mercoledì 14 ottobre 2015

4 - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricorda di un poeta)

















Dicevo dei poemetti in prosa. “Isola” è ricco di questi poemetti, e la cantabilità del verso di Gatto (elemento che mi affascina, lo ripeto) è assolutamente sorprendente rispetto al panorama poetico che lo circonda, quasi che il suono sia per lui più importante del senso stesso delle parole (cosa che poi ovviamente non è). Ma in “Isola”, con l’utilizzo di figure metriche molto differenti, fino al “rifugiarsi” nella prosa (-poetica), egli sembra fare un primo esperimento su tutte le possibilità di cui il suo “animo cantante” può disporre. …Con questo non voglio dire che Dante sapesse usare solo l’endecasillabo, quella è una scelta, ed è grazie a quella scelta che abbiamo l’endecasillabo. E poi erano altri tempi e altre situazioni, ma andiamo avanti.
Questa contemporanea leggerezza ed intensità dello scrivere in prosa, troverà grande compiutezza nell’attività giornalistica, ancor più - a mio parere e so che sembra assurdo - che nell’attività di libero narratore. Il giornalismo - Gatto lo sa bene - pone regole nette, com’è giusto che sia data la sua precisa finalità. Pur tuttavia, egli fiderà, anche nell’affrontare questa professione, proprio sulla capacità del suo animo di abbandonarsi in se stesso. Entusiasmanti, e non ho timore a definirle così, sono le sue cronache dai Giri d’Italia e dai Tour de France, per esempio. Anzi, va notato che nell’immediato secondo dopoguerra, in un’Italia che si ricostruisce, il lavoro di scrittori come Gatto, o Vittorini, o Buzzati (altro splendido scrittore-giornalista, vabbè…), messi al servizio di una attività così improbabile per lo sguardo comune quale quella di cronista sportivo, darà non solo uno straordinario impulso alla rivisitazione di tutto il linguaggio del settore, ma servirà incredibilmente, in un’epoca in cui non c’era la tv (cosa per troppi di noi, qui, difficile da immaginare), servirà a “ricollegare”, a “riacciuffare” i pezzi di un Paese sbandato. Chi sa se in quella Italia del dopoguerra, quando il Giro riprendeva la sua marcia festosa e colorata, nel fondo di molti cuori abbiano agito positiva-mente più i racconti di quegli straordinari cronisti che non mille discorsi di politici – che pure, all’epoca, erano politici in gamba e seri, come non riusciamo più ad immaginare.
La tv non c’era, le immagini erano le poche dei cinegiornali, ci voleva gente capace, oltre ogni misura, di farti vedere ciò che non si poteva vedere. A proposito: chi vinse quel Giro del ’47? Non me lo ricordo ma possiamo trovarlo facilmente: su internet! (1)
“Per anni – scrive Gatto, ancora nel volume “Le ore piccole (note e noterelle)” che già citavamo ieri, e proprio nella nota che dà il titolo alla raccolta… – Per anni sono stato un curioso cronista. Arrivavo in ritardo sui fatti e cercavo di vedere se era possibile averne almeno un qualche consiglio, un suggerimento di pietà, un lume di intelligenza che servisse a ricordare con parole più intime e più durevoli i protagonisti della storia di tutti i giorni”.
Con questo suo esplicito disattendere (“Arrivavo in ritardo sui fatti”, il giornalismo vive sulla velocità), Gatto dichiara di avere appreso le regole del mestiere, ma il suo tentativo appare ancora una volta quello di percepire sensazioni differenti: non la pura e semplice evidenza delle situazioni, ma dalle situazioni ottenere quel “consiglio” per un resoconto che possa risultare più intimo e durevole.
Va certamente notata, nell’opera di Gatto, l’incapacità, o la non voglia, di dedicarsi al racconto lungo. Manca, infatti, nella sua produzione, un romanzo. C’è anche un’opera teatrale, “Il duello”, praticamente mai rappresentata per come è scritta. Questo non per mancanza di volontà, ma perché a leggerla si comprende che l’autore aveva ben poca dimestichezza con la materia, una lontananza quasi abissale con canoni e regole del comporre scenico. Mancano “dialettica” e “sintesi”, cardini essenziali della scrittura teatrale. Insomma, il fatto che sia Alfonso Gatto non vuol dire che sia perfetto in tutto: il teatro non fa per lui, e quell’esperienza del “Duello”, resterà giustamente (dal punto di vista dell’autore, cui va riconosciuta grande consapevolezza dei propri mezzi) isolata. D’altronde, avere la capacità di “sdoppiarsi” o “triplicarsi” in animi e sensazioni differenti, forse non può appartenere a chi è teso ad un intenso e continuato ascolto di se stesso e delle sensazioni che tutto il suo essere gli porge. Gatto sta sull’uomo, anzi su di un solo uomo, che prende come a simbolo di tutta l’esistenza umana. In tal senso, veramente ricorda Whitmann.
La mancanza dell’opera romanzo è colmata, secondo Luigi Giordano, dalle cronache del “processo Fenaroli”, un grave caso di omicidio degli anni cinquanta che ancora oggi lascia colare dubbi e sul quale torneremo. Quattro mesi di cronache di quel processo risulteranno, alla fine, come un romanzo di appendice, come una delle affascinanti storie delittuose di Dostojevski. Certamente, nemmeno Gatto, immerso com’era nell’esercizio della professione, sapeva cosa andava componendo, e resta solo evidente il suo appassionarsi a un caso umano, umano perché misterioso, che investe i problemi profondi della coscienza ed il suo insondabile rapporto con il senso, ancora una volta, della Verità.
Tutto questo credo segnali anche un altro particolare importante. L’essere poeta di cui Gatto si trova investito, pare come impedirgli un respiro più lungo… di una poesia. Anche le sue composizioni in versi non riescono mai a superare la novantina di versi circa, tranne sporadici casi. Procede per illuminazioni, pensieri sintetici, folgorazioni, mini racconti, quadri, per “sentori di problema”, ed in tal senso, poesia e giornalismo s’incontrano, lì dove, soprattutto nel secondo, la brevità, unita alla chiarezza, è un dono.
I due campi, poesia e giornalismo non possono che vicendevolmente influenzarsi. Quando arriviamo a “La storia delle vittime”, volume che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il ’47 e tra il ’64 e il ’65, nel quale si fa evidente l’impegno civile e politico di Gatto, l’attenzione del poeta pare spostarsi su di un altro piano compositivo: le poesie si “allungano”, i versi sembrano ancor più declamati, alti, sciolti molto spesso dalle forme canoniche, gli enjambement quasi spariscono, il discorso si fa più diretto; come se Gatto sentisse un bisogno concreto di “raccontare”, a volte dilungandosi su vere e proprie storie. E fa di nuovo tornare alla mente Whitmann. Stavolta è nel canto del poeta che entra d’impeto il cronista, un cronista dolente che non risparmia scene crudeli e vive al suo lettore, non risparmia nomi e fatti.
Anche qui qualche piccolo esempio:

            DICEMBRE ‘43

            Hanno ammazzato Rèsega, c’è il sole,
            la nebbia di dicembre sul viale
            Bronzetti. È uno, la pietà non vale,
            si fermano al contento le parole.

            Il lugubre apparato, il passo corto
            dei gerarchi in corteo, ma al Cordusio
            dalla Tessile sparano sul morto.
            Il conto aperto non sarà mai chiuso.


            A PIAZZALE LORETO

            Quel giorno di Loreto uno squadrista zoppo
            di guardia ai morti urlava: «indietro buona gente»,
ed era sfatto, stanco di chiedere col troppo
insistere un favore che «non costava niente».
(…)

IL RACCONTO

Kappler-faccia tagliata venne per testimone
a raccontarci il massacro.
Si disse fanatico e sacro
nella sua grande fatica
d’abbattere ostaggi, un portone
di buio aperto dai fari
la cava di Roma antica.       
(…)

Poi una che secondo me è molto ironica:

IN TRAM

Le signore che credono nell’arma
segreta si ritrovano ai conviti.
Stretta la donna ai seni intirizziti
nella pelliccia calda filtra l’occhio
sull’amico impacciato: «… ma l’allarme
- passi da me la notte? – mi dà tono…»
La gonna risicata sul ginocchio,
crede all’arma segreta del suo dono
e non si guarda intorno. «Poi, domani
al Lirico c’è il duce…» Le consente
distratto l’uomo, cerca le sue mani.
Insinua l’imprudenza. «Ma c’è gente…»
Ora soltanto guardano i nemici.

E infine quella che di questo volume è la mia preferita:

25 APRILE

La chiusa angoscia delle notti, il pianto
delle mamme annerite sulla neve
accanto ai figli uccisi, l’ululato
nel vento, nelle tenebre, dei lupi
assediati con la propria strage,
la speranza che dentro ci svegliava
oltre l’orrore le parole udite
dalla bocca fermissima dei morti
«liberate l’Italia, Curiel vuole
essere avvolto nella sua bandiera»:
tutto quel giorno ruppe nella vita
con la piena del sangue, nell’azzurro
il rosso palpitò come una gola.
E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.

Ho spesso pensato che certe “illuminazioni” degli artisti possono dirci di alcuni momenti storici più di quanto anche i migliori studi riescano a fare. È come se ci rimandassero proprio il… portato emotivo di quelle situazioni, di quei tempi. Non so… se penso al Risorgimento, mi viene in mente la prima scena del secondo atto dell’ “Attila” di Giuseppe Verdi, in pochi minuti di musica e canto ci viene restituito tutto il valore di una decisione, di una scelta di lotta, di libertà, ed immagino che proprio quella doveva essere l’emozione che “attraversava” l’Italia e gli italiani. Certo non a caso, per farci precipitare nel clima storico-emotivo, Visconti apre il suo “Senso” con l’ultima scena del terzo atto de “Il trovatore” (ancora Verdi), con tutta l’esplosione patriottica che poi ne consegue, e dalla quale, credo – almeno a me questo accade – ci sentiamo violentemente emozionati; non vi nascondo che alla fine della scena mi ritrovo in lacrime. 
Se penso al 25 aprile, al giorno della liberazione dalla dittatura fascista, se penso alle emozioni di quel giorno, immagino che debbano essere state proprio come quelle che Gatto mi rimanda con questa poesia, prima chiusa, cupa, oscura, nera (non a caso, sic!), poi aperta in una esplosione di gioia e di colori, due colori: azzurro e rosso, rosso del sangue, azzurro del cielo, un dentro e fuori che si toccano, si mescolano senza più distinzione, fino alla considerazione, alla comprensione, alla rivelazione che si è vivi proprio perché si è liberi, ed è una rivelazione che non arriva dall’esterno, ma da una emozione profonda, che sgorga dall’interno, dall’intimo, dalla pienezza del nostro animo, dall’accorgersi, all’improvviso, che abbiamo un cuore, un cuore che per oltre vent’anni aveva come cessato di battere.
Voglio rileggerveli questi ultimi quattro versi:

E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.

Che dire di quest’ultimo verso “il cuore/ d’improvviso ci apparve in mezzo al petto”? Io non trovo aggettivi. Vi dico solo che credo che questa Italia repubblicana dovrebbe avere la decenza e il coraggio di scolpire gli ultimi quattro versi su delle lapidi da inchiavardare sui muri di tutte le sue piazze, veramente, ma veramente per non dimenticare mai. Vi dico solo: imparateli a memoria.

Credo si possano fare due osservazioni sul modo in cui Gatto tratta la materia giornalistica. Innanzi tutto, egli ha fede nei suoi mezzi e non teme di utilizzarli sempre e comunque; leggendo le sue cronache si percepisce facilmente, per esempio, come lasci il discorso sempre libero di fluire, confidando in quel suo innato senso della musicalità e nel gusto per le sonorità, anche se questo può andare ad infrangere quelle poche regole di base note anche al più scalcagnato dei cronisti, tipo “evita le ripetizioni”.
La seconda osservazione è certo più sempliciotta e di stampo - consentite - “personale”: c’è una simpatica furbizia nell’approccio professionale di Gatto. È ipotizzabile – forse è un gioco, ma forse non lontano dal vero – che il poeta si sia detto: io non sono un giornalista, e non avendo nemmeno svolto la normale “gavetta” non ho imparato il mestiere di giornalista; dunque, come posso affrontare l’opportunità lavorativa che mi viene offerta (e si sa quanto Gatto avesse bisogno di lavorare e guadagnare)? Semplice, usando le frecce che naturalmente sono al mio arco e adattandole alle specifiche necessità. Paradossalmente si potrebbe dire che anche in questo caso, Gatto non fa null’altro che usare se stesso per ciò che è e per ciò che quel se stesso è abituato a fare (idem quando si ritroverà a scrivere un testo di canzone per una sigla televisiva). Sembra nulla, ma anche questo fa parte dei rischi, delle sfide che il poeta accetta. Gioca le sue carte con profonda onestà intellettuale, e non sa minimamente se vincerà la partita. Sappiamo, oggi, che la vinse.
“Trovai – continua ne “Le ore piccole” –, come si dice, molti lettori affezionati, ricordavano i miei «corsivi», mi scrivevano confidandomi che quel modo di giungere in ritardo sulle cronaca era un modo di esserle veramente fedele, un indugiare sull’ammonimento che ogni fatto lascia intorno a sé come un silenzio che tien dietro al rumore. (…) Voglio dirvi che sono un uomo di cuore, ecco tutto, e come tutti gli uomini di cuore attento a lasciarmi capire anche per quello che non dico, sì da ospitarvi nel mio gioco e da fare insieme gli stessi pensieri.
Ogni giorno un fatto tra tanti fatti: l’ammonitore sarà pago di lasciare scritte le sue parole sull’acqua del fiume che corre sotto i nostri occhi. Vuol solo trattenerle dalla ràpida, non farle precipitare: perché, pur andando verso il mare della dimenticanza e dell’oblio, esse restino visibili nel loro viaggio, cancellandosi a poco a poco. Così, tra il passato remoto che è storia e il presente che non è mai lo stesso, vivrà quel passato prossimo che solo ci avverte del tempo e ci avvicina a far nostri i lutti, i dolori, le gioie e le speranze degli uomini che vivono tra noi e insieme a noi. (…)
La cronaca ha fretta, brucia i giorni, sembra commuoversi per quanto è indifferente e cinica. Ma i poeti sono in allarme per salvarla dalle ceneri, per scoprire in ogni evento una domanda che sia conoscenza, all’origine di un nuovo pensiero, di un nuovo dubbio. Il gioco non è mai fatto ed è sempre ancora da fare. Il mistero di quel che siamo è l’allarme che non ci dà mai pace. L’intelligenza è un sospetto, un’indagine sulla ragione”.
Torna alla mente Carmelo Bene, in un’intervista televisiva, che contro la superficialità del nostro più diffuso giornalismo così tuonava: “Non si può informare sui fatti, ma solo informare i fatti”. Gatto, da poeta, avrebbe certamente condiviso, e quel “durevole” ad inizio di Nota che vi sottolineavo, lascia trasparire la voglia di cercare, e trovare, forme in cui far consistere i fatti, perché questi non siano più solo merce per il blando consumo quotidiano.

Accennavo alla definizione di Ràmat: ipostasi della poesia.
Torniamo al vocabolario: Ipostasi – (tra le altre definizioni, si legge) nella teologia cristiana, persona della Trinità come sostanza assoluta e per sé sussistente | Unione della natura umana e divina. SIN. Incarnazione. Insomma, quello che generalmente indichiamo come “il Verbo che si fa carne”, il quale può consentirsi di affermare: “In Verità, in Verità vi dico…”
È inevitabile che chi si confronta con il giornalismo, volente o nolente, consapevole o no, si confronta con il problema della Verità. Non c’è scampo, e a maggior ragione non c’è scampo per chi, come Gatto, coscientemente ha accolto in sé, nel proprio corpo, il senso dell’essere poeta, e con esso viva e conviva in ogni istante della vita.
Così, oltre l’esercizio quotidiano della poesia, al di là del districarsi tra le proprie sensazioni e le proprie parole, il poeta corre verso tale problema, non potendo sfuggire alla necessità dell’indagine. Accade nel luogo umano deputato per eccellenza alla ricerca, ed all’accertamento della Verità: il Tribunale.
È il 1961 quando, assieme a Giampaolo Cresci, si fa inviare dal “Giornale del mattino” di Firenze a seguire uno dei più intricati processi per omicidio del nostro secondo dopoguerra, il cosiddetto “processo Fenaroli”. L’assassinata è una donna, Maria Martirano. Sul banco degli imputati tre uomini: il marito e mandante Giovanni Fenaroli, il sicario Raoul Ghiani, l’intermediario tra i due Gaetano Inzolia.
Come è consuetudine nel nostro Paese (consuetudine ancora non dismessa), l’Italia si divide tra colpevolisti e innocentisti, al modo in cui si divideva tra Coppi e Bartali, tra Callas e Tebaldi, Mina e Milva, difensivismo e offensivismo nel calcio, cattolici e comunisti, ed oggi tra destra e sinistra. Nel mezzo, pare sempre non possa esservi nulla, non la forza e l’intelligenza tattica di un Magni, non il lirismo camaleontico di una Leyla Gencer, o l’oculata gestione complessiva di un Bearzot. Niente.
Neanche a dirlo, Gatto sta nel mezzo. Mentre l’opinione pubblica ha emesso sentenza prima ancora del dibattimento, Gatto resta fermo, come nella “difesa panica” de “Il giogo”, ad ascoltare, a descrivere volti, atteggiamenti, le rughe di un viso, la dolenza di una madre, la rabbia dei familiari della vittima, l’incrollabilità delle argillose tesi degli accusatori, lo spaesamento degli imputati; non grida (proprio come dice ne “Il giogo”, dove la voce, gli ridarebbe il senso del suo peso), non grida come i quotidiani, nel bene e nel male, sono sempre abituati a fare, ma pone interrogativi sulle prove, lascia sul tavolo domande cui non c’è risposta e si suscita dubbi, nel tentativo di mostrare, dalle colonne del suo non certo divulgatissimo quotidiano, l’evidenza di una verità: quale che essa sia, per il consesso degli uomini la Verità è inafferrabile, e “Un fatto – scrive – pur delittuoso, resta umano, e affidato, come tutti i fatti umani, al mistero e al segreto degli uomini”.
“Il mistero di via Monaci – romanzo quotidiano del processo Fenaroli”, lo dobbiamo alla tenacia e alla passione di Luigi Giordano che nel 1996 ha pubblicato (Avagliano editore, se lo trovate ancora…) quello che proprio Gatto avrebbe voluto fosse il suo inutile romanzo, come lo chiamava. Riprese in mano gli articoli, li ordinò, fece correzioni, poi lo scritto, in questa forma, non arrivò mai alle stampe.
Perché inutile? Perché alla fine di tutto, a differenza dei romanzi gialli (che Gatto pare non amasse) non sapremo se gli assassini erano assassini. Ma certamente romanzo, perché come scrive ottimamente Giordano nella prefazione: “Un romanzo, esattamente come e quanto un processo, ha, in un punto, il valore dell’esistenza: nella sua vocazione a farsi specchio deformante della vita, dei volti, delle immagini che lo accarezzano. Nella sua capacità di allungare le ombre di ognuno per fonderle nelle ombre di ogni altro irreparabilmente. In quelle deformazioni sta il suo grado di verità. Un romanzo può servire, nel groviglio di anime che fonde e che deforma, a disvelare i fili che imbastiscono le invisibili storie degli uomini, il sospetto delle loro colpe, l’intreccio acuto delle loro emozioni, la irriducibilità della distanza tra vittime e carnefici e, assieme, il loro incubo comune, la coincidenza tragica tra l’agire e il narrare. Scrive Gatto: «La sera del 7 settembre 1958, la notte del 10, certamente non pensammo che “qualcuno” lavorava per noi, a chiamarci nella sua storia: noi, come i testimoni, come i giudici, “noi del delitto”. È avvenuto, diciamo, come ai medici càpita d’incontrare la morte, senza che abbiano pietà di se stessi e dell’uomo. Non possono averla e non se ne curano. Ma per noi del delitto non è così. Lo creda, signor Presidente, siamo innocenti, ma qualche cosa sempre accade per colpa dei nostri pensieri».”
È sublime quel “noi del delitto”, straziante! Gatto ci tira tutti dentro, sempre, dal momento in cui il consesso degli uomini mandò assolto Oreste che trucidò la madre, fino a chissà quando.
Tutti certamente ricordiamo l’episodio del Vangelo in cui l’adultera, che secondo la legge di Mosè avrebbe dovuto essere lapidata, viene portata dinnanzi a Gesù, ricordiamo il famoso “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Sappiamo anche che prima di pronunciare la fatidica frase, Gesù si chinò per terra e cominciò a scrivere con un dito sulla sabbia. Molti si sono chiesti cosa Gesù scrivesse. Ci ho pensato, talvolta, anch’io, e la risoluzione credo me l’abbia data Sciascia, Leonardo Sciascia.
Non credo sia importante cosa abbia scritto, ma il gesto stesso di scrivere, e simbolicamente di scrivere sulla sabbia. Colui che può affermare “In Verità, in Verità vi dico…”, ci sta dicendo, davanti ad un’imputata, che gli uomini hanno bisogno di scrivere la loro legge e non ostante tutto la loro legge sarà sempre imperfetta, dunque come possono pensare di ergersi a giudici assoluti ed infallibili. Nel giudizio c’è già errore. Molto spesso dimentichiamo che quella su cui un tribunale giudica non è la Verità, ma la “verità processuale”, che emerge dal dibattimento. La differenza è sottile ma sostanziale, poiché, comunque sia, anche quest’ultima non sarà mai la Verità. Da qualche parte Sciascia (non casualmente figlio di Pirandello) scrive che “se la legge esiste è perché siamo tutti colpevoli”. “Noi del delitto” è illuminazione e frase sorella, carnale e umana, dell’affermazione dello scrittore siciliano.(2)
Bene, credo, osservando le vostre facce, che sarete d’accordo con me se anche per oggi vi dico: può bastare!
È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta. Almeno spero.
Grazie.»



(1) Solo per amor di precisione: il Giro, che aveva chiuso la sua ultima edizione, vinta dall’allora gregario Fausto Coppi, il 9 giugno 1940 (il giorno seguente l’Italia entrerà in guerra), riprenderà nel 1946. La prima volta di Alfonso Gatto, da inviato de “L’Unità”, sarà nell’edizione del 1947. Chi vinse nel ’46, nel ’47, e anche nel ’48, insisto nel non dirvelo, ma vi assicuro che è facile immaginarlo.
(2) Consiglio, su questi temi, anche la lettura di due splendidi articoli di Dino Buzzati, il primo proprio sul processo Fenaroli, l’altro, assolutamente geniale nell’invenzione giornalistico-letteraria, sulla strage di piazza Fontana. Li trovate nella raccolta di tutti i pezzi di cronaca di Buzzati da poco ripubblicati sotto il titolo di “La nera” (Mondadori). Anche questo un fantastico viaggio in un mondo perduto, alla fine del quale viene spontaneo chiedersi dove sia più il giornalismo, sic! 

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