Ricordo: in rosso le note a piè pagina. (e le foto sono di Pino Rampolla)
II giornata
«Buongiorno.
Come state? Tutto
bene?...
Temo - vi avverto - che
questa giornata sarà decisamente più faticosa della precedente, e francamente
spero che le cose che ci siamo detti l’altra volta vi siano rimaste chiare,
così se non ci sono domande, riprenderei il nostro discorso. Dunque… coraggio!
Riprendiamo da una
poesia cui l’altra volta avevo accennato, e che fa parte sempre del primo
volume pubblicato da Gatto, “Isola”, vi ricordo del 1932, dunque a ventitre
anni; si tratta di “Il giogo”. Leggiamola:
Ad
una montagna dura, scoscesa,
dritta
sullo specchio verde del mare,
mi
sono aggrappato in una difesa
panica,
con le mani strette alle rare
erbe
che si schiantano senza colore.
Non
vedo oltre le mie braccia artigliate
dall’istinto:
risento con terrore
la
gioia di cadere, abbandonate
le
membra nel vuoto facile e teso.
Ma
mi raccolgo, non grido: la voce
mi
ridarebbe il senso del mio peso.
Vi parlavo l’altra volta dell’immediata presa di
coscienza del giovane Gatto del suo essere poeta, quasi una vocazione, una
chiamata cui non si può sfuggire, e alla fine del nostro discorso siamo
arrivati a mettere in gioco questa idea di un poeta che “scrive con il corpo”,
che ha offerto il suo corpo alla poesia, che si lascia attraversare dalle
sensazioni. “Il giogo” è soltanto il secondo componimento di “Isola”, ma
evidentemente con la “fisicità” è necessario confrontarsi subito. Il corpo,
infatti, pone problemi quali il senso
del peso, il superamento dei
limiti, l’abbandono…
Anche qui, quella “gioia
netta” di cui dicevamo, credo sia presente. Presente nell’immagine certamente
affascinante di questa montagna dura che scoscende dritta sullo specchio
limpido e verde del mare (forse un ricordo della bellezza della costa
d’Amalfi?), e che mostra immediatamente il suo pericolo, pericolo che spinge
alla “difesa panica”. Ma cosa c’è oltre quel corpo, oltre quelle “braccia
artigliate/ dall’istinto”? Forse tutto, forse nulla. Certo è che il poeta non
vede oltre il suo corpo, oltre lo spazio cerchiato dalla sua fisicità (ce lo
dice chiaramente: “Non vedo oltre le mie braccia…”). Tornano gioia e terrore,
nel dubbio che cadere o tenersi li comprendano entrambi, nel dubbio che
l’abbandono al vuoto possa essere sia profonda acquisizione che facile
risoluzione. Dunque che fare?
Gatto sta! Si raccoglie. Non sceglie nessuna delle due
soluzioni, nessuna delle due fisiche conclusioni (tenersi o lasciarsi), ma una
terza: si ferma! E “raccogliersi” non credo vada visualizzato come tensione
cruda del corpo, istintiva nel tentativo di impedire una disfatta, ma come
focalizzazione della propria attenzione, delle proprie energie, sull’interno,
su se stesso, come ri-accogliersi, come ri-accettare, tornando di nuovo ad una
essenza certa: quella del proprio essere uomo. Gatto ristà, dentro, nel corpo, come in quell’ in che dà principio al tutto.
Forse è in tal senso
facile farsi venire in mente “in” ben più importanti per la storia della
letteratura e dell’umanità. Fratello carnale del piccolo “in” di Gatto è il
“Nel” di inizio della Commedia o,
ancor più, l’ “In principio era il
Verbo” del Vangelo di Giovanni, dove però, il Verbo, facendosi carne, potrà
sempre ripetere “In Verità, in Verità vi dico”, vi dico essendo io
la verità, vi dico essendo io nella
Verità, ecc. (1)
La scelta di essere dentro è inizio di un viaggio
interminabile che non vorrà e non potrà conoscere frontiere nell’esplorare quel
movimento che il divieto posto dalla
propria carne segna come limite, invalicabile e comunque infinito, anzi, di
quel limite fa tesoro, nuova scoperta, spostando l’attenzione, di fronte a problemi
insondabili quali per esempio la morte, dal macro al micro; forse che in quel cogliere il sospetto e la lusinga del
movimento, ci sia un barlume della Verità, del Verbo fatto carne?
Io ho forse più pudore,
ma Ràmat senza mezzi termini parla di “ipostasi della poesia”.
Cos’è l’ “ipostasi”? Ci
arriveremo.
Siamo partiti in quarta stamattina. Speriamo di non
fondere il motore.
“Essere nel
corpo”, si diceva, ed essere nel corpo è essere negli occhi. “La lucerna del
tuo corpo è l’occhio” dice Cristo (mi pare sia Luca), “se il tuo occhio è sano,
anche il tuo corpo è sano, ma se è malato anche il tuo corpo è nelle tenebre”,
più o meno, cito a memoria.
L’occhio è importante,
gli occhi sono importanti. Uno dei volumi di Gatto, dei primi anni ’50, si
intitola proprio “La forza degli occhi”, e se lo leggerete vi accorgerete che è
pieno di occhi, volti, colori. Tutti conosciamo quel vecchio adagio che dice:
“gli occhi sono lo specchio dell’anima”, e simpaticamente vi sfido a cercare
qualcuno che non ci creda. Non avete mai sentito dire: “Sì, gli ho creduto
perché l’ho guardato negli occhi”, quasi si sia al di là delle parole? E fateci
caso: gli occhi non invecchiano. Vediamo invecchiare tutto di una persona, ma
gli occhi no. Soprattutto se è la persona che amiamo, possiamo sempre ritrovare
quegli stessi occhi, quello stesso sguardo della prima volta che persiste,
resiste: netto.
È un organo strano
l’occhio, che sta contemporaneamente dentro e fuori, e che quando vogliamo
possiamo decidere di chiudere. Javiers Marìas, un ottimo romanziere spagnolo,
vivente, scrive in un suo libro “le orecchie non hanno palpebre”; Roland
Barthes dice che le parole sono una chimica impalpabile che senza che ce ne
accorgiamo ci entra dentro e ci modifica. È questo che in altro modo dice
Marìas: ascoltiamo anche cose che non vorremmo o che non dovremmo ascoltare, e
questo, volenti o nolenti, ci cambia.
Ma gli occhi no. E siamo
noi che possiamo decidere di porli in azione. E Gatto decide, decide di porre
tutto il suo corpo in visione-ascolto, dunque non soltanto gli organi
naturalmente preposti ma le sue intere sensibilità.
Chiariamo: non è un
ovvio sentire, guardare, vedere, ascoltare, ma un’attenta forma di
perlustrazione, di percezione di ogni possibile fremito che derivi dalla e alla sua interiorità. Credo che non deve perciò sorprendere se il
percorso del poeta si dipana con una sorta di ordine cronologico, non deve
sorprendere se le prime impressioni
sono legate alla storia familiare, alla città di nascita, all’infanzia, alle
proprie esperienze di gioventù… Tutti temi sempre vivi sulla sua strada, temi
che resteranno anche quando la durezza degli eventi ne sovrapporrà di
nuovi, perché crescendo, mutando quindi
la sua interiorità, muterà di quei temi la percezione, la visione: i rapporti
con la madre e col padre, la morte prematura del fratello Gerardo, nel ’25,
l’infanzia propria, e poi dei figli, e poi dei bambini in generale con
composizioni di poesie a loro interamente dedicate. A volte sono semplici
strappi, registrazioni di lucidi impatti visivi, schizzi di colore.
“Isola” è già segnata da
queste visioni: “Corso”, poemetto in prosa in cui si registra una lacerazione
tra passato e presente, e dove la visione al crepuscolo della città
(probabilmente quella di nascita), si riversa sui dubbi interiori del presente;
“Amici”, dove si fa protagonista la Napoli degli anni universitari; o forse,
meglio di tutti, “San Liberatore”.
San Liberatore è un
piccolo monte a cucuzzolo che sovrasta la città di Salerno. Sulla sua sommità è
posta una gran croce. Tornerà questo monte, oltre che in tanti raccontini quale
simbolo di scorribande infantili per la tenue campagna salernitana, come
doloroso monumento nelle cronache che Gatto scriverà quale inviato per il
settimanale “Epoca” in occasione della drammatica alluvione che colpì la sua
terra nel 1954:
“Il vecchio priore dell’Annunciata, don Luigi Fanchiotti, è morto da un
pezzo. Ai suoi tempi, dopo la controra, metteva la sedia fuor di sagrestia e
scambiando poche parole col vicino marmista conveniva sulla bella sera,
guardando a monte San Liberatore puro, senza nuvole, con la casetta
dell’eremita nitida sulla roccia. San Liberatore senza cappuccio significava e
significa per i salernitani bel tempo, tempo da scampagnate e da lunedì
dell’Angelo. Da via Spinosa a Canalone, alla Croce, a San Liberatore, i ragazzi
che bigiano la scuola sanno d’incontrare solitudine e silenzio. Una volta
lassù, la città imminente è pur così lontana e il mare fermo come nell’Estaque
di Cézanne tien duro la cerchia azzurra e leggera dei suoi monti da Capo d’Orso
alla punta di Agropoli. Alle spalle, sul versante di Alessia e di Marini, la
strada scende umana e tranquilla a avvicinare, uno dopo l’altro, paesi raccolti
intorno al florido androne della chiesa e del campanile, salvi ancora nel loro
carattere di agreste neoclassico che dà a ogni casa l’agio e lo spicco di una
dimora.”
Ecco, qui siamo di
fronte ad un articolo di giornale (e che articolo! V’invito a leggere il
resto), ma nel “San Liberatore” di “Isola” il rapporto è sicuramente più
intimo, famigliare:
“Dalla nostra casa si vedeva il mare, nel
golfo delle montagne.
Il paese saliva con le sue
scale verdi, tra gli alberi rugginosi ed incatenati, ad un gran terrapieno a
picco sulla valle. Lievito d’acque, a sera, tra le canne ed il fogliame: odore
d’erbe, aspro e rapido nel vento.
A petto largo si fiutava lo
spazio come un mare. Si capitava così nella notte: gli uomini lenti appendevano
i lumi alle case, ed il paese rimaneva approdato ai banchi umidi. Letto di
ferro: nella stanza nuda, odorosa di sorbe. Travi grosse al soffitto, dal
balcone aperto il vasto soffio della terra. Intirizzivo nella mia carne,
dormivo ridente ed intero.”
Un quadro questo
passaggio dal giorno alla notte, notte dove “si capita”, quasi per caso, nel
lento ripetersi dei riti quotidiani, nella concretezza delle cose e degli
odori. La musicalità è qui fatta certo non dalla versificazione (ovvio!), ma
dalla punteggiatura, che scandisce, marca, segnala tempi di respiro e pensiero.
Ma ciò che Gatto pone al centro del suo poema non sono tanto le immagini di
mare e vento e terra, quanto il proprio privato, su cui nasce e termina il
poemetto, dove movimento e stasi si incastrano in sensazioni compiute.
L’occhio, l’occhio-corpo all’esterno per cogliere una sensazione tutta
interiore: dalla casa si esce, sul mare certo nella solidità della cerchia dei
monti del golfo salernitano; le sensazioni, le visioni si sviluppano, forse
immaginate, forse ricordate, in giochi d’infanzia, scorribande, piccoli viaggi
di scoperta che, naturalmente, trovano sbocco nell’umile lavoro degli uomini,
che è preannuncio del tepore della notte; la solidità della casa rassicura il
fanciullo, il mondo fuori si muove leggero, il brivido che precede il sonno
forse dà spavento, ma si fa anche segno tangibile dell’esistenza, e rende
sereno l’addormentarsi; gli uomini, lenti, che nella notte appendono i lumi
alle case paiono rimandare alla luce povera e rassicurante che la poesia offre
al cuore dell’uomo; appesi fuori le case, quei lumi segnano il percorso,
rendono possibile la strada, consentono al paese di rimanere attaccato ai suoi
“banchi umidi”, a quel punto in cui terra e mare si mescolano.
“Nessuno accende una
lucerna per nasconderla, nessuno accende una lucerna per metterla sotto il moggio”
dice sempre Cristo. Nessuno scrive una poesia per nasconderla, e forse nessuno
che sia “preso dalla poesia” può nascondersi. Almeno credo.
Facciamo una pausa?
Grazie”.
(1) Sempre per il lettore
(d’ora in poi non lo ripeto più): molti dei nostri umani problemi nascono
dall’impossibilità di conoscere e possedere la Verità. E tale impossibilità ci
è “regalata” dall’inganno delle nostre stesse parole. Esiste infatti uno scarto
tra le cose e i nomi che noi diamo loro: la parola non è l’oggetto, e
viceversa. Basterebbe organizzarsi e cominciar a chiamare una “penna”
…“sarolla”, “mi passi una sarolla,
per favore”, funzionerebbe lo stesso. In un lontano punto nel tempo e nello spazio, ci siamo solo messi
d’accordo su come chiamare le cose. E sto parlando di oggetti, ma immaginate
cosa accade con le sensazioni o i sentimenti.
È da questo nodo irrisolvibile che scaturiscono tutti i nostri problemi, pensate a quando un Tribunale deve
giudicare un imputato, pensate a quando comunichiamo il nostro amore, pensate…
a quello che volete.
Dare il Nome alla Cosa è
l’atto più… impossibile (se mi passate la sgrammaticatura) che fin dalla notte
dei tempi ci sia capitato di affrontare. E l’inganno è anche doppio nel momento
in cui ci accorgiamo che quest’atto del nominare è possibile, ci riesce,
accade, ma solo dentro di noi, e per ciascuno di noi. Appena pensiamo di
“portar fuori”, di comunicare agli
altri e con gli altri, è già tutto sbagliato, e non ci ritroviamo più. Lo so, state pensando a Pirandello, ma non è “semplicemente Pirandello”, ma Pirandello che “semplice-mente”
ha capito tutto, e la sua genialità è essere riuscito a farne non filosofia
(tipo Leopardi, sic!), ma teatro, cioè personaggi, cioè carne e sangue.
A questo punto pensate anche
a quando qualcuno afferma di possedere la Verità, soprattutto quando un politico
afferma di possedere la Verità. Negli ultimi tempi, i nostri politici si sono
tutti talmente “incartati” con queste “asserzioni di verità” che nei pubblici
contrasti sono arrivati a dire: “La verità vera è…”, come se ne esistesse una
falsa. Mah!
Nessun commento:
Posta un commento
dite pure quel che volete, siete solo pregati di evitare commenti inutili e volgarità.