venerdì 2 ottobre 2015

2 - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesie e in ricordo di un poeta)



La mia intenzione era di pubblicare le varie "puntate" con cadenza settimanale, come accadeva con i vecchi e bellissimi sceneggiati di una volta, di una Rai che non esiste più. Poi, ho dovuto rilevare, grazie alle piacevoli sollecitazioni di alcuni lettori, che lo scritto interessa. E allora ecco la seconda parte della "prima giornata". Grazie a tutti voi. 
PS - in rosso trovate, all'interno del testo, segnalate le note a pié pagina; non ho scoperto  altro modo per indicarle, se c'è qualcuno che ha la bontà di spiegarmi come le impostazioni del blog consentono un collegamento, gliene sarò molto grato. 










I giornata (seconda parte)
  
Cominciamo a segnare un primo punto: dai pochi brani che fino adesso vi ho letto, traspaiono, tra le altre, due idee, quella della consapevolezza-affermazione del proprio ruolo (piccolo o grande lasciamo per ora perdere), e quella, ancor più affascinante, del continuo passaggio di testimone. Entrambe mi paiono, per quanto ne so, inusuali nel panorama poetico italiano, e non solo.
Forse per contrasto mi vengono in mente due poesie. La prima di Corazzini:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che lacrime da offrire al silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
(…)

L’altra di Palazzeschi, molto divertente, “Chi sono?”

Sono forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Sono dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Sono dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.

Corazzini e Palazzeschi sono vissuti a cavallo dei due secoli, XIX e XX. Gatto, ricordiamolo, nasce nel 1909 (come il Giro D’Italia, vabbè). Quelle dichiarazioni di “non identità” non dovevano essergli sconosciute (sappiamo, anzi, dai suoi stessi scritti, di una conoscenza diretta, seppur non profonda, con Palazzeschi, maturata negli anni fiorentini). Non che voglia particolarmente soffermarmi sui due poeti citati e generalmente considerati “minori” (chissà perché, chissà da chi, e chissà chi è che compone questa classifiche? Mah!), è solo un esempio.
La cosa che mi pare, invece, interessante è che, per quanto ne so (lo ripeto), non ci sono in giro poeti che dichiarano, nella poesia stessa, il loro essere poeta. Forse l’unico cui si può fare riferimento è Walt Whitman, con la sottilissima differenza che l’americano più che cantare il se stesso poeta, canta il se stesso uomo (“camerata, questo non è un libro / chi tocca questo tocca un uomo). (1: nota a piè pagina)
Essere non è fare, questo mi pare evidente: fare l’attore non è esserlo. Si può non fare l’attore eppure esserlo, farlo eppure non esserlo (sic!). La stessa cosa sicuramente accade per i poeti, i musicisti, i pittori, ecc. Ma la poesia, in sé, parla da sola, e da sola determina l’essere del suo autore. Certamente per questo, nessuno ha mai sentito la necessità di fare una tale dichiarazione di “essenza” (lasciatemi passare la brutta definizione). Per motivi opposti e facilmente comprensibili, può nascere invece la “negazione”. In essa c’è la volontà di aprire nuovi spiragli, di offrire all’arte del poetare prospettive diverse da quelle fino ad allora frequentate: nego schemi, concetti, stilemi, per tentare di costruire nuove vie, e per scrivere una poesia, dico di non essere un poeta.
Quanto, dunque, questa dichiarazione di identità, temeraria e pericolosa, sia necessaria, e quanto sia essa possibile, è questione che non riguarda il lettore o lo studioso, ma solo colui che “esercita” quell’arte, e che lo accompagna sempre, silenziosamente e problematicamente.
La prima domanda che mi faccio, quindi, è: perché Alfonso Gatto sente la necessità di dichiararsi poeta?
Secondo punto. Ogni poeta sa che dovrà confrontarsi, o verrà posto in confronto, con tutti quelli che lo hanno preceduto. E nel momento in cui scrive sa che inesorabilmente nasce un rapporto con il futuro. E questo rapporto, questo confronto, sebbene i poeti (tutti gli artisti) spesso ci parlino direttamente di quei loro predecessori che maggiormente hanno amato o detestato, passa più attraverso le forme utilizzate che non attraverso i contenuti. È questione, direi, quasi naturale.

PIOVE                                             

Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.

Piove
da un cielo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.

Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c’è terremoto
né guerra.

Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia
e sulla greppia nazionale.
Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.

Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l’assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l’ha ordinato.

Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull’uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui work in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.

Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

L’esempio è un po’ lungo, me ne rendo conto, ma grazioso, e mi pare che, con tutta l’ironia che vi si ritrova, renda chiaramente l’idea, almeno per una parte del mio discorso. È Montale. Ditemi se non vi viene subito in mente “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio. E cos’è questa se non una critica a un certo tipo di poesia, ai suoi estimatori, e al valore forse anche politico che se ne può trarre?
E saltellando qua e là, mi ricordo di Foscolo che si rivolge, addirittura invoca Alfieri; Dante fa sovente riferimento alla poesia del suo tempo, per non dire del rapporto che ha con gli antichi, a cominciare dal venerato Virgilio; o Gozzano, che stabilisce tante delle critiche – ironiche e formali – su Pascoli, ma un’espressione così netta del proprio ruolo inserito nel fluire del tempo, questa idea del “passaggio di testimone”, mi pare nuova fino a sorprendermi. Dunque, anche stavolta: perché?
È a questi perché che vorrei cercare di dare una risposta.

Andiamo all’inizio di tutto.
La prima raccolta di poesie di Alfonso Gatto s’intitola “Isola” (1932). Questo è il titolo anche dell’ultimo componimento della raccolta:

Or nella solitaria
cadenza d’un approdo,
svanita la memoria
al suo tepore effusa,
esala bianca l’isola
la brezza del mio cielo.

Che quest’isola sia proprio la poesia ce lo indica, fin dall’apertura, lo stesso Gatto, con cinque lunghi versi segnati in corsivo, quasi un esergo, una piccola chiave di lettura per tutta l’opera, il cui titolo è “Poesia”:

In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo.
Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo regge.
Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento.
Universo che mi spazia e m’isola, poesia.

Silvio Ramat – insieme con Luigi Giordano e Francesco D’Episcopo forse tra gli studiosi più attenti dell’opera di Gatto – sostiene, a ragion veduta, che il componimento è in prosa. La ragione, mi sia concessa l’ironia, è proprio “veduta”, poiché questo la pagina scritta mostra, ma io mi permetto di dissentire. La presenza, da Ràmat stesso rilevata, di tre endecasillabi all’interno del brano, quasi nascosti (In ogni gioia breve e netta scorgo; a un divieto in cui cogliere il sospetto; e la lusinga del mio movimento), mostra subito quella cantabilità, quella musicalità che sarà sempre peculiare nella scrittura di Gatto. Sappiamo inoltre che egli esplorerà, quasi “senza pudori”, tutte le possibilità della versificazione, fino al poemetto in prosa. In questo brano resta ovviamente difficile fissare dei parametri metrici (non ce ne sono, sic!). Ma mi chiedo: cosa spinge Gatto ad intitolare “Poesia” uno scritto in prosa? Soluzione facile sarebbe lasciar scegliere al lettore. Voglio invece affermare a mio rischio e pericolo che si tratta di poesia.
Ma scrutiamo un poco in questi versi/frasi introduttivi. “Isola”, innanzi tutto, è utilizzato, in questa prima scheggia poetica, non come sostantivo ma come verbo, “isolare”: un verbo transitivo, dunque con un… doppio binario d’azione, che cammina in due direzioni. Tutto il pezzo è pervaso da un insistente gioco di dualismi ed ambivalenze, e questo è subito un primo, timido segnale di come il poeta giocherà con le parole, i loro significati, i sensi, le sonorità, i colori.
Le contraddizioni poi – potremmo dire in senso traslato gli ossimori – abbondano. “In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo”: l’idea di “gioia” si contrappone a quella di “pericolo”, con un “ogni” (cioè “ciascuno”, cioè “singolo”, “particolare”) che è indicazione di un “tutto”; “Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo regge”: l’immagine classica, consueta di “amore” (certamente il nostro primo pensiero leggendo) viene ad annodarsi con quella di “circolo chiuso”, di isolamento (la parola è venuta fuori da sola, chiedo scusa!), ma quell’amore, isolato ed isolante, è ciò che “regge”, che sostiene “ogni” (ancora!) essere, quasi fosse una solitudine necessaria alla sopravvivenza; “Tendo a questo dubbio intero”: la volontà di penetrare questo microcosmo inafferrabile è assoluta, totalizzante, ma quell’accostamento di “dubbio” e “intero” emette una fastidiosa vibrazione: sulla base di quale concetto, mi chiedo infatti, un “intero” si può pensare che contenga delle… crepe?
Ma continuiamo: il valore di “divieto”, quindi di un arresto, di una fermata, di una negazione venuta dall’esterno (ma sarà dall’esterno?), entra in netta relazione con “movimento” (2) tra “divieto” e “movimento”, la tentazione e la circospezione segnalate dai termini “sospetto” e “lusinga”, dunque l’essere compiaciuti, allettati, che si va a mescolare con la diffidenza, col timore di un pericolo: lasciarsi andare o restare (dilemma che subito tornerà in un’altra poesia di questo primo volume, “Il giogo”)?
L’ultimo verso/frase di “Poesia” ha il valore di una dichiarazione assoluta, definitiva: “Universo che mi spazia e m’isola, poesia”. In esso corrono due sostantivi, “universo” e “poesia”, e due verbi, “spazia” e “isola”, con quei mi, riflessivi, a circoscrivere ed additare, contemporaneamente, i margini imperscrutabili di un “infinito” tutto interiore, di un microcosmo così insospettata-mente vasto da sondare che si può ipotizzare di dedicargli tutta una vita, lasciando alla poesia il compito di guidarci.
Universo che mi spazia e m’isola, poesia” è una frase/verso di straordinaria chiarezza, e anche di splendida bellezza, idealmente retto ancor più che dai sostantivi e dai verbi, da quella ripetizione di pronome personale.

In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo.
Se è vero, come qualcuno afferma, ed io credo che lo sia, che un testo è già tutto nella sua prima parola, il nostro curioso distico ci pone di fronte a due precisi lemmi: il titolo “Poesia”, ma soprattutto l’ “In” di partenza.
Il titolo ha un senso di semplicità (che mai vuol dire facilità), quasi il poeta ci dica: è semplicemente la poesia il mio argomento, è la poesia la mia dolorosa-gioiosa tentazione ed il mio gioioso-doloroso abbandono; o volendoci spingere a ribaltare il senso di tutto: non so cosa sia (e come sia) ma è poesia.
Ma la parola chiave è In.
‘In’: preposizione propria semplice (indica il vocabolario) che stabilisce diverse relazioni dando luogo a molti complementi: 1 – complemento di stato in luogo (anche figurato); ed ancora: Dentro. È sempre divertente, nello sfogliare un vocabolario, notare come, non potendo prescindere dalle parole per spiegare le parole stesse, nasca un lungo ed inestricabile labirinto fatto di rimandi, intuizioni, allusioni, illusioni, imprecise precisazioni… Per spiegare “in” si dice “stato in luogo”, non potendo che riutilizzare la stessa preposizione.
Tornando a Gatto, l’incipit poetico pare indicare tutta la volontà del poeta di “essere dentro” o “essere per forza dentro”, il suo scoprirsi costretto: si sceglie la poesia, questo dirompente, assordante e silenzioso canto dell’anima, o da essa si è scelti? ”In” è volontà o coercizione? Comunque sia, il poeta (Gatto soltanto?) avverte subito che la gioia, “breve e netta”, sarà il suo “pericolo”, la sua gioiosa condanna.
“I poeti hanno un pubblico clandestino di duemila anime o poco più. Il resto è azzardo. Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi. Il giornalismo e l’insegnamento sono soltanto ritirate possibili nel sotterfugio. Forse un poeta dovrebbe essere soltanto un «clochard»; ma occorre almeno una società che offra nelle notti d’inverno la graticola dei metrò”.
Questa è una piccola nota di Gatto, si trova in “Può scoppiare la guerra”, volume “Le ore piccole (note e noterelle)”, edizione Il Catalogo, 1975. A quarant’anni dal suo primo libro, a fama già ben acquisita, pare restare vivo il desiderio di totale abbandono alla condizione “naturale” di poeta, portato dalla vita come un clochard.
Non è un ideale romantico, o fintamente letterario quello cui Gatto si richiama, il luogo comune del poeta povero e maledetto. Gli accenni al giornalismo e all’insegnamento rimandano alla storia personale, e potrebbero essere sostituiti con le situazioni private di qualsiasi altro poeta. Ma l’annotazione di Gatto si fa singola ed universale al contempo, e pare rivolta, in questo caso, più alla società che a se stesso: ama, accudisce, attende realmente la società ai suoi poeti? Il 1975 è l’anno della morte di Pasolini, di Gatto amico: chissà se mentre scriveva queste righe la tragedia era già compiuta.
Nella scelta di quel termine francese, c’è forse il senso della povera foglia-soldato tenuto tra la vita e la morte, di Ungaretti; la sospensione nell’attesa e nel desiderio della folgorazione del nulla montaliano; e perché no: l’aquilone lieve del Pascoli, o le altane sospese tra cielo e terra dell’amico Sereni, o la “povera foglia frale” del suo (suo!) amato Leopardi in “Imitazioni”, piccola poesia scritta sulla falsariga del componimento francese La fueille di Antoine-Vincent Arnault. Ma rispetto ai suoi illustrissimi colleghi, Gatto fa una scelta ben più netta, una scelta che è anche una dichiarazione, non usa metafore e si riferisce, incontrovertibilmente, al corpo, al corpo dell’uomo, al corpo del poeta.
Per restare a Leopardi, la lune e le stelle già “cose”, che ritornano in molti dei Canti, sono percepiti come osservatori distaccati, e per un certo verso adorati, che nella loro lontananza, nel loro non essere più “dubbio” ma essenza assoluta ed imperscrutabile, vengono a contrapporsi alla fisicità, dolente e grave, che Leopardi avverte del corpo (e che nulla ha a che fare con la sua malattia), corpo di cui avverte tutto il peso e la mortalità, esplodendo, per esempio, ne “La sera del dì di festa” nell’urlo dei versi “e qui per terra / mi getto, e grido, e fremo”.
Gatto, al contrario (e sarà una costante della sua vita letteraria, in un certo qual modo superando le posizioni del proprio idolo poetico), sente il corpo come rifugio o viatico per nuove conoscenze, strada privilegiata per nuovi mondi da esplorare: ne coglie le sensazioni, ne riporta fremiti e colori, lo vive intensamente come luogo della poesia, dell’amore, della conoscenza, cassa di risonanza del dolore e della gioia, dello stupore, della malinconia…
Sarebbe augurabile per il poeta ogni altro strumento che non sia la penna, ma il proprio corpo, le mani, gli occhi: “sarebbe augurabile”, ma a rileggerne la poesia, sono già quarant’anni che il suo corpo si offre, indifeso, quale strumento (musicale, verrebbe da aggiungere), si lascia attraversare, testimonia, è un vero e proprio luogo della scrittura, che, inoltre, per proiezione naturale (non banalmente sessuale), lo indirizzerà nella esplorazione di un altro misterioso luogo di divieto in cui cogliere il movimento: il corpo della donna.
Bene. Su questa annotazione… credo che per oggi, possa bastare.
Grazie.»


(1) Caro lettore, scopro, oggi, grazie all’amico attore Beppe Bisogno, che lo ha inserito in un suo spettacolo teatrale, “Il poeta e lo sciamano”, uno scritto di Rimbaud, Arthur Rimbaud, quello straordinario poeta francese dell’ottocento il cui nome solo i suoi compatrioti riescono a pronunciare bene. Nello specifico, si tratta di una lettera indirizzata al prof. George Izambard il 13 maggio 1871, dove scrive: “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente: lei non capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi. Le sofferenza sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso, si dovrebbe dire: mi si pensa. Scusi il gioco di parole. IO è un altro”. Una affermazione forte e bellissima, che in Rimbaud non meraviglia. Noto soltanto che, rispetto al discorso condotto su Gatto, essa è in una lettera privata.
Ed ancora, ma siamo in tempi successivi, un’altra notazione, di Jack Kerouac: “Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un
lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio”. Dicendo “Voglio essere considerato”, in fondo anche Kerouac si afferma quale poeta.
Da ultimo – sennò già questa prima nota diventa interminabile, e le note “rompono!” (1a) - una poesia di Guido De Marchi, “Non voglio essere poeta”, in un volume omonimo del 2004: “Non voglio essere/ poeta/ a tessere trine/ e merletti  di parole/ ma voce// voce dell’individuo che vive/ in me/ nella scomposta scorza/ della mia pelle// voce delle cose/ che attraversano/ la mia vita/ tracciando solchi profondi// voce delle percezioni/ a volte appena sfiorate/ che danno colore e suono/ ai miei pensieri// sono l’atomo/ di una molecola/  che senza di me/ non sarebbe/ o sarebbe altra cosa.”. Qui mi pare si torni un po’ ai discorsi di Corazzini e Palazzeschi, ma mica c’è nulla di male, e la poesia è deliziosa.
Quello che in realtà mi dà più piacere è scoprire sempre altre cose, cose che sempre possano mettere in dubbio le mie affermazioni ed aiutarmi a costruirne di nuove. Sennò mi annoio!
                  (1a) Tranne forse quelle spesso esilaranti di Foster Wallace.

(2) Ancora per il lettore. Viene in mente, a leggere questi due termini, quasi abbiano un triste valore di premonizione, un doloroso passaggio della vita di Gatto: nell’estate del 1936, a Milano, verrà arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore dalla polizia politica del regime fascista con l’accusa di cospirazione comunista. Da quella esperienza nasceranno le poesie di “La storia delle vittime”, diviso in due tronconi: una prima parte di componimenti redatti tra il 1943 ed il ’47, una seconda parte tra il ‘64 e il ’65, poi riordinati dall’autore nei tre corpi che compongono il volume: “Amore della vita, 1944”, “Il capo sulla neve, 1943 – 1947”, “Giornale di due inverni 1943 – ’44, 1964 – ‘65”. Quel ‘divieto’, quella costrizione imposta, in tal caso dall’esterno, quel fisico essere rinchiuso, diverrà motivo di scoperta di un ‘movimento’ interno di straordinaria intensità affettiva e civile.

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