giovedì 8 ottobre 2015

3 - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)



Ricordo: in rosso le note a piè pagina. (e le foto sono di Pino Rampolla)














II giornata

«Buongiorno.
Come state? Tutto bene?...
Temo - vi avverto - che questa giornata sarà decisamente più faticosa della precedente, e francamente spero che le cose che ci siamo detti l’altra volta vi siano rimaste chiare, così se non ci sono domande, riprenderei il nostro discorso. Dunque… coraggio!
Riprendiamo da una poesia cui l’altra volta avevo accennato, e che fa parte sempre del primo volume pubblicato da Gatto, “Isola”, vi ricordo del 1932, dunque a ventitre anni; si tratta di “Il giogo”. Leggiamola:

Ad una montagna dura, scoscesa,
dritta sullo specchio verde del mare,
mi sono aggrappato in una difesa
panica, con le mani strette alle rare

erbe che si schiantano senza colore.
Non vedo oltre le mie braccia artigliate
dall’istinto: risento con terrore
la gioia di cadere, abbandonate

le membra nel vuoto facile e teso.
Ma mi raccolgo, non grido: la voce
mi ridarebbe il senso del mio peso.

Vi parlavo l’altra volta dell’immediata presa di coscienza del giovane Gatto del suo essere poeta, quasi una vocazione, una chiamata cui non si può sfuggire, e alla fine del nostro discorso siamo arrivati a mettere in gioco questa idea di un poeta che “scrive con il corpo”, che ha offerto il suo corpo alla poesia, che si lascia attraversare dalle sensazioni. “Il giogo” è soltanto il secondo componimento di “Isola”, ma evidentemente con la “fisicità” è necessario confrontarsi subito. Il corpo, infatti, pone problemi quali il senso del peso, il superamento dei limiti,  l’abbandono
Anche qui, quella “gioia netta” di cui dicevamo, credo sia presente. Presente nell’immagine certamente affascinante di questa montagna dura che scoscende dritta sullo specchio limpido e verde del mare (forse un ricordo della bellezza della costa d’Amalfi?), e che mostra immediatamente il suo pericolo, pericolo che spinge alla “difesa panica”. Ma cosa c’è oltre quel corpo, oltre quelle “braccia artigliate/ dall’istinto”? Forse tutto, forse nulla. Certo è che il poeta non vede oltre il suo corpo, oltre lo spazio cerchiato dalla sua fisicità (ce lo dice chiaramente: “Non vedo oltre le mie braccia…”). Tornano gioia e terrore, nel dubbio che cadere o tenersi li comprendano entrambi, nel dubbio che l’abbandono al vuoto possa essere sia profonda acquisizione che facile risoluzione. Dunque che fare?
Gatto sta! Si raccoglie. Non sceglie nessuna delle due soluzioni, nessuna delle due fisiche conclusioni (tenersi o lasciarsi), ma una terza: si ferma! E “raccogliersi” non credo vada visualizzato come tensione cruda del corpo, istintiva nel tentativo di impedire una disfatta, ma come focalizzazione della propria attenzione, delle proprie energie, sull’interno, su se stesso, come ri-accogliersi, come ri-accettare, tornando di nuovo ad una essenza certa: quella del proprio essere uomo. Gatto ristà, dentro, nel corpo, come in quell’ in che dà principio al tutto.
Forse è in tal senso facile farsi venire in mente “in” ben più importanti per la storia della letteratura e dell’umanità. Fratello carnale del piccolo “in” di Gatto è il “Nel” di inizio della Commedia o, ancor più, l’ “In principio era il Verbo” del Vangelo di Giovanni, dove però, il Verbo, facendosi carne, potrà sempre ripetere “In Verità, in Verità vi dico”, vi dico essendo io la verità, vi dico essendo io nella Verità, ecc. (1)
La scelta di essere dentro è inizio di un viaggio interminabile che non vorrà e non potrà conoscere frontiere nell’esplorare quel movimento che il divieto posto dalla propria carne segna come limite, invalicabile e comunque infinito, anzi, di quel limite fa tesoro, nuova scoperta, spostando l’attenzione, di fronte a problemi insondabili quali per esempio la morte, dal macro al micro; forse che in quel cogliere il sospetto e la lusinga del movimento, ci sia un barlume della Verità, del Verbo fatto carne?
Io ho forse più pudore, ma Ràmat senza mezzi termini parla di “ipostasi della poesia”.
Cos’è l’ “ipostasi”? Ci arriveremo.

Siamo partiti in quarta stamattina. Speriamo di non fondere il motore.
“Essere nel corpo”, si diceva, ed essere nel corpo è essere negli occhi. “La lucerna del tuo corpo è l’occhio” dice Cristo (mi pare sia Luca), “se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è sano, ma se è malato anche il tuo corpo è nelle tenebre”, più o meno, cito a memoria.
L’occhio è importante, gli occhi sono importanti. Uno dei volumi di Gatto, dei primi anni ’50, si intitola proprio “La forza degli occhi”, e se lo leggerete vi accorgerete che è pieno di occhi, volti, colori. Tutti conosciamo quel vecchio adagio che dice: “gli occhi sono lo specchio dell’anima”, e simpaticamente vi sfido a cercare qualcuno che non ci creda. Non avete mai sentito dire: “Sì, gli ho creduto perché l’ho guardato negli occhi”, quasi si sia al di là delle parole? E fateci caso: gli occhi non invecchiano. Vediamo invecchiare tutto di una persona, ma gli occhi no. Soprattutto se è la persona che amiamo, possiamo sempre ritrovare quegli stessi occhi, quello stesso sguardo della prima volta che persiste, resiste: netto.
È un organo strano l’occhio, che sta contemporaneamente dentro e fuori, e che quando vogliamo possiamo decidere di chiudere. Javiers Marìas, un ottimo romanziere spagnolo, vivente, scrive in un suo libro “le orecchie non hanno palpebre”; Roland Barthes dice che le parole sono una chimica impalpabile che senza che ce ne accorgiamo ci entra dentro e ci modifica. È questo che in altro modo dice Marìas: ascoltiamo anche cose che non vorremmo o che non dovremmo ascoltare, e questo, volenti o nolenti, ci cambia.
Ma gli occhi no. E siamo noi che possiamo decidere di porli in azione. E Gatto decide, decide di porre tutto il suo corpo in visione-ascolto, dunque non soltanto gli organi naturalmente preposti ma le sue intere sensibilità.
Chiariamo: non è un ovvio sentire, guardare, vedere, ascoltare, ma un’attenta forma di perlustrazione, di percezione di ogni possibile fremito che derivi dalla e alla sua interiorità. Credo che non deve perciò sorprendere se il percorso del poeta si dipana con una sorta di ordine cronologico, non deve sorprendere se le prime impressioni sono legate alla storia familiare, alla città di nascita, all’infanzia, alle proprie esperienze di gioventù… Tutti temi sempre vivi sulla sua strada, temi che resteranno anche quando la durezza degli eventi ne sovrapporrà di nuovi,  perché crescendo, mutando quindi la sua interiorità, muterà di quei temi la percezione, la visione: i rapporti con la madre e col padre, la morte prematura del fratello Gerardo, nel ’25, l’infanzia propria, e poi dei figli, e poi dei bambini in generale con composizioni di poesie a loro interamente dedicate. A volte sono semplici strappi, registrazioni di lucidi impatti visivi, schizzi di colore.
“Isola” è già segnata da queste visioni: “Corso”, poemetto in prosa in cui si registra una lacerazione tra passato e presente, e dove la visione al crepuscolo della città (probabilmente quella di nascita), si riversa sui dubbi interiori del presente; “Amici”, dove si fa protagonista la Napoli degli anni universitari; o forse, meglio di tutti, “San Liberatore”.
San Liberatore è un piccolo monte a cucuzzolo che sovrasta la città di Salerno. Sulla sua sommità è posta una gran croce. Tornerà questo monte, oltre che in tanti raccontini quale simbolo di scorribande infantili per la tenue campagna salernitana, come doloroso monumento nelle cronache che Gatto scriverà quale inviato per il settimanale “Epoca” in occasione della drammatica alluvione che colpì la sua terra nel 1954:
Il vecchio priore dell’Annunciata, don Luigi Fanchiotti, è morto da un pezzo. Ai suoi tempi, dopo la controra, metteva la sedia fuor di sagrestia e scambiando poche parole col vicino marmista conveniva sulla bella sera, guardando a monte San Liberatore puro, senza nuvole, con la casetta dell’eremita nitida sulla roccia. San Liberatore senza cappuccio significava e significa per i salernitani bel tempo, tempo da scampagnate e da lunedì dell’Angelo. Da via Spinosa a Canalone, alla Croce, a San Liberatore, i ragazzi che bigiano la scuola sanno d’incontrare solitudine e silenzio. Una volta lassù, la città imminente è pur così lontana e il mare fermo come nell’Estaque di Cézanne tien duro la cerchia azzurra e leggera dei suoi monti da Capo d’Orso alla punta di Agropoli. Alle spalle, sul versante di Alessia e di Marini, la strada scende umana e tranquilla a avvicinare, uno dopo l’altro, paesi raccolti intorno al florido androne della chiesa e del campanile, salvi ancora nel loro carattere di agreste neoclassico che dà a ogni casa l’agio e lo spicco di una dimora.”
Ecco, qui siamo di fronte ad un articolo di giornale (e che articolo! V’invito a leggere il resto), ma nel “San Liberatore” di “Isola” il rapporto è sicuramente più intimo, famigliare:

“Dalla nostra casa si vedeva il mare, nel golfo delle montagne.
Il paese saliva con le sue scale verdi, tra gli alberi rugginosi ed incatenati, ad un gran terrapieno a picco sulla valle. Lievito d’acque, a sera, tra le canne ed il fogliame: odore d’erbe, aspro e rapido nel vento.

A petto largo si fiutava lo spazio come un mare. Si capitava così nella notte: gli uomini lenti appendevano i lumi alle case, ed il paese rimaneva approdato ai banchi umidi. Letto di ferro: nella stanza nuda, odorosa di sorbe. Travi grosse al soffitto, dal balcone aperto il vasto soffio della terra. Intirizzivo nella mia carne, dormivo ridente ed intero.”

Un quadro questo passaggio dal giorno alla notte, notte dove “si capita”, quasi per caso, nel lento ripetersi dei riti quotidiani, nella concretezza delle cose e degli odori. La musicalità è qui fatta certo non dalla versificazione (ovvio!), ma dalla punteggiatura, che scandisce, marca, segnala tempi di respiro e pensiero. Ma ciò che Gatto pone al centro del suo poema non sono tanto le immagini di mare e vento e terra, quanto il proprio privato, su cui nasce e termina il poemetto, dove movimento e stasi si incastrano in sensazioni compiute. L’occhio, l’occhio-corpo all’esterno per cogliere una sensazione tutta interiore: dalla casa si esce, sul mare certo nella solidità della cerchia dei monti del golfo salernitano; le sensazioni, le visioni si sviluppano, forse immaginate, forse ricordate, in giochi d’infanzia, scorribande, piccoli viaggi di scoperta che, naturalmente, trovano sbocco nell’umile lavoro degli uomini, che è preannuncio del tepore della notte; la solidità della casa rassicura il fanciullo, il mondo fuori si muove leggero, il brivido che precede il sonno forse dà spavento, ma si fa anche segno tangibile dell’esistenza, e rende sereno l’addormentarsi; gli uomini, lenti, che nella notte appendono i lumi alle case paiono rimandare alla luce povera e rassicurante che la poesia offre al cuore dell’uomo; appesi fuori le case, quei lumi segnano il percorso, rendono possibile la strada, consentono al paese di rimanere attaccato ai suoi “banchi umidi”, a quel punto in cui terra e mare si mescolano.
“Nessuno accende una lucerna per nasconderla, nessuno accende una lucerna per metterla sotto il moggio” dice sempre Cristo. Nessuno scrive una poesia per nasconderla, e forse nessuno che sia “preso dalla poesia” può nascondersi. Almeno credo.
Facciamo una pausa?
Grazie”.



(1) Sempre per il lettore (d’ora in poi non lo ripeto più): molti dei nostri umani problemi nascono dall’impossibilità di conoscere e possedere la Verità. E tale impossibilità ci è “regalata” dall’inganno delle nostre stesse parole. Esiste infatti uno scarto tra le cose e i nomi che noi diamo loro: la parola non è l’oggetto, e viceversa. Basterebbe organizzarsi e cominciar a chiamare una “penna” …“sarolla”, “mi passi una sarolla, per favore”, funzionerebbe lo stesso. In un lontano punto nel tempo e nello spazio, ci siamo solo messi d’accordo su come chiamare le cose. E sto parlando di oggetti, ma immaginate cosa accade con le sensazioni o i sentimenti. È da questo nodo irrisolvibile che scaturiscono tutti i nostri problemi, pensate a quando un Tribunale deve giudicare un imputato, pensate a quando comunichiamo il nostro amore, pensate… a quello che volete.
Dare il Nome alla Cosa è l’atto più… impossibile (se mi passate la sgrammaticatura) che fin dalla notte dei tempi ci sia capitato di affrontare. E l’inganno è anche doppio nel momento in cui ci accorgiamo che quest’atto del nominare è possibile, ci riesce, accade, ma solo dentro di noi, e per ciascuno di noi. Appena pensiamo di “portar fuori”, di comunicare agli altri e con gli altri, è già tutto sbagliato, e non ci ritroviamo più.  Lo so, state pensando a Pirandello, ma non è semplicemente Pirandello, ma Pirandello che “semplice-mente” ha capito tutto, e la sua genialità è essere riuscito a farne non filosofia (tipo Leopardi, sic!), ma teatro, cioè personaggi, cioè carne e sangue.
A questo punto pensate anche a quando qualcuno afferma di possedere la Verità, soprattutto quando un politico afferma di possedere la Verità. Negli ultimi tempi, i nostri politici si sono tutti talmente “incartati” con queste “asserzioni di verità” che nei pubblici contrasti sono arrivati a dire: “La verità vera è…”, come se ne esistesse una falsa. Mah!

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