere delle radici”. Oggi vi dico: nulla. Terre, città, nazioni, regioni, confini… tutte cose che non esistono. Gli uomini non sono diversi, gli uomini sono uguali. La diversità non è un valore, è solo una stupida cosa che non esiste, e con cui il nostro tempo si scontra, sforzandosi in ogni modo di pensarla positivamente come una ricchezza, ma l’unica ricchezza, credo, è capire che la diversità non esiste, capire che tutti gli uomini, nei punti più lontani della terra e del tempo, amano, organizzano le loro società, mangiano in forme diverse le stesse cose, bevono acqua (quelli che ne hanno, sic!), adorano divinità, sperano che ci sia qualcosa dopo la morte, litigano, crescono i figli, qualcuno li abbandona… Facciamo tutti le stesse cose, in fondo. Sempre. Anche poesia, e anche poesia nelle forme canoniche. Gatto ha ragione, Alfonso Gatto, soprannominato “il poeta con la valigia”, ha ragione: “essere alle radici è essere nel sangue”, e “il sangue è tutto rosso” ha detto qualcuno, ecco perché gli uomini sono tutti uguali.
Così, ognuno ha i suoi poeti e ognuno ama i suoi propri poeti. A me piace Alfonso Gatto, ma forse voi, che pure avrete amato questa conversazione, non sceglierete Gatto e andrete verso altri poeti. Che magari non usano la penna ma i piedi, un pennello, una bicicletta. Sono certo che Gatto non si offenderebbe. A Gianni Rivera, uno dei più grandi calciatori di sempre, egli stesso, in una lettera aperta su “Il giornale” allora diretto da Indro Montanelli, scrisse: “lei è un poeta”. E lo stesso Gatto, parlando della sua vocazione ha scritto – ricordate, lo abbiamo letto all’inizio –: “Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi.”
Ecco, forse adesso, giunti al nostro ultimo incontro, per raccogliere le fila e riportarci per un attimo al campo letterario, se la vita – come Gatto dice – è nella presenza dei poeti, quello che dobbiamo ancora chiederci è: chi è, cos’è un poeta, e soprattutto noi, “lettori felici”, come lo riconosciamo?
Lo schemino che mi ero preparato per oggi era molto diverso. Volevo parlarvi di un volume a mio parere bellissimo e oscuro di Gatto, “Osteria flegrea”, dove l’osteria è simbolicamente la vita, quel luogo lungo la strada dell’uomo dove si entra, ci si rifocilla, si osservano o conoscono gli altri, poi si va via. Flegrea, è riferito ai Campi flegrei, vicino Napoli, un luogo antico, carico di storia, e che dunque rimanda alle più profonde radici del poeta, quindi dell’uomo: un uomo per tutti gli uomini. Uno splendido volume, una grande meditazione sulla morte, e dunque sulla vita, come lo stesso Gatto scrive nella nota finale: “…il sole di questa serena contemplazione della morte che è, o dovrebbe essere il vino dei poeti. Così, spero, riceva un senso anche il titolo. È un titolo che mi riporta, tra tanti aberranti finalismi della vita di oggi, al sole dei millenni familiari e alla mia terra. (…) Chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza, delle sue mani, dei suoi occhi, del suo mistero duro in sé e incomunicabile. Chi ne è fuori – spettatore e retore -  ha solo il «gusto molesto dell’esagerazione»”. Ancora mani, occhi… corpo, e quel mistero “duro in sé e incomunicabile”, incomunicabile ma che spinge comunque alla prova perché “chi è dentro il fenomeno è ancora al limite della sua evidenza”; sua del fenomeno, o sua del poeta? È uguale, in realtà, non c’è distinzione. Borges scrive: “Il verso ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta, il verso ricorda sempre di essere stato un canto”. A chi lo ricorda? È un gioco sottilissimo, un’ambiguità che solo le parole, e solo i grandi che sanno andare verso il cuore delle parole possono restituirci: lo ricorda a se stesso e a noi. Il verso è una cosa viva, quanto noi. La Parola è viva, quanto noi, perché noi siamo parola.
Avrei voluto parlarvi dell’Ermetismo, di quella grande corrente letteraria che fa nuova la poesia italiana, che strappa totalmente con il passato, che nasce grazie a Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, e che trova nei giovani che succederanno a questo imbattibile poker, i Gatto, i Sereni, Caproni, ecc. un terreno fertilissimo; di come tutti questi poeti abbiano, dopo secoli, trovato il modo per andare nuovamente alle radici della nostra poesia e quindi della nostra lingua, rompendo gli schemi, a volte abbandonando la punteggiatura, procedendo per strappi, simboli, sonorità, immagini… e di come un “m’illumino/ d’immenso” sia… perfetto, senza bisogno di spiegazioni, anzi, le spiegazioni lo svilirebbero. E avrei voluto chiarirvi come un Gatto, per esempio, faccia propria questa lezione, fidando nel potere evocativo delle parole, pur consapevole della loro indiscutibile precisione/imprecisione. Ma non ha importanza, è una esplorazione che se vorrete potrete continuare da soli, innaffiando questo discorso con le vostre sensazioni, le vostre idee, la vostra voglia, privatissima, di diventare “lettori felici”.
Quello che ora trovo più importante dirvi è che, al di là delle malinconie, al di là dei luoghi comuni, tutti i luoghi comuni che accompagnano la poesia, soprattutto lo studio della poesia, Gatto è un poeta vivo, vitale, po-si-ti-vo… non ostante il suo amore per Leopardi (lasciatemi quest’ultima, sorridente battuta polemica), e il pessimismo pare non riesca mai a scalfirlo. I dolori che Gatto racconta sono in un certo qual senso “cronaca”, momenti della vita, momenti che la compongono allo stesso modo delle gioie, tasselli di un incomponibile puzzle.
Consapevole di essere nel tempo, egli ha fiducia proprio nel tempo, poiché sa di avere raccolto da coloro che lo hanno preceduto e fida in coloro che gli succederanno. Ha fiducia nei ragazzi che osserva, nei giovani che vede amarsi, nei bambini, nelle rughe dei vecchi, nelle esperienze drammatiche della sua vita, nella luce, nei colori della terra. È un poeta che ama le cose della vita, che ama la vita, ama coloro che la vivono. Ogni uomo, ogni azione, ogni gesto, ogni atto anche della natura, è uno stimolo a gioire, a stupirsi dell’esistenza, a stupirsi della propria esistenza, “inspiegato anche sul come sono” dice nel discorso a Palazzo di Città.
Non è un poeta lunare. Ma, attenti, non è nemmeno un poeta solare. È solare e lunare al contempo. Perché tutto il problema è negli occhi, tutta la questione è nella luce. Il sole non è il maschio, la luna non è la femmina (in tante mitologie è esattamente il contrario). E la luce della luna non è banalmente un riflesso della luce del sole. La luce del sole è solo quella del sole, la luce della luna è solo quella della luna, e basta.
Mi pare sia Leonardo da Vinci a scrivere che noi non vediamo grazie alla luce poiché essa acceca, ma vediamo attraverso la luce, vediamo ciò che la luce ci consente di vedere, e questo è evidente se pensiamo al sole. Ma se osserverete bene nelle notti di luna vedrete che quella tenue, apparentemente flebile luce circoscrive, disegna, indica, evidenzia solo le cose che quella luce sanno raccogliere e rimandare: sono le cose a mostrarci la luce.
Esiste, dunque, anche un modo di guardare la luce, e io credo che sia proprio ribaltando l’ordinario pensiero sulla luce che Gatto guarda. E lo sappiamo chiaramente perché questo continuo rovesciamento del “pensiero osservante”, o della “osservazione pensante”, è in tutti i suoi scritti. È come se ci dicesse: c’è sempre un altro modo per guardare le cose.

All’altezza dei gridi in cui non vola
altra gioia celeste che lo slancio
dei loggiati dipinti alle colombe
torna al silenzio il suo tremare
al vento la sua pietra
(…)

chi è che vola, si slancia, trema? Le colombe o la pietra dei loggiati? Quante possibili visioni si nascondo in una cosa così semplice e consueta come quella di colombe che si lanciano da un loggiato?
Se mi chiedete che cos’è, chi è un attore, una risposta posso anche darvela, è il mio specifico, la mia categoria, io sono un attore, e ci penso da anni quotidianamente: un attore è una idea in continuo movimento. Questa risposta fino ad oggi mi soddisfa. Ma probabilmente, anzi no, sicuramente se mi chiedete chi è un poeta, io non lo so. Tra le tante definizioni possibili posso dirvi che secondo me un poeta è uno cui la Poesia “ordina” di osservare, ascoltare, percepire le cose, le sensazioni, quella Armonia in cui tutta la nostra vita è adagiata come in un ventre materno, al quale la Poesia “ordina” di rimandarci, in qualche modo, quella Armonia.
C’è in giro, ahinoi, c’è in giro troppa gente che confonde l’ordine con l’Armonia.
Al di là delle poche necessità dettate dal convivere sociale, l’ordine è qualcosa di imposto dall’alto e che prima o poi crea dolore.
Chiudete gli occhi, invece, e immaginate di essere sulla vetta di una grande montagna, con un meraviglioso foulard tra le mani. Lo lasciate andare. Comincia a volare, a fluttuare in una infinità di spostamenti piccoli, grandi, sempre nuovi. Immaginate di seguirlo, quel foulard, istante per istante, movimento su movimento, abbandonatevi al desiderio di essere sempre con lui, un tutt’uno con lui nei suoi mille giochi colorati. Essi saranno dentro i vostri occhi, e potrete arrivare a sentire che ciò che guida il tutto non è il caos, ma una misura impercettibile che vive simbioticamente fuori e dentro di noi. Non so in che altro modo dirlo, ma credo che questa sia l’Armonia: ci siamo dentro anche se non ce ne accorgiamo, sta solo a noi scegliere di essere con lei.
Essere con lei per scoprire la cosa più importante che può svelarci, ciò che si nasconde tra le sue pieghe, tra le pieghe di quel foulard, misteriosa, imperscrutabile, incomprensibile, morbida come un bambino: la Bellezza.
Stendhal dice: “che cos’è la Bellezza per me? È quel carattere che è necessario alla mia anima; la Bellezza è la promessa della felicità”. Padre Dante nella Commedia definisce decine di cose complicatissime, la fede, il famoso trasumanare che “significar per verba/ non si poria”, arriva anche a dare una definizione di Dio: “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”; ma per quanto abbia cercato non vi ho trovato una sola definizione della Bellezza, sebbene questa sia richiamata moltissime volte. Quella di Stendhal è la migliore che mi sia capitata tra le mani, e per conto mio, nel valore di soggettività assoluta che il francese attribuisce alla cosa, non definisce proprio nulla, il che rientra perfettamente nel gioco; mi sorge dunque il sospetto che quel “mistero” di cui Tom Robbins parla alla fine del “Picchio” sia proprio la Bellezza, ed è lei, in conclusione, che io credo cerchi un poeta. E di rimando, ciò che noi cerchiamo in un poeta.
Alfonso Gatto non è fuori da questo meraviglioso gioco. È assolutamente quello che Gianni Mura definirebbe un “mendicante di bellezza”.
Mura è un grande giornalista, appassionato di Alfonso Gatto al punto che parlando con lui si ha la netta sensazione che lo abbia conosciuto. Ma se glielo chiedete vi svela che non è così e c’è da rimanerne stupiti. Perché anche questo può fare l’amore per la poesia.
“Mendicanti di bellezza” è una definizione splendida, perfetta, perché è ciò che realmente siamo soprattutto quando amiamo qualcuno o qualcosa. Mura dice che la definizione è di Eduardo Galeano. Ma non è propriamente vero. Sono andato a verificare, Galeano scrive: “Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo con il cappello in mano e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio »”.
Ma anche questo fa l’amore: sposta i piani, mischia le cose, ci alleggerisce di noi, ci restituisce l’oblio in cui siamo nati, ci inebria, ci confonde, così teneramente ci confonde da renderci autori inconsapevoli di un sempre nuovo, piccolo miracolo, come questo: una definizione, una definizione perfetta che prendo per me nella certezza di essere anch’io soltanto un “mendicante di bellezza”, uno tra i tanti, che va per le strade, vaga tra i libri, la musica, i colori, si perde in un paio d’occhi solo per elemosinare qualche spicciolo di bellezza, che scruta nei poeti, in un poeta vero come Alfonso Gatto, sicuro che gli regalerà un po’ di Bellezza.
Io non lo so se Alfonso Gatto sia più o meno grande di un Montale o decisamente più piccolo di un Ungaretti, o del suo amato Leopardi. Quello che so è che, tra le tante cose, un poeta è anche colui che prima o poi tira fuori un verso cristallino, folgorante, unico, puro, di paternità e bellezza inoppugnabile, come “un uomo vivo col tuo cuore è un sogno”.
È in una poesia dedicata al padre. Quando lo dico questo verso non posso fare a meno di pensare a mio padre, al momento in cui, se natura vorrà, dovrò accompagnarlo nel suo ultimo viaggio:

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà si accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro il sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

Ecco, io vi chiedo: è morte questa? È morte questo stupirsi? Sono morte i nostri sogni, la libertà, occhi neri,  rondini, mare, il ricordo caldo di una voce, il cuore, il sogno? Sono morte gli insegnamenti dolci che porteremo sempre con noi? È morte questo mondo affacciato nel plenilunio a guardare nuovi uomini incamminati verso nuove albe? No! E io sento che è questa la bellezza, è questa l’altra luce che può illuminare la nostra vita, è questa la poesia: una cosa inutile, talmente pura nella sua inutilità da esserci assolutamente necessaria. È un canto dell’anima (lo ripeto), o il canto da cui l’anima, volente o nolente, è attraversata.
E se ancor di più è vero che la poesia è fare (dal greco poiêin: fare), mi pare possa anche diventare irrilevante sapere che cosa sia: l’importante è farla, testimoniarla, come si direbbe nella religione cristiana.
L’arte è certamente una cosa che si fa e non di cui si parla. È per questo che tutta la critica resta sempre un passo indietro, perché il critico non fa. Mi è capitato di sentir dire: “La critica non ha ancora risolto il tal problema, sciolto il tal nodo”. Come può la critica sciogliere un qualsivoglia nodo se la sua azione è sempre a posteriori, se arriva sempre dopo che l’opera è fatta?
So come gli attori si riconoscono tra di loro, me lo spiegò, in una calda sera siracusana, un collega che purtroppo non c’è più, Piero Di Iorio: “Solo il fratello può riconoscere il fratello”, perché lo percepisce, lo intuisce, ne riconosce gli odori e le sensazioni, sensazioni che, descrivendole, ti accorgi che solo chi fa il tuo stesso lavoro comprende perfettamente. Di sicuro è così anche per i poeti: si annusano e riconoscono tra loro per una serie di problematiche di cui il linguaggio è veicolo chiaro per loro e tra di loro, e sovente incomprensibile agli altri.
Sarà anche per questo che la critica ufficiale mal digerisce gli Eliot, i Borges, o i Calvino quando “fanno i critici”? Quando un autore parla di un altro autore sicuramente ne comprende, e rivive, le difficoltà del percorso creativo. La sua “azione critica” diviene ancor più destabilizzante poiché sui concetti s’innesta l’impalpabile fascino di una nuova poesia, ed è paradossalmente un’azione falsa poiché alla fin fine parla di se stesso utilizzando l’altro autore come riflesso attraverso il quale comprendere le sue difficoltà o esaltazioni.
Eppure, dato per assodato tutto questo, escludendo i puri dati tecnici della composizione, escludendo in toto l’auto-asserzione “sono un poeta”, noi lettori sempre “felici” come facciamo a dire, ed a ragion veduta: “è un poeta!”?
Ipotizzo, perché mi pare veramente che arrivati a questo punto “significar per verba non si poria”: penso che non si possa riconoscere il poeta se non attraverso l’intuizione e la simbiosi, lasciando che, così come è stato per il suo al momento della “ispirazione”, il nostro stesso corpo si abbandoni per poter essere attraversato. È ancora una volta un gioco di rimandi e riflessi: il poeta è attraversato dal soffio delle sue intuizioni, noi da quelle che lui ci rimanda. Sarà anche per questo che non a tutti piacciono gli stessi poeti.
Ecco, forse è così: riconosciamo un poeta perché percepiamo che ha lasciato se stesso per “essere cantato”, per essere attraversato da quel canto che diventa il nostro canto nel momento in cui ci abbandoniamo al suo e ce ne lasciamo attraversare. E in quel momento, la nostra funzione di lettori è vitale, fondante. La parola scritta, chiusa, sola, non è nient’altro che un simbolo morto. È in quel contatto tra lei e il nostro occhio che si attua, dentro di noi, la sua resurrezione. È lì, in quell’istante, che possiamo sentire che quel corpo del poeta, fratello del nostro in quell’attimo, abbandona le rigidità e le durezze che la vita gli ha costruito addosso per essere di nuovo puro e malleabile; come quando era bambino, ma proprio bambino bambino bambino, un bambino che gioca con suoni per noi adulti informi, senza ancora conoscere la gioia ed il peso mortale della Parola.
Non penso di essere riuscito a spiegarmi, e ve ne chiedo scusa (poi parlo male di Bigongiari!); e non ho nemmeno molto altro da aggiungere, se non due piccole annotazioni:
1- non so quale sia esattamente la “visione del mondo” o “della vita” di Alfonso Gatto, e francamente non mi interessa nemmeno saperlo. Mi interessa, invece, il fatto che so che ritrovo e ritroverò in una qualche sua pagina le parole del mio tempo, del mio personalissimo tempo, passato, presente, e forse futuro. Mi interessa sapere che esiste, in qualche angolo di questa mia terra, il cantore dei miei giorni. Lo vogliamo o no, ne siamo consapevoli, coscienti o no, noi cerchiamo le parole del nostro tempo;
2- credo che Alfonso Gatto lasci sui nostri piccoli tavoli inadatti ad accogliere la storia, un “insegnamento”: accogliete le vostre passioni, i vostri sogni di ragazzi, con la consapevolezza – quella sì adulta – che non ci saranno solo glorie, ma anzi molti bocconi amari. Solo così il futuro sarà sempre possibile. Sarà necessaria l’onestà, tanta onestà, intellettuale e interiore, l’onestà non della convinzione di essere, ma dell’avere, con tutte le nostre forze, “cercato di essere”.
Bene, credo proprio che possa bastare. Vi avevo fatto una piccola promessa all’inizio, c’è una poesia che abbiamo lasciato in sospeso, ora la leggiamo:

Il vicolo della neve

È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.

Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l’inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l’ultimo palpito d’aria
di fresca cantina, d’arancio,
che torna – oh, se torna! – nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l’insegna contrabbandiera
del c’era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.

Straniero, se passi a Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.

L’odore di menta t’invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall’abbondanza.
In quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
a quegli accordi lontani
del tempo che fu.


Lasciate che vi abbracci tutti di cuore sul cuore.
Grazie, e… Buena vida!» 

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