Qui la prima puntata
La mia intenzione era di pubblicare le varie "puntate" con cadenza settimanale, come accadeva con i vecchi e bellissimi sceneggiati di una volta, di una Rai che non esiste più. Poi, ho dovuto rilevare, grazie alle piacevoli sollecitazioni di alcuni lettori, che lo scritto interessa. E allora ecco la seconda parte della "prima giornata". Grazie a tutti voi.
PS - in rosso trovate, all'interno del testo, segnalate le note a pié pagina; non ho scoperto altro modo per indicarle, se c'è qualcuno che ha la bontà di spiegarmi come le impostazioni del blog consentono un collegamento, gliene sarò molto grato.
I giornata (seconda
parte)
Cominciamo a segnare un
primo punto: dai pochi brani che fino adesso vi ho letto, traspaiono, tra le
altre, due idee, quella della consapevolezza-affermazione del proprio ruolo
(piccolo o grande lasciamo per ora perdere), e quella, ancor più affascinante,
del continuo passaggio di testimone. Entrambe mi paiono, per quanto ne so,
inusuali nel panorama poetico italiano, e non solo.
Forse per contrasto mi
vengono in mente due poesie. La prima di Corazzini:
Perché tu mi dici:
poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un
piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che lacrime
da offrire al silenzio.
Perché tu mi dici:
poeta?
(…)
L’altra di Palazzeschi,
molto divertente, “Chi sono?”
Sono forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una
parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Sono dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima
mia:
“malinconia”.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera
dell’anima mia:
“nostalgia”.
Sono dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore,
per farlo vedere alla
gente.
Chi sono?
Il saltimbanco
dell’anima mia.
Corazzini e Palazzeschi
sono vissuti a cavallo dei due secoli, XIX e XX. Gatto, ricordiamolo, nasce nel
1909 (come il Giro D’Italia, vabbè). Quelle dichiarazioni di “non identità” non
dovevano essergli sconosciute (sappiamo, anzi, dai suoi stessi scritti, di una
conoscenza diretta, seppur non profonda, con Palazzeschi, maturata negli anni
fiorentini). Non che voglia particolarmente soffermarmi sui due poeti citati e
generalmente considerati “minori” (chissà perché, chissà da chi, e chissà chi è
che compone questa classifiche? Mah!), è solo un esempio.
La cosa che mi pare,
invece, interessante è che, per quanto ne so (lo ripeto), non ci sono in giro
poeti che dichiarano, nella poesia stessa, il loro essere poeta. Forse l’unico cui si può fare riferimento è Walt
Whitman, con la sottilissima differenza che l’americano più che cantare il se
stesso poeta, canta il se stesso uomo (“camerata, questo non è un libro / chi
tocca questo tocca un uomo). (1: nota a piè pagina)
Essere non è fare,
questo mi pare evidente: fare l’attore non è esserlo. Si può non fare l’attore
eppure esserlo, farlo eppure non esserlo (sic!). La stessa cosa sicuramente
accade per i poeti, i musicisti, i pittori, ecc. Ma la poesia, in sé, parla da
sola, e da sola determina l’essere del suo autore. Certamente per questo,
nessuno ha mai sentito la necessità di fare una tale dichiarazione di “essenza”
(lasciatemi passare la brutta definizione). Per motivi opposti e facilmente
comprensibili, può nascere invece la “negazione”. In essa c’è la volontà di
aprire nuovi spiragli, di offrire all’arte del poetare prospettive diverse da quelle
fino ad allora frequentate: nego schemi, concetti, stilemi, per tentare di
costruire nuove vie, e per scrivere una poesia, dico di non essere un poeta.
Quanto, dunque, questa
dichiarazione di identità, temeraria e pericolosa, sia necessaria, e quanto sia
essa possibile, è questione che non riguarda il lettore o lo studioso, ma solo
colui che “esercita” quell’arte, e che lo accompagna sempre, silenziosamente e
problematicamente.
La prima domanda che mi
faccio, quindi, è: perché Alfonso Gatto sente la necessità di dichiararsi
poeta?
Secondo punto. Ogni
poeta sa che dovrà confrontarsi, o verrà posto in confronto, con tutti quelli
che lo hanno preceduto. E nel momento in cui scrive sa che inesorabilmente
nasce un rapporto con il futuro. E questo rapporto, questo confronto, sebbene i
poeti (tutti gli artisti) spesso ci parlino direttamente di quei loro
predecessori che maggiormente hanno amato o detestato, passa più attraverso le
forme utilizzate che non attraverso i contenuti. È questione, direi, quasi naturale.
PIOVE
Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.
Piove
da un cielo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di
sciopero
generale.
Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c’è terremoto
né guerra.
Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di
seppia
e sulla greppia
nazionale.
Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.
Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l’assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l’ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull’uomo indiato, sul
cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui work in
regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.
Piove ma dove appari
non è acqua né
atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
L’esempio è un po’
lungo, me ne rendo conto, ma grazioso, e mi pare che, con tutta l’ironia che vi
si ritrova, renda chiaramente l’idea, almeno per una parte del mio discorso. È
Montale. Ditemi se non vi viene subito in mente “La pioggia nel pineto” di
D’Annunzio. E cos’è questa se non una critica a un certo tipo di poesia, ai
suoi estimatori, e al valore forse anche politico che se ne può trarre?
E saltellando qua e là,
mi ricordo di Foscolo che si rivolge, addirittura invoca Alfieri; Dante fa
sovente riferimento alla poesia del suo tempo, per non dire del rapporto che ha
con gli antichi, a cominciare dal venerato Virgilio; o Gozzano, che stabilisce
tante delle critiche – ironiche e formali – su Pascoli, ma un’espressione così
netta del proprio ruolo inserito nel fluire del tempo, questa idea del
“passaggio di testimone”, mi pare nuova fino a sorprendermi. Dunque, anche
stavolta: perché?
È a questi perché che vorrei cercare di dare una
risposta.
Andiamo all’inizio di
tutto.
La prima raccolta di
poesie di Alfonso Gatto s’intitola “Isola” (1932). Questo è il titolo anche
dell’ultimo componimento della raccolta:
Or nella solitaria
cadenza d’un approdo,
svanita la memoria
al suo tepore effusa,
esala bianca l’isola
la brezza del mio cielo.
Che quest’isola sia
proprio la poesia ce lo indica, fin dall’apertura, lo stesso Gatto, con cinque
lunghi versi segnati in corsivo, quasi un esergo, una piccola chiave di lettura
per tutta l’opera, il cui titolo è “Poesia”:
In ogni gioia breve e netta scorgo il mio
pericolo.
Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo
regge.
Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui
cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento.
Universo che mi spazia e m’isola, poesia.
Silvio Ramat – insieme
con Luigi Giordano e Francesco D’Episcopo forse tra gli studiosi più attenti
dell’opera di Gatto – sostiene, a ragion veduta, che il componimento è in
prosa. La ragione, mi sia concessa l’ironia, è proprio “veduta”, poiché questo
la pagina scritta mostra, ma io mi permetto di dissentire. La presenza, da
Ràmat stesso rilevata, di tre endecasillabi all’interno del brano, quasi
nascosti (In ogni gioia breve e netta
scorgo; a un divieto in cui cogliere
il sospetto; e la lusinga del mio
movimento), mostra subito quella cantabilità, quella musicalità che sarà
sempre peculiare nella scrittura di Gatto. Sappiamo inoltre che egli esplorerà,
quasi “senza pudori”, tutte le possibilità della versificazione, fino al
poemetto in prosa. In questo brano resta ovviamente difficile fissare dei
parametri metrici (non ce ne sono, sic!). Ma mi chiedo: cosa spinge Gatto ad
intitolare “Poesia” uno scritto in prosa? Soluzione facile sarebbe lasciar
scegliere al lettore. Voglio invece affermare a mio rischio e pericolo che si
tratta di poesia.
Ma scrutiamo un poco in
questi versi/frasi introduttivi. “Isola”, innanzi tutto, è utilizzato, in
questa prima scheggia poetica, non come sostantivo ma come verbo, “isolare”: un
verbo transitivo, dunque con un… doppio binario d’azione, che cammina in due
direzioni. Tutto il pezzo è pervaso da un insistente gioco di dualismi ed
ambivalenze, e questo è subito un primo, timido segnale di come il poeta
giocherà con le parole, i loro significati, i sensi, le sonorità, i colori.
Le contraddizioni poi –
potremmo dire in senso traslato gli ossimori – abbondano. “In ogni gioia breve e netta scorgo
il mio pericolo”: l’idea di “gioia” si
contrappone a quella di “pericolo”, con un “ogni” (cioè “ciascuno”, cioè
“singolo”, “particolare”) che è indicazione di un “tutto”; “Circolo
chiuso ad ogni essere è l’amore che lo
regge”: l’immagine classica, consueta di “amore” (certamente il nostro
primo pensiero leggendo) viene ad annodarsi con quella di “circolo chiuso”, di
isolamento (la parola è venuta fuori da sola, chiedo scusa!), ma quell’amore,
isolato ed isolante, è ciò che “regge”, che sostiene “ogni” (ancora!) essere,
quasi fosse una solitudine necessaria alla sopravvivenza; “Tendo a questo dubbio intero”: la volontà
di penetrare questo microcosmo inafferrabile è assoluta, totalizzante, ma
quell’accostamento di “dubbio” e “intero” emette una fastidiosa vibrazione:
sulla base di quale concetto, mi chiedo infatti, un “intero” si può pensare che
contenga delle… crepe?
Ma continuiamo: il
valore di “divieto”, quindi di un arresto, di una fermata, di una negazione
venuta dall’esterno (ma sarà dall’esterno?), entra in netta relazione con
“movimento” (2) tra “divieto” e “movimento”, la tentazione e la circospezione segnalate dai
termini “sospetto” e “lusinga”, dunque l’essere compiaciuti, allettati, che si
va a mescolare con la diffidenza, col timore di un pericolo: lasciarsi andare o
restare (dilemma che subito tornerà in un’altra poesia di questo primo volume,
“Il giogo”)?
L’ultimo verso/frase di
“Poesia” ha il valore di una dichiarazione assoluta, definitiva: “Universo che mi spazia e m’isola, poesia”.
In esso corrono due sostantivi, “universo” e “poesia”, e due verbi, “spazia” e
“isola”, con quei mi, riflessivi, a
circoscrivere ed additare, contemporaneamente, i margini imperscrutabili di un
“infinito” tutto interiore, di un microcosmo così insospettata-mente vasto da
sondare che si può ipotizzare di dedicargli tutta una vita, lasciando alla
poesia il compito di guidarci.
“Universo che mi spazia e m’isola, poesia” è una frase/verso di
straordinaria chiarezza, e anche di splendida bellezza, idealmente retto ancor
più che dai sostantivi e dai verbi, da quella ripetizione di pronome personale.
In ogni gioia breve e netta scorgo il mio
pericolo.
Se è vero, come qualcuno
afferma, ed io credo che lo sia, che un testo è già tutto nella sua prima
parola, il nostro curioso distico ci pone di fronte a due precisi lemmi: il
titolo “Poesia”, ma soprattutto l’ “In” di partenza.
Il titolo ha un senso di
semplicità (che mai vuol dire facilità), quasi il poeta ci dica: è
semplicemente la poesia il mio argomento, è la poesia la mia dolorosa-gioiosa
tentazione ed il mio gioioso-doloroso abbandono; o volendoci spingere a
ribaltare il senso di tutto: non so cosa sia (e come sia) ma è poesia.
Ma la parola chiave è In.
‘In’: preposizione propria semplice (indica il
vocabolario) che stabilisce diverse
relazioni dando luogo a molti complementi: 1 – complemento di stato in
luogo (anche figurato); ed ancora: Dentro.
È sempre divertente, nello sfogliare un vocabolario, notare come, non potendo
prescindere dalle parole per spiegare le parole stesse, nasca un lungo ed
inestricabile labirinto fatto di rimandi, intuizioni, allusioni, illusioni,
imprecise precisazioni… Per spiegare “in” si dice “stato in luogo”, non potendo che riutilizzare la stessa preposizione.
Tornando a Gatto,
l’incipit poetico pare indicare tutta la volontà del poeta di “essere dentro” o
“essere per forza dentro”, il suo
scoprirsi costretto: si sceglie la poesia, questo dirompente, assordante e
silenzioso canto dell’anima, o da essa si è scelti? ”In” è volontà o
coercizione? Comunque sia, il poeta (Gatto soltanto?) avverte subito che la
gioia, “breve e netta”, sarà il suo “pericolo”, la sua gioiosa condanna.
“I poeti hanno un
pubblico clandestino di duemila anime o poco più. Il resto è azzardo. Sarebbe
augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il
proprio corpo, le mani, gli occhi. Il giornalismo e l’insegnamento sono
soltanto ritirate possibili nel sotterfugio. Forse un poeta dovrebbe essere
soltanto un «clochard»; ma occorre almeno una società che offra nelle notti
d’inverno la graticola dei metrò”.
Questa è una piccola
nota di Gatto, si trova in “Può scoppiare la guerra”, volume “Le ore piccole
(note e noterelle)”, edizione Il Catalogo, 1975. A quarant’anni dal suo primo
libro, a fama già ben acquisita, pare restare vivo il desiderio di totale
abbandono alla condizione “naturale” di poeta, portato dalla vita come un
clochard.
Non è un ideale
romantico, o fintamente letterario quello cui Gatto si richiama, il luogo
comune del poeta povero e maledetto. Gli accenni al giornalismo e
all’insegnamento rimandano alla storia personale, e potrebbero essere
sostituiti con le situazioni private di qualsiasi altro poeta. Ma l’annotazione
di Gatto si fa singola ed universale al contempo, e pare rivolta, in questo
caso, più alla società che a se stesso: ama, accudisce, attende realmente la
società ai suoi poeti? Il 1975 è l’anno della morte di Pasolini, di Gatto
amico: chissà se mentre scriveva queste righe la tragedia era già compiuta.
Nella scelta di quel
termine francese, c’è forse il senso della povera foglia-soldato tenuto tra la
vita e la morte, di Ungaretti; la sospensione nell’attesa e nel desiderio della
folgorazione del nulla montaliano; e perché no: l’aquilone lieve del Pascoli, o
le altane sospese tra cielo e terra dell’amico Sereni, o la “povera foglia
frale” del suo (suo!) amato Leopardi in “Imitazioni”, piccola poesia scritta
sulla falsariga del componimento francese La
fueille di Antoine-Vincent Arnault. Ma rispetto ai suoi illustrissimi
colleghi, Gatto fa una scelta ben più netta, una scelta che è anche una
dichiarazione, non usa metafore e si riferisce, incontrovertibilmente, al
corpo, al corpo dell’uomo, al corpo del poeta.
Per restare a Leopardi,
la lune e le stelle già “cose”, che ritornano in molti dei Canti, sono percepiti come osservatori distaccati, e per un certo
verso adorati, che nella loro lontananza, nel loro non essere più “dubbio” ma
essenza assoluta ed imperscrutabile, vengono a contrapporsi alla fisicità,
dolente e grave, che Leopardi avverte del corpo (e che nulla ha a che fare con
la sua malattia), corpo di cui avverte tutto il peso e la mortalità,
esplodendo, per esempio, ne “La sera del dì di festa” nell’urlo dei versi “e
qui per terra / mi getto, e grido, e fremo”.
Gatto, al contrario (e
sarà una costante della sua vita letteraria, in un certo qual modo superando le
posizioni del proprio idolo poetico), sente il corpo come rifugio o viatico per
nuove conoscenze, strada privilegiata per nuovi mondi da esplorare: ne coglie
le sensazioni, ne riporta fremiti e colori, lo vive intensamente come luogo
della poesia, dell’amore, della conoscenza, cassa di risonanza del dolore e
della gioia, dello stupore, della malinconia…
Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro
strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi: “sarebbe augurabile”, ma a rileggerne la
poesia, sono già quarant’anni che il suo corpo si offre, indifeso, quale
strumento (musicale, verrebbe da aggiungere), si lascia attraversare,
testimonia, è un vero e proprio luogo della scrittura, che, inoltre, per
proiezione naturale (non banalmente sessuale), lo indirizzerà nella
esplorazione di un altro misterioso luogo di divieto in cui cogliere il movimento:
il corpo della donna.
Bene. Su questa
annotazione… credo che per oggi, possa bastare.
Grazie.»
(1) Caro
lettore, scopro, oggi, grazie all’amico attore Beppe Bisogno, che lo ha
inserito in un suo spettacolo teatrale, “Il poeta e lo sciamano”, uno scritto
di Rimbaud, Arthur Rimbaud, quello straordinario poeta francese dell’ottocento
il cui nome solo i suoi compatrioti riescono a pronunciare bene. Nello
specifico, si tratta di una lettera indirizzata al prof. George Izambard il 13
maggio 1871, dove scrive: “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente:
lei non capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare
all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi. Le sofferenza sono
enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta.
Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso, si dovrebbe dire: mi si pensa.
Scusi il gioco di parole. IO è un altro”. Una affermazione forte e bellissima,
che in Rimbaud non meraviglia. Noto soltanto che, rispetto al discorso condotto
su Gatto, essa è in una lettera privata.
Ed
ancora, ma siamo in tempi successivi, un’altra notazione, di Jack Kerouac:
“Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un
lungo
blues in una jam session d’una domenica pomeriggio”. Dicendo “Voglio essere considerato”, in fondo
anche Kerouac si afferma quale poeta.
Da
ultimo – sennò già questa prima nota diventa interminabile, e le note
“rompono!” (1a) - una poesia di Guido
De Marchi, “Non voglio essere poeta”, in un volume omonimo del 2004: “Non voglio essere/ poeta/ a tessere trine/ e
merletti di parole/ ma voce// voce
dell’individuo che vive/ in me/ nella scomposta scorza/ della mia pelle// voce
delle cose/ che attraversano/ la mia vita/ tracciando solchi profondi// voce
delle percezioni/ a volte appena sfiorate/ che danno colore e suono/ ai miei
pensieri// sono l’atomo/ di una molecola/
che senza di me/ non sarebbe/ o sarebbe altra cosa.”. Qui mi pare si
torni un po’ ai discorsi di Corazzini e Palazzeschi, ma mica c’è nulla di male,
e la poesia è deliziosa.
Quello che in realtà mi dà più piacere è scoprire
sempre altre cose, cose che sempre possano mettere in dubbio le mie
affermazioni ed aiutarmi a costruirne di nuove. Sennò mi annoio!
(1a) Tranne forse quelle spesso esilaranti di
Foster Wallace.
(2) Ancora
per il lettore. Viene in mente, a leggere questi due termini, quasi abbiano un
triste valore di premonizione, un doloroso passaggio della vita di Gatto:
nell’estate del 1936, a Milano, verrà arrestato e rinchiuso nel carcere di San
Vittore dalla polizia politica del regime fascista con l’accusa di cospirazione
comunista. Da quella esperienza nasceranno le poesie di “La storia delle
vittime”, diviso in due tronconi: una prima parte di componimenti redatti tra
il 1943 ed il ’47, una seconda parte tra il ‘64 e il ’65, poi riordinati
dall’autore nei tre corpi che compongono il volume: “Amore della vita, 1944”,
“Il capo sulla neve, 1943 – 1947”, “Giornale di due inverni 1943 – ’44, 1964 –
‘65”. Quel ‘divieto’, quella costrizione imposta, in tal caso dall’esterno,
quel fisico essere rinchiuso, diverrà motivo di scoperta di un ‘movimento’
interno di straordinaria intensità affettiva e civile.
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