Dicevo dei poemetti in prosa. “Isola” è ricco di questi poemetti, e la cantabilità del verso di Gatto (elemento che mi affascina, lo ripeto) è assolutamente sorprendente rispetto al panorama poetico che lo circonda, quasi che il suono sia per lui più importante del senso stesso delle parole (cosa che poi ovviamente non è). Ma in “Isola”, con l’utilizzo di figure metriche molto differenti, fino al “rifugiarsi” nella prosa (-poetica), egli sembra fare un primo esperimento su tutte le possibilità di cui il suo “animo cantante” può disporre. …Con questo non voglio dire che Dante sapesse usare solo l’endecasillabo, quella è una scelta, ed è grazie a quella scelta che abbiamo l’endecasillabo. E poi erano altri tempi e altre situazioni, ma andiamo avanti.
Questa contemporanea
leggerezza ed intensità dello scrivere in prosa, troverà grande compiutezza
nell’attività giornalistica, ancor più - a mio parere e so che sembra assurdo -
che nell’attività di libero narratore. Il giornalismo - Gatto lo sa bene - pone
regole nette, com’è giusto che sia data la sua precisa finalità. Pur tuttavia,
egli fiderà, anche nell’affrontare questa professione, proprio sulla capacità
del suo animo di abbandonarsi in se stesso. Entusiasmanti, e non ho timore a
definirle così, sono le sue cronache dai Giri d’Italia e dai Tour de France,
per esempio. Anzi, va notato che nell’immediato secondo dopoguerra, in
un’Italia che si ricostruisce, il lavoro di scrittori come Gatto, o Vittorini,
o Buzzati (altro splendido scrittore-giornalista, vabbè…), messi al servizio di
una attività così improbabile per lo sguardo comune quale quella di cronista
sportivo, darà non solo uno straordinario impulso alla rivisitazione di tutto
il linguaggio del settore, ma servirà incredibilmente, in un’epoca in cui non
c’era la tv (cosa per troppi di noi, qui, difficile da immaginare), servirà a
“ricollegare”, a “riacciuffare” i pezzi di un Paese sbandato. Chi sa se in
quella Italia del dopoguerra, quando il Giro riprendeva la sua marcia festosa e
colorata, nel fondo di molti cuori abbiano agito positiva-mente più i racconti di
quegli straordinari cronisti che non mille discorsi di politici – che pure,
all’epoca, erano politici in gamba e seri, come non riusciamo più ad
immaginare.
La tv non c’era, le
immagini erano le poche dei cinegiornali, ci voleva gente capace, oltre ogni
misura, di farti vedere ciò che non si poteva vedere. A proposito: chi vinse
quel Giro del ’47? Non me lo ricordo ma possiamo trovarlo facilmente: su
internet! (1)
“Per anni – scrive
Gatto, ancora nel volume “Le ore piccole (note e noterelle)” che già citavamo
ieri, e proprio nella nota che dà il titolo alla raccolta… – Per anni sono
stato un curioso cronista. Arrivavo in ritardo sui fatti e cercavo di vedere se
era possibile averne almeno un qualche consiglio, un suggerimento di pietà, un
lume di intelligenza che servisse a ricordare con parole più intime e più durevoli i protagonisti della storia di tutti i
giorni”.
Con questo suo esplicito
disattendere (“Arrivavo in ritardo sui fatti”, il giornalismo vive sulla
velocità), Gatto dichiara di avere appreso le regole del mestiere, ma il suo
tentativo appare ancora una volta quello di percepire sensazioni differenti:
non la pura e semplice evidenza delle situazioni, ma dalle situazioni ottenere
quel “consiglio” per un resoconto che possa risultare più intimo e durevole.
Va certamente notata,
nell’opera di Gatto, l’incapacità, o la non voglia, di dedicarsi al racconto
lungo. Manca, infatti, nella sua produzione, un romanzo. C’è anche un’opera
teatrale, “Il duello”, praticamente mai rappresentata per come è scritta.
Questo non per mancanza di volontà, ma perché a leggerla si comprende che
l’autore aveva ben poca dimestichezza con la materia, una lontananza quasi
abissale con canoni e regole del comporre scenico. Mancano “dialettica” e
“sintesi”, cardini essenziali della scrittura teatrale. Insomma, il fatto che
sia Alfonso Gatto non vuol dire che sia perfetto in tutto: il teatro non fa per
lui, e quell’esperienza del “Duello”, resterà giustamente (dal punto di vista
dell’autore, cui va riconosciuta grande consapevolezza dei propri mezzi)
isolata. D’altronde, avere la capacità di “sdoppiarsi” o “triplicarsi” in animi
e sensazioni differenti, forse non può appartenere a chi è teso ad un intenso e
continuato ascolto di se stesso e delle sensazioni che tutto il suo essere gli
porge. Gatto sta sull’uomo, anzi su di un solo uomo, che prende come a simbolo
di tutta l’esistenza umana. In tal senso, veramente ricorda Whitmann.
La mancanza dell’opera
romanzo è colmata, secondo Luigi Giordano, dalle cronache del “processo
Fenaroli”, un grave caso di omicidio degli anni cinquanta che ancora oggi
lascia colare dubbi e sul quale torneremo. Quattro mesi di cronache di quel
processo risulteranno, alla fine, come un romanzo di appendice, come una delle
affascinanti storie delittuose di Dostojevski. Certamente, nemmeno Gatto,
immerso com’era nell’esercizio della professione, sapeva cosa andava
componendo, e resta solo evidente il suo appassionarsi a un caso umano, umano
perché misterioso, che investe i problemi profondi della coscienza ed il suo
insondabile rapporto con il senso, ancora una volta, della Verità.
Tutto questo credo
segnali anche un altro particolare importante. L’essere poeta di cui Gatto si
trova investito, pare come impedirgli un respiro più lungo… di una poesia.
Anche le sue composizioni in versi non riescono mai a superare la novantina di
versi circa, tranne sporadici casi. Procede per illuminazioni, pensieri
sintetici, folgorazioni, mini racconti, quadri, per “sentori di problema”, ed
in tal senso, poesia e giornalismo s’incontrano, lì dove, soprattutto nel
secondo, la brevità, unita alla chiarezza, è un dono.
I due campi, poesia e
giornalismo non possono che vicendevolmente influenzarsi. Quando arriviamo a
“La storia delle vittime”, volume che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il
’47 e tra il ’64 e il ’65, nel quale si fa evidente l’impegno civile e politico
di Gatto, l’attenzione del poeta pare spostarsi su di un altro piano
compositivo: le poesie si “allungano”, i versi sembrano ancor più declamati,
alti, sciolti molto spesso dalle forme canoniche, gli enjambement quasi
spariscono, il discorso si fa più diretto; come se Gatto sentisse un bisogno
concreto di “raccontare”, a volte dilungandosi su vere e proprie storie. E fa
di nuovo tornare alla mente Whitmann. Stavolta è nel canto del poeta che entra
d’impeto il cronista, un cronista dolente che non risparmia scene crudeli e
vive al suo lettore, non risparmia nomi e fatti.
Anche qui qualche
piccolo esempio:
DICEMBRE ‘43
Hanno ammazzato Rèsega, c’è il sole,
la nebbia di dicembre sul viale
Bronzetti. È uno, la pietà non vale,
si fermano al contento le parole.
Il lugubre apparato, il passo corto
dei gerarchi in corteo, ma al Cordusio
dalla Tessile sparano sul morto.
Il conto aperto non sarà mai chiuso.
A PIAZZALE LORETO
Quel giorno di Loreto uno squadrista
zoppo
di guardia ai morti urlava:
«indietro buona gente»,
ed era sfatto, stanco di chiedere col troppo
insistere un favore che «non costava niente».
(…)
IL RACCONTO
Kappler-faccia tagliata venne per testimone
a raccontarci il massacro.
Si disse fanatico e sacro
nella sua grande fatica
d’abbattere ostaggi, un portone
di buio aperto dai fari
la cava di Roma antica.
(…)
Poi una
che secondo me è molto ironica:
IN TRAM
Le signore che credono nell’arma
segreta si ritrovano ai conviti.
Stretta la donna ai seni intirizziti
nella pelliccia calda filtra l’occhio
sull’amico impacciato: «… ma l’allarme
- passi da me la notte? – mi dà tono…»
La gonna risicata sul ginocchio,
crede all’arma segreta del suo dono
e non si guarda intorno. «Poi, domani
al Lirico c’è il duce…» Le consente
distratto l’uomo, cerca le sue mani.
Insinua l’imprudenza. «Ma c’è gente…»
Ora soltanto guardano i nemici.
E infine
quella che di questo volume è la mia preferita:
25 APRILE
La chiusa angoscia delle notti, il pianto
delle mamme annerite sulla neve
accanto ai figli uccisi, l’ululato
nel vento, nelle tenebre, dei lupi
assediati con la propria strage,
la speranza che dentro ci svegliava
oltre l’orrore le parole udite
dalla bocca fermissima dei morti
«liberate l’Italia, Curiel vuole
essere avvolto nella sua bandiera»:
tutto quel giorno ruppe nella vita
con la piena del sangue, nell’azzurro
il rosso palpitò come una gola.
E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.
Ho spesso
pensato che certe “illuminazioni” degli artisti possono dirci di alcuni momenti
storici più di quanto anche i migliori studi riescano a fare. È come se ci rimandassero
proprio il… portato emotivo di quelle situazioni, di quei tempi. Non so… se
penso al Risorgimento, mi viene in mente la prima scena del secondo atto dell’
“Attila” di Giuseppe Verdi, in pochi minuti di musica e canto ci viene
restituito tutto il valore di una decisione, di una scelta di lotta, di
libertà, ed immagino che proprio quella doveva essere l’emozione che
“attraversava” l’Italia e gli italiani. Certo non a caso, per farci precipitare
nel clima storico-emotivo, Visconti apre il suo “Senso” con l’ultima scena del
terzo atto de “Il trovatore” (ancora Verdi), con tutta l’esplosione patriottica
che poi ne consegue, e dalla quale, credo – almeno a me questo accade – ci
sentiamo violentemente emozionati; non vi nascondo che alla fine della scena mi
ritrovo in lacrime.
Se penso
al 25 aprile, al giorno della liberazione dalla dittatura fascista, se penso
alle emozioni di quel giorno, immagino che debbano essere state proprio come
quelle che Gatto mi rimanda con questa poesia, prima chiusa, cupa, oscura, nera
(non a caso, sic!), poi aperta in una esplosione di gioia e di colori, due
colori: azzurro e rosso, rosso del sangue, azzurro del cielo, un dentro e fuori
che si toccano, si mescolano senza più distinzione, fino alla considerazione,
alla comprensione, alla rivelazione che si è vivi proprio perché si è liberi,
ed è una rivelazione che non arriva dall’esterno, ma da una emozione profonda,
che sgorga dall’interno, dall’intimo, dalla pienezza del nostro animo,
dall’accorgersi, all’improvviso, che abbiamo un cuore, un cuore che per oltre
vent’anni aveva come cessato di battere.
Voglio
rileggerveli questi ultimi quattro versi:
E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.
Che dire
di quest’ultimo verso “il cuore/ d’improvviso
ci apparve in mezzo al petto”? Io non trovo aggettivi. Vi dico solo che
credo che questa Italia repubblicana dovrebbe avere la decenza e il coraggio di
scolpire gli ultimi quattro versi su delle lapidi da inchiavardare sui muri di
tutte le sue piazze, veramente, ma veramente per non dimenticare mai. Vi dico
solo: imparateli a memoria.
Credo si
possano fare due osservazioni sul modo in cui Gatto tratta la materia
giornalistica. Innanzi tutto, egli ha fede nei suoi mezzi e non teme di
utilizzarli sempre e comunque; leggendo le sue cronache si percepisce
facilmente, per esempio, come lasci il discorso sempre libero di fluire,
confidando in quel suo innato senso della musicalità e nel gusto per le
sonorità, anche se questo può andare ad infrangere quelle poche regole di base
note anche al più scalcagnato dei cronisti, tipo “evita le ripetizioni”.
La
seconda osservazione è certo più sempliciotta e di stampo - consentite -
“personale”: c’è una simpatica furbizia nell’approccio professionale di Gatto.
È ipotizzabile – forse è un gioco, ma forse non lontano dal vero – che il poeta
si sia detto: io non sono un giornalista, e non avendo nemmeno svolto la
normale “gavetta” non ho imparato il mestiere di giornalista; dunque, come
posso affrontare l’opportunità lavorativa che mi viene offerta (e si sa quanto
Gatto avesse bisogno di lavorare e guadagnare)? Semplice, usando le frecce che
naturalmente sono al mio arco e adattandole alle specifiche necessità.
Paradossalmente si potrebbe dire che anche in questo caso, Gatto non fa
null’altro che usare se stesso per ciò che è e per ciò che quel se stesso è
abituato a fare (idem quando si ritroverà a scrivere un testo di canzone per
una sigla televisiva). Sembra nulla, ma anche questo fa parte dei rischi, delle
sfide che il poeta accetta. Gioca le sue carte con profonda onestà
intellettuale, e non sa minimamente se vincerà la partita. Sappiamo, oggi, che
la vinse.
“Trovai –
continua ne “Le ore piccole” –, come si dice, molti lettori affezionati,
ricordavano i miei «corsivi», mi scrivevano confidandomi che quel modo di
giungere in ritardo sulle cronaca era un modo di esserle veramente fedele, un
indugiare sull’ammonimento che ogni fatto lascia intorno a sé come un silenzio
che tien dietro al rumore. (…) Voglio dirvi che sono un uomo di cuore, ecco
tutto, e come tutti gli uomini di cuore attento a lasciarmi capire anche per
quello che non dico, sì da ospitarvi nel mio gioco e da fare insieme gli stessi
pensieri.
Ogni
giorno un fatto tra tanti fatti: l’ammonitore sarà pago di lasciare scritte le
sue parole sull’acqua del fiume che corre sotto i nostri occhi. Vuol solo
trattenerle dalla ràpida, non farle precipitare: perché, pur andando verso il
mare della dimenticanza e dell’oblio, esse restino visibili nel loro viaggio,
cancellandosi a poco a poco. Così, tra il passato remoto che è storia e il
presente che non è mai lo stesso, vivrà quel passato prossimo che solo ci
avverte del tempo e ci avvicina a far nostri i lutti, i dolori, le gioie e le
speranze degli uomini che vivono tra noi e insieme a noi. (…)
La
cronaca ha fretta, brucia i giorni, sembra commuoversi per quanto è
indifferente e cinica. Ma i poeti sono in allarme per salvarla dalle ceneri,
per scoprire in ogni evento una domanda che sia conoscenza, all’origine di un
nuovo pensiero, di un nuovo dubbio. Il gioco non è mai fatto ed è sempre ancora
da fare. Il mistero di quel che siamo è l’allarme che non ci dà mai pace.
L’intelligenza è un sospetto, un’indagine sulla ragione”.
Torna
alla mente Carmelo Bene, in un’intervista televisiva, che contro la
superficialità del nostro più diffuso giornalismo così tuonava: “Non si può informare sui fatti, ma solo informare i fatti”. Gatto, da poeta,
avrebbe certamente condiviso, e quel “durevole” ad inizio di Nota che vi sottolineavo, lascia trasparire la voglia di cercare, e trovare,
forme in cui far consistere i fatti, perché questi non siano più solo merce per
il blando consumo quotidiano.
Accennavo
alla definizione di Ràmat: ipostasi della poesia.
Torniamo
al vocabolario: Ipostasi – (tra le altre definizioni, si legge) nella teologia cristiana, persona della
Trinità come sostanza assoluta e per sé sussistente | Unione della natura umana e divina. SIN. Incarnazione. Insomma, quello che generalmente indichiamo come “il
Verbo che si fa carne”, il quale può consentirsi di affermare: “In Verità, in
Verità vi dico…”
È
inevitabile che chi si confronta con il giornalismo, volente o nolente,
consapevole o no, si confronta con il problema della Verità. Non c’è scampo, e
a maggior ragione non c’è scampo per chi, come Gatto, coscientemente ha accolto
in sé, nel proprio corpo, il senso dell’essere poeta, e con esso viva e conviva
in ogni istante della vita.
Così,
oltre l’esercizio quotidiano della poesia, al di là del districarsi tra le
proprie sensazioni e le proprie parole, il poeta corre verso tale problema, non
potendo sfuggire alla necessità dell’indagine. Accade nel luogo umano deputato
per eccellenza alla ricerca, ed all’accertamento della Verità: il Tribunale.
È il 1961
quando, assieme a Giampaolo Cresci, si fa inviare dal “Giornale del mattino” di
Firenze a seguire uno dei più intricati processi per omicidio del nostro
secondo dopoguerra, il cosiddetto “processo Fenaroli”. L’assassinata è una
donna, Maria Martirano. Sul banco degli imputati tre uomini: il marito e
mandante Giovanni Fenaroli, il sicario Raoul Ghiani, l’intermediario tra i due
Gaetano Inzolia.
Come è
consuetudine nel nostro Paese (consuetudine ancora non dismessa), l’Italia si
divide tra colpevolisti e innocentisti, al modo in cui si divideva tra Coppi e
Bartali, tra Callas e Tebaldi, Mina e Milva, difensivismo e offensivismo nel
calcio, cattolici e comunisti, ed oggi tra destra e sinistra. Nel mezzo, pare
sempre non possa esservi nulla, non la forza e l’intelligenza tattica di un
Magni, non il lirismo camaleontico di una Leyla Gencer, o l’oculata gestione
complessiva di un Bearzot. Niente.
Neanche a
dirlo, Gatto sta nel mezzo. Mentre l’opinione pubblica ha emesso sentenza prima
ancora del dibattimento, Gatto resta fermo, come nella “difesa panica” de “Il
giogo”, ad ascoltare, a descrivere volti, atteggiamenti, le rughe di un viso,
la dolenza di una madre, la rabbia dei familiari della vittima, l’incrollabilità
delle argillose tesi degli accusatori, lo spaesamento degli imputati; non grida
(proprio come dice ne “Il giogo”, dove la voce, gli ridarebbe il senso del suo
peso), non grida come i quotidiani, nel bene e nel male, sono sempre abituati a
fare, ma pone interrogativi sulle prove, lascia sul tavolo domande cui non c’è
risposta e si suscita dubbi, nel
tentativo di mostrare, dalle colonne del suo non certo divulgatissimo
quotidiano, l’evidenza di una verità: quale che essa sia, per il consesso degli
uomini la Verità è inafferrabile, e “Un fatto – scrive – pur delittuoso, resta
umano, e affidato, come tutti i fatti umani, al mistero e al segreto degli
uomini”.
“Il
mistero di via Monaci – romanzo quotidiano del processo Fenaroli”, lo dobbiamo
alla tenacia e alla passione di Luigi Giordano che nel 1996 ha pubblicato
(Avagliano editore, se lo trovate ancora…) quello che proprio Gatto avrebbe
voluto fosse il suo inutile romanzo,
come lo chiamava. Riprese in mano gli articoli, li ordinò, fece correzioni, poi
lo scritto, in questa forma, non arrivò mai alle stampe.
Perché
inutile? Perché alla fine di tutto, a differenza dei romanzi gialli (che Gatto
pare non amasse) non sapremo se gli assassini erano assassini. Ma certamente
romanzo, perché come scrive ottimamente Giordano nella prefazione: “Un romanzo,
esattamente come e quanto un processo, ha, in un punto, il valore
dell’esistenza: nella sua vocazione a farsi specchio deformante della vita, dei
volti, delle immagini che lo accarezzano. Nella sua capacità di allungare le
ombre di ognuno per fonderle nelle ombre di ogni altro irreparabilmente. In
quelle deformazioni sta il suo grado di verità. Un romanzo può servire, nel
groviglio di anime che fonde e che deforma, a disvelare i fili che imbastiscono
le invisibili storie degli uomini, il sospetto delle loro colpe, l’intreccio
acuto delle loro emozioni, la irriducibilità della distanza tra vittime e
carnefici e, assieme, il loro incubo comune, la coincidenza tragica tra l’agire
e il narrare. Scrive Gatto: «La sera del 7 settembre 1958, la notte del 10,
certamente non pensammo che “qualcuno” lavorava per noi, a chiamarci nella sua
storia: noi, come i testimoni, come i giudici, “noi del delitto”. È avvenuto,
diciamo, come ai medici càpita d’incontrare la morte, senza che abbiano pietà
di se stessi e dell’uomo. Non possono averla e non se ne curano. Ma per noi del
delitto non è così. Lo creda, signor Presidente, siamo innocenti, ma qualche
cosa sempre accade per colpa dei nostri pensieri».”
È sublime
quel “noi del delitto”, straziante! Gatto ci tira tutti dentro, sempre, dal
momento in cui il consesso degli uomini mandò assolto Oreste che trucidò la
madre, fino a chissà quando.
Tutti
certamente ricordiamo l’episodio del Vangelo in cui l’adultera, che secondo la
legge di Mosè avrebbe dovuto essere lapidata, viene portata dinnanzi a Gesù,
ricordiamo il famoso “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Sappiamo
anche che prima di pronunciare la fatidica frase, Gesù si chinò per terra e
cominciò a scrivere con un dito sulla sabbia. Molti si sono chiesti cosa Gesù
scrivesse. Ci ho pensato, talvolta, anch’io, e la risoluzione credo me l’abbia
data Sciascia, Leonardo Sciascia.
Non credo
sia importante cosa abbia scritto, ma il gesto stesso di scrivere, e
simbolicamente di scrivere sulla sabbia. Colui che può affermare “In Verità, in
Verità vi dico…”, ci sta dicendo, davanti ad un’imputata, che gli uomini hanno
bisogno di scrivere la loro legge e non ostante tutto la loro legge sarà sempre
imperfetta, dunque come possono pensare di ergersi a giudici assoluti ed
infallibili. Nel giudizio c’è già errore. Molto spesso dimentichiamo che quella
su cui un tribunale giudica non è la Verità, ma la “verità processuale”, che
emerge dal dibattimento. La differenza è sottile ma sostanziale, poiché,
comunque sia, anche quest’ultima non sarà mai la Verità. Da qualche parte
Sciascia (non casualmente figlio di Pirandello) scrive che “se la legge esiste
è perché siamo tutti colpevoli”. “Noi del delitto” è illuminazione e frase
sorella, carnale e umana, dell’affermazione dello scrittore siciliano.(2)
Bene, credo, osservando
le vostre facce, che sarete d’accordo con me se anche per oggi vi dico: può
bastare!
È stata dura, ma ce
l’abbiamo fatta. Almeno spero.
Grazie.»
(1) Solo per amor di
precisione: il Giro, che aveva chiuso la sua ultima edizione, vinta dall’allora
gregario Fausto Coppi, il 9 giugno 1940 (il giorno seguente l’Italia entrerà in
guerra), riprenderà nel 1946. La prima volta di Alfonso Gatto, da inviato de “L’Unità”, sarà nell’edizione
del 1947. Chi vinse nel ’46, nel ’47, e anche nel ’48, insisto nel non dirvelo,
ma vi assicuro che è facile immaginarlo.
(2) Consiglio, su questi
temi, anche la lettura di due splendidi articoli di Dino Buzzati, il primo
proprio sul processo Fenaroli, l’altro, assolutamente geniale nell’invenzione
giornalistico-letteraria, sulla strage di piazza Fontana. Li trovate nella
raccolta di tutti i pezzi di cronaca di Buzzati da poco ripubblicati sotto il
titolo di “La nera” (Mondadori). Anche questo un fantastico viaggio in un mondo
perduto, alla fine del quale viene spontaneo chiedersi dove sia più il
giornalismo, sic!
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