E ricapitoliamo: La prima puntata è qui
Qui la seconda
E poi la terza
Tutta di seguito, niente spezzatino, la quinta "puntata", quella sull'amore.
Vi ricordo che i numeri in rosso segnalano le note a pie' pagina e... e che altro dirvi? Ancora una volta, buona lettura (e spero buon divertimento)
III giornata
«La seconda giornata è
un po’ come il secondo film o il secondo libro. La più difficile e la più
faticosa, sia per chi “scrive” che per chi “legge”. Sorgono dubbi, si aspettano
conferme, ci si chiede se si è effettivamente in grado, se veramente si è
capito tutto, ci pare di esserci impossessati dell’argomento e invece poi ci si
accorge che le lacune sono innumerevoli…
Fossi in voi non mi
preoccuperei. È il momento della crisi, e la crisi, credetemi, se affrontata
correttamente e con un poco di costanza e pazienza, è salutare. È come quando
vi allenate, e arriva il momento dell’affanno, il momento in cui dovete
“rompere il fiato” per poi proseguire senza tanti problemi perché avete “preso
il ritmo”. I campi in cui ci siamo inoltrati l’altra volta non erano né di
facile comprensione, né – lo confesso – facili da spiegare, ma non crediate sia
stato tempo perso, anche se non avete capito tutto-ma-proprio-tutto. Le cose
dette sedimenteranno in voi pure contro la vostra stessa volontà – “Le orecchie
non hanno palpebre”, ricordate – e sono certo che quando meno ve lo aspetterete
esse torneranno a galla limpide e nuove, magari sollecitate da un qualcosa
letto o ascoltato tra qualche anno e che mai mettereste in relazione. Dunque,
coraggio, pazienza, tenacia… e andiamo avanti. Buongiorno!
Tanto più che oggi, ho
intenzione di chiacchierare con voi di un argomento che sono certo vi
interesserà: l’amore.
Ah, vedo già qualche
volto più rilassato e sorridente. Ne ero certo.
Devo, però, mi spiace,
partire subito con una annotazione negativa. E già, perché – è assolutamente
una mia osservazione – credo ci sia una curiosa idiosincrasia della critica
letteraria italiana nel trattare, e spesso anche nel riconoscere, il tema
dell’amore. Chissà perché, per i nostri studiosi l’amore è argomento di serie
B.
Facciamo degli esempi.
Jorge Luis Borges scrive
nei suoi Nove saggi danteschi: “Penso
che Dante abbia edificato il miglior libro
della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice
(…) un sorriso e una voce che lui sa perduti sono il fatto fondamentale.
All’inizio della Vita Nuova si legge
che una volta elencò in un’epistola sessanta nomi di donna per insinuarvi,
segreto il nome di Beatrice. Penso che nella Commedia abbia ripetuto lo stesso malinconico gioco”. In parole povere,
Borges ipotizza che Dante si sia scritto tutta la Commedia solo per farsi due, tre incontri finalmente sereni con
Beatrice (che non solo morì prematuramente, ma che da quello che sappiamo non è
che lo trattasse proprio bene).
Apriti
cielo! Alla loro uscita, almeno in Italia, i Saggi suscitarono un mare di
perplessità. Si riconosceva la grandezza e la originalità della lettura del
poeta argentino, ma da qui a considerarlo un dantista… Un critico, poi, il cui
nome pare sia pietosamente caduto nell’oblio, lo accusò di avere ridotto la Commedia ad un romanzetto rosa.
Ora: io vi consiglio,
assolutamente, la lettura di questi saggi, illuminanti, appassionanti,
folgoranti, e che per quello che ho potuto constatare, hanno spinto più gente a
rileggere la Commedia che non tutti
gli insegnamenti scolastici.
La
cosa decisamente divertente è che, non ostante Borges dica a chiare lettere di
avere letto e riletto la Commedia, di
avere consultato e messo in relazione decine di commenti, dimostri di avere
della materia una conoscenza più che approfondita, offra una sua personale
lettura, nessuno gli riconosce il titolo di “dantista”.
Capisco:
ci sono studiosi che hanno “buttato il sangue” per una vita solo ed
esclusivamente sull’opera di Dante, che ne hanno sviscerato significati e
segreti, e a cui dobbiamo sicuramente essere grati. Ma cosa vuol dire essere un
dantista? Perché questo titolo, questa etichetta, può essere riconosciuta ad
alcuni e non ad altri? E sopra tutto: se amo così profondamente la Commedia da dedicargli tutta una vita,
perché non sono contento se arriva qualcuno che ne facilità la divulgazione
(dimostrando una buona dose di competenze, ovvio. Non come certi sé dicenti
lettori di Dante che oggi vanno per la maggiore, ma andiamo oltre)?
Ad
oggi ho tre risposte per questo: la prima è troppo brutta e ve la dico solo
privatamente, a microfono spento, perché possiate stare in guardia nella vita;
la seconda ce la fornisce Borges stesso quando scrive: “Ho letto quasi tutti i
libri di Croce e non sempre sono d’accordo con lui, ma ne sento il fascino. Il
fascino è, come ha detto Stevenson, una delle qualità essenziali che deve avere
lo scrittore. Senza fascino il resto è inutile” (1). Mi
spiace doverlo pensare, ma credo ci sia un “invidia del fascino”, come con gli
attori. Ci sono, o meglio c’erano, attori con la seconda elementare capaci di
far passare nella lettura di una poesia molte più “informazioni” di decine di
saggi critici. Erano sublimi e poco amati dalla critica non teatrale. Ci sono
oggi, invece, attori o sé dicenti tali, che prima spiegano il testo,
verso per verso e poi lo leggono, come i professori di Liceo. Un attore fa
esegesi del testo recitando, mentre recita, e non può essere diversamente. Chi
sceglie altre vie, abdica alla propria professione e delega le proprie
competenze. Curiosamente, questi ultimi, sono osannati dalla critica non
teatrale.
C’è
forse nell’etichettare o concedere titoli un problema con la oggettività o
soggettività dello scrivere? Bisogna forse presumere che lo studioso agisca, o
tenti di agire, in un “regime di oggettività”, che la sua azione sia
scientifica? Questo è innegabile, ma mi chiedo, ricordando anche ciò che ieri
ci siamo detti sulle parole e sulla verità (e di conseguenza sulla
oggettività): quando si elaborano i propri pensieri, quando si mettono le
parole sulla carta, quanto si può credere di essere oggettivi? Se uno stesso
accadimento storico messo in mano a due diversi studiosi ha due diverse
interpretazioni, quanto l’oggettività è possibile? Eppure si tratta di un
fatto, magari vicino a noi e di cui abbiamo ancora testimoni oculari, tipo la
dittatura fascista, o la stagione del terrorismo.
Dunque,
cosa sottintende (o cosa nasconde) questo distinguere ed etichettare? A mio
parere, una paura, e non una paura del futuro, ma di perdere il passato.
Tutto
questo discorso mi accorgo può avere una venatura di autoreferenzialità… è
vero. Ma non sono Borges, e francamente non so nemmeno se vorrei esserlo.
Probabilmente no. Non sono certamente né un poeta né uno scrittore. E allora?
Credo di essere solo un appassionato, ve l’ho detto, che offre le sue
riflessioni, certamente più sbagliate che giuste, e che spera di contagiare
qualcuno con la sua stessa malattia: l’amore per i libri, l’amore per la
poesia, l’amore per la bellezza. Per far questo uso le mie “armi”… e accetto il
rischio del giudizio. Me lo ha insegnato il Teatro: tutte le volte che ti
esponi al pubblico devi essere pronto ad accettare il giudizio, positivo o
negativo che sia. E tra le altre cose, credo che l’amore sia rischio, un
rischio che sempre meno persone sono disposte a vivere: “Esistono tre
continenti perduti – scrive il mio caro Tom Robbins in “Natura morta con
picchio” – …Uno siamo noi: gli amanti”. Può darsi abbia ragione chi mi
giudicherà pretenzioso e autoreferenziale, ma non so che farci. Accetto il
rischio, e ringrazio comunque il pubblico…
Parentesi:
Gatto ha fascino? Da vendere!
Terza
risposta, in una domanda: si può pensare che Dante abbia scritto cento canti, inventando praticamente una
lingua, solo per amore di una donna?
Controdomanda:
e perché no? È troppo squallido, misero, meschino, da portinaie (come si
sarebbe detto una volta)? Fateci caso: l’amore, in uno scrittore, uomo, è
essenzialmente una donna o una figura femminile, per cui ricordiamo le Beatrici
o le Fiammette o le Ada o le Daisy o le Dora Markus; in una scrittrice, donna,
è fondamentalmente il vivere l’amore. Ricordate qualche Jack, o Alberto, o che
so io? I nomi degli “amorosi” che ricordate, attenzione, sono generalmente in
testi scritti da uomini.
Dunque,
il problema dell’amore, in arte, presumo debba avere tutt’altre connotazioni.
Ancora
qualche altro rapido esempio.
Ricordo
di avere ascoltato, una volta, alla radio, un signor professore, il quale
disquisì per circa quaranta minuti su “La casa dei doganieri” di Montale. Parlò
di tutto, anche del di più: dolore, sofferenza, vita, morte, miracoli,
universo, ansia, attesa... Non gli sentii mai dire che la poesia parlava di una
donna e di un amore lontano e forse perduto per sempre.
Attendo
ancora qualcuno che a chiare lettere mi dica (colpa mia, avrò letto poco) che
“Il barone rampante” di Calvino è, tra le molteplici altre splendide cose, lo
struggente e tenero racconto di un amore impossibile:
“L’amore
riprendeva con una furia pari a quella del litigio. Era difatti la stessa cosa,
ma Cosimo non ne capiva niente.
- Perché
mi fai soffrire?
- Perché
ti amo.
Ora era
lui ad arrabbiarsi: - No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Chi ama
vuole solo l’amore, anche a costo del dolore.
- Mi fai
soffrire apposta, allora.
- Sì, per
vedere se mi ami.
La
filosofia del Barone si rifiutava di andare oltre: – Il dolore è uno stato
negativo dell’anima.
- L’amore
è tutto.
- Il
dolore va sempre combattuto.
- L’amore
non si rifiuta a nulla.
- Certe
cose non le ammetterò mai.
Una volta ho seguito una lunga intervista concessa da Calvino alla televisione francese. Raccontava che l’ipotesi iniziale era quella di lasciare il Barone sugli alberi fino a quando tutti gli abitanti della terra non vi fossero saliti anche loro. A quel punto, Cosimo sarebbe sceso. La storia, invece, diceva con un sorriso di infinita tenerezza, lo aveva portato completamente da un’altra parte. Da quale altra parte? Cosa, quasi inconsapevolmente, gli ha fatto cambiare rotta? Forse, il Barone resta per tutta la vita sugli alberi solo per avere, chissà quanto coscientemente, accettato la giovanile sfida amorosa che lei ad un dato momento gli lancia.
Che dire? Esistono i misteri
della fede, quelli della scienza, quelli della letteratura… evidentemente
esistono anche quelli della critica. Forse c’è un po’ troppo Leopardi in giro,
un po’ troppo pessimismo cosmico.
Ma questo problema dell’amore,
della figura femminile, resta, e la critica non può evitarlo. Così della donna
troviamo decine di definizioni, da angelicata a salvifica, da materna a
ispiratrice (ovviamente “musa”), peccaminosa o guida o dannatrice o rivelatrice
o… basta! Ogni buon poeta che si rispetti si ritrova la sua definizione della
donna.
Quale sia quella attribuita
dalla critica ufficiale alla figura femminile di Gatto, o, come lo studioso più
correttamente direbbe, in Gatto,
francamente non lo so, e confesso che non m’importa saperlo.
Sarà
proprio necessario distinguere, come si fa, tra la figura materna, per la quale
il poeta scrive versi a volte strazianti (“Fu in un giorno d’autunno che
l’amore/ mi disse a lungo che la lunga sera/ del parlare tacendo era venuta/ a
zittire sugli alberi, la muta/ eternità specchiava la peschiera/ annerita dai
boschi, nel chiarore/ - visibile per sempre - la tua gota/ struggente, il segno
della casa vuota.), e le figure femminili filiali, o tra le donne amate, magari
amate occasionalmente?
Non
credo. Credo invece che l’importante sia, per noi “lettori felici” (come dice
Borges), ritrovare il senso dell’amore nelle parole che il poeta ci lascia,
sentire il nostro palpito in quelle parole, sentire, nel sentimento più comune
e manipolato del nostro quotidiano, il riflesso delle nostre emozioni. La
poesia d’amore, paradossalmente, come il romanzo che tratta d’amore, serve più
a chi legge che non a chi scrive (sic!). Chi scrive, rende un sentimento
esterno a sé, forse se ne libera, o lo guarda, finalmente, nella sua
amplificata bellezza (anche dolorosa), la scrittura si presta come atto di
purificazione.
Ma per i
“lettori felici”, quelle parole sono passioni vive, forse in quello stesso
momento vissute. Siamo per un attimo pratici, piccoli, quotidiani, diretti,
anche miseri, se volete: chi di noi, dotato di un minimo, ma un minimo di
frequentazione con la letteratura, al momento dei primi, dolci turbamenti
amorosi, non ha utilizzato qualche verso, qualche parola d’amore letta in un
libro, ascoltata in un film o in una canzone, per fare di sé innamorare
qualcuno o per confortarsi in un abbandono?
Dunque
credo che se lo si vuole inquadrare, il problema va affrontato esclusivamente
dal punto di chi scrive. E qui, la questione assume tutti altri contorni,
decisamente più profondi (e in un certo qual senso anche inquietanti). La
domanda da porci è: cosa rappresenta la donna, o meglio, l’idea del femminile
che il poeta si porta dentro? Questa idea del femminile è un simbolo, e se lo
è, quale valore ha?
Penso che
una interessante risposta ce la fornisca Erich Neumann, psicologo, allievo di
Jung, che ha focalizzato gran parte dei suoi studi e della sua attenzione
proprio sul “femminile”.
In “Amore
e Psiche – una interpretazione nella psicologia del profondo” scrive:
1 - “…
nella favola gli avvenimenti sono determinati dall’attività del partner
femminile, cioè da Psiche. Le metamorfosi di Eros, Eros come drago, Eros come
mostro e marito, Eros dormiente e infine Eros dio che salva Psiche e la desta
all’esistenza più alta: tutti questi stadi non sono raggiunti dall’attività
dello stesso Eros, ma attraverso le imprese e le sofferenze di Psiche. È
sempre lei quella che intraprende, soffre, realizza e porta a compimento, e
in fondo anche la manifestazione del divino, di Eros, è determinata
dall’attività amorosa e conoscitiva della parte femminile, dell’umana Psiche.”;
2 -
“Nell’Eros della favola di Psiche come nel Lucio dell’iniziazione a Iside il
corso degli eventi non deriva dall’attività dell’Io maschile ma dall’iniziativa
del femminile. In entrambi i casi l’andamento delle cose, nel bene e nel male,
viene indirizzato da questo principio femminile sinanche in opposizione a un Io
maschile riluttante e passivo. Tali sviluppi, però, in cui la ‘spontaneità
della psiche’ e la sua vitale capacità direttiva decidono in modo determinante
della vita del maschile, ci sono noti dalla psicologia dell’uomo creativo come
dalla psicologia del processo di individuazione . In tutti questi processi
in cui ‘Psiche guida’ e il maschile segue, l’Io depone il proprio ruolo di guida
ed è guidato dalla totalità. Negli sviluppi psichici che risultano incentrati
sul non-Io, sul Sé, siamo in presenza nello stesso tempo di processi creativi e
di processi di individuazione.” ;
3 – “Non
è soltanto Psiche a percorrere un percorso di trasformazione; il suo destino è
indissolubilmente intrecciato a quello di Eros. Ma questo rende il mito di
Psiche un mito della relazione tra uomo e donna.” (2);
4 - “Lo
scopo del mistero è “procreare e partorire nel bello”, è partorire “un
misterioso fanciullo che rende pregni della sua presenza tanto il corpo quanto
l’anima”, una gravidanza che testimonia la presenza e l’attività di Eros.”;
5 – “Ma
oltre a ciò, l’esperienza d’iniziazione religiosa diventò per Apuleio
un’esperienza personale perché egli era uno di quegli uomini creativi che, come
il femminile, devono partorire, e perché era uno di quelli che “Psiche
guida”.”
Nelle mie
letture, sempre da “lettore felice”, mi è capitato di incontrare almeno tre
chiarissime riscritture della favola in questione, e tutte lontanissime tra
loro nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella forma. Sono certo che ne
esistono decine d’altre, poiché spesso mi capita di sentire vibrare le immagini
di questo mito sotto storie che ad esso non si richiamano così chiaramente come
in quei tre casi, che sono: “La
locandiera” di Carlo Goldoni, “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, “Natura
morta con picchio” di Tom Robbins. Questo terzo, poi, nell’opera di “ricalco” è
simpaticamente clamoroso. Ma il discorso sul mito di Amore e Psiche, sia pure
molto affascinante, ci porterebbe lontano. Sarà per un’altra volta. Invito solo
ad osservare che le due comiche della Locandiera si accostano alle due sorelle
di Psiche, che Eros, “il vendicatore”, ha arco e frecce così come Bube ha la
sua pistola e Picchio le sue bombe, che Bube e Picchio finiscono in galera così
come Eros è segregato dalla madre Venere, e da ultimo che l’ombra del padre di
Mirandolina sa tanto dell’oracolo che porterà Psiche alle nozze. Ma questi sono
solo primi e superficiali paralleli, lasciamo stare.
Quello
che penso è che le più belle poesie di Eugenio Montale sono poesie d’amore.
Pensate per esempio a “Dora Markus” o alle composizioni di “Xenia”. E sarà
curioso notare, se vi capiterà, che nel momento in cui Montale rimane solo per
la morte della moglie Drusilla, la sua poesia cambia. Vi risparmio le
disquisizioni della critica su questo cambiamento, ma evidentemente un nesso
tra la scomparsa della donna ultima e più a lungo amata e questo “scarto”
poetico ci deve essere.
In Gatto,
questo, per esempio, non accade. Non è un merito maggiore di Gatto rispetto a
Montale. Semplicemente Alfonso ha trovato sempre nuovi amori, ed intensi, fino
al suo ultimo e tragico momento. Ciò che è curioso è quel suo indugiare sulle
donne come forma della vita, come spazio da esplorare, da guardare muoversi,
anche da lontano:
Ho visto la ragazza che può dire
d’essere il mondo.
(…)
Si ha la
sensazione che egli ci additi un vero e proprio universo esterno da cui trarre
continuamente linfa vitale. Posso dirvi, in coscienza, che le sue poesie
d’amore, o dedicate, o che parlano di donne, sono assolutamente splendide,
senza ombra di dubbio. Rimandano una tensione emotiva, un senso profondo del
desiderio, e soprattutto una gioia che raramente ho incontrato. Nella maggior
parte dei casi, infatti, i poeti (gli artisti in generale) tendono a cantare
una malinconia dell’amore, il distacco, la lontananza. Sono più rari i casi in
cui assistiamo alla “gioia della presenza”, in Saba, ad esempio, o in Aleixandre.
Va comunque detto che anche nel “gioco dell’assenza” ci sono versi o attacchi
che ci riempiono il cuore sempre, forse perché l’amore è tempo presente,
sempre. Pensate a quello più meravigliosamente semplice e noto di Montale: “Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”. La mia preferita in
Montale è “La frangia dei capelli…”:
“La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi. Anch’essa
parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto
del sonno la cortina che gl’indulti
tuoi distendono, l’ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s’ora
d’aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d’un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.”
Bella,
vero? Spero che leggerla non sia stato solo un mio personale piacere.
Tornando
a Gatto. C’è in Gatto che guarda le donne una pienezza di vita, quasi il valore
di un “ringraziamento” per la sola loro esistenza, che sia la madre o l’amante
(parola splendida che soltanto il conformismo ottocentesco-borghese ha riempito
di turpi significati. Amante: colei/colui da cui si è amati. Conoscete qualcosa
di meglio?), un senso del “ringraziamento”, dicevo, che ci porta a pensare che
esse donne non siano solo il veicolo dell’amore, ma un vero e proprio mezzo per
la conoscenza.
Chi ha un
minimo di frequentazione con la psicologia, sa che ognuno di noi è come fatto
di due parti, indicate una come maschile l’altra come femminile. La parte
maschile, generalmente situata, o meglio identificata con il lato destro (a
meno che non siate mancini), è la sede della forza, del senso del dovere, della
responsabilità…
Quella
femminile, generalmente identificata a sinistra, è la sede della fantasia,
della creatività, dell’immaginazione, dell’introspezione…
Si
ritiene che una persona, un soggetto sia ben formato, sia cresciuto bene
insomma, se le sue due parti sono in buon equilibrio. Dunque, “il femminile”
non è solo della donna ma di ciascuno di noi, così come “il maschile”. E questa
cosa è talmente precisa da divenire applicabile anche alla nostra società, alla
nostra storia, cultura, al “collettivo” come lo chiama Neumann. Tanti, tanti
dei nostri disastri derivano dal mancato equilibrio tra questi due elementi. Il
mondo è stato per troppo, lungo tempo “maschile-patriarcale”, ed il
“femminile”, che non sono solo le donne, lo ribadisco, ha fatto fin troppa
fatica a venire fuori. E da che mondo è mondo, il “maschile-patriarcale” è
stato portatore di dissidi e guerre. Forse non è un caso che dopo due guerre
mondiali sia esploso il ’68, e che una delle sue frasi simbolo fu
“l’immaginazione al potere”.
Come al solito sto un po’
divagando, ma non credo che queste osservazioni siano non-pertinenti, e visto
che siamo tornati su Erich Neumann, stando alla sua lettura della favola di
Amore e Psiche, possiamo ipotizzare che la donna, in questo nostro discorso su
Gatto e sulla poesia, non ha in realtà
un valore in sé, in quanto elemento esterno, ma quell’elemento esterno è il
riflesso di qualcosa che il poeta si porta dentro. È l’immagine riflessa di
quel femminile che si muove dentro di lui, dentro ognuno di noi in realtà, e
che lo spinge, come scrive Neumann, a partorire.
Non so se
riesco e spiegarmi… Beatrice, non è Beatrice, ma il “femminile” di Dante, che
lo conduce, lo guida verso il bello e a partorire il bello. Guardate che non è
una idea solo mia, o di Neumann. Auerbach, nei suoi saggi su Dante lo scrive a
chiare lettere. “Per la nostra indagine è indifferente sapere chi era Beatrice,
e se essa sia vissuta davvero; la Beatrice della Vita Nova e della Commedia
è una creazione di Dante e non ha quasi a che fare con una giovane di Firenze
che più tardi sposò Simone de’ Bardi. E se essa d’altro canto è niente di più
di una allegoria di mistica sapienza, resta in lei tanta realtà e personalità
che si ha il diritto di considerarla una figura umana, che possano o no quei
dati di fatto reali riferirsi a una persona determinata. (…) non si capisce
perché si debba riconoscere maggior forza di ispirazione a un’esperienza
erotica che può succedere a ogni uomo, che non a un’illuminazione mistica che è
capace di conservare l’evidenza delle cose; come se la mimesis poetica dovesse essere una copia di cose determinate, e non
fosse piuttosto autorizzata a fondere a suo piacimento il suo materiale di
realtà, tratto dall’infinito numero delle cose di cui la memoria dispone.”
Auerbach, Erich Auerbach, a me evidentemente stanno simpatici quelli che si
chiamano Erich…
Giunto
alla maturità, Gatto pare intuire questo meraviglioso “tranello” della
creazione poetica. Ed ecco che in “Desinenze”, sua ultima fatica (purtroppo!),
spunta una curiosa, piccola poesia, “L’anca gloriosa”:
È la mia donna o la donna
questa che seguo all’incedere
del passo fermato
a reggerle l’anca gloriosa?
È mio l’orgoglio d’averla nell’onda
della mattina o la noia
di dirmi ch’è sposa,
sposa del vento che mai la tocca
incredibile e sciocca?
L’anca gloriosa mi fa pensare
subito a Petrarca, alle “Chiare fresche e dolci acque (per favore, è un
settenario, non fate come troppi l’errore di staccare dolci_acque: c’è sinalefe! Attaccate, cioè, la vocale finale della
parola con quella iniziale della parola successiva!) / ove le belle membra/
pose colei che sola a me par donna;/ gentil ramo ove piacque, (vi torna, ora,
la rima?)/ con sospir mi rimembra,/ a lei di fare al bel fianco colonna (…)”. E
forse viaggiando da quella tra le prime donne della poesia italiana fino alla
sua, Gatto trova giusto chiedersi se quella sia la sua donna o la donna. Ed è suo l’orgoglio di averla
nel flusso dei pensieri freschi del mattino o la noia di vederla stabile,
stabile (e immutabile?) nel vento che non la tocca mai? Essa è al contempo
incredibile e sciocca: tutto e nulla.
Nella
maturità, al termine di quella esplorazione necessaria dell’altra parte di sé,
del suo “avversario”, Gatto intuisce che c’è qualcosa di misterioso in quello
splendido gioco tra i sessi, ma quel qualcosa riguarda, ancora una volta, la
sua interiorità e non l’altro essere, sia pure amato e rispettato.
In un
piccolo saggio pubblicato da “Il catalogo”, intitolato non a caso “Universo che
mi spazia e m’isola”, Piero Bigongiari scrive:
“(…)
questa aedicità del canto gattiano, pronto ad accendersi in profondo dei suoi
nonnulla vitali, in quanto, esigendo questo ascolto, esige il cerchio dei
felici viventi, esige i suoi Feaci. Ma è piuttosto il canto di Telemaco che
quello di Ulisse, piuttosto il canto del figlio, del “bambino festoso”, in
cerca del padre, e delle notizie del padre presso Nestore, a Pilo, che quello
del padre in viaggio verso l’ “isola” natale. Gatto in definitiva mira a
lasciare l’ “isola”, cioè il proprio io, in cui, sì, l’universo della poesia lo
spazia ma, anche, lo chiude; e la lascia proprio nelle intermittenze
dell’avventura che lo sospinge al canto (“mi spazia”) ma di cui il canto è
anche il commento e il significato (“m’isola”). È Penelope, s’è detto, la
madre, la sua morte: ed è lì che il significante raggiunge il significato
primo. “Il paese cantato sui carri” il “morto ai paesi”, “il bambino festoso”
ma anche “violento”, se lo porta dietro partendo alla ricerca del padre, ma la
ricerca del padre finisce per risolversi nell’altro corno del problema edipico:
quello della conquista retrorsa della madre abbandonata, che si riverbera in
avanti come il dato stesso della morte nascita: che è il dato quotidiano del
proprio uso della parola, quello del linguaggio del canto, quello infine stesso
del canto e della finalità, cioè il significato, del canto”.
Ecco. Ci
avete capito qualcosa? Confesso che ho dovuto leggerlo tre volte prima di farmi
un’idea di cosa vuol dire (e non so nemmeno se sia quella giusta). E a me piace
occuparmi di queste cose, figuriamoci un lettore comune, distratto o che cerchi
di essere invogliato, che voglia essere guidato su un percorso di conoscenza. Questo pezzo di
Bigongiari è splendido, ma sembra indirizzato al solo circolo degli studiosi.
Insomma… scusate: pare che se la suonino e se la cantino tra di loro; e questo
– mi spiace dirlo – chiudere le porte anziché aprirle, mi dà sempre il senso di
una volontà che vuole in qualche modo conservare un potere, di un consorzio,
una casta si direbbe oggi, che protegge i suoi vecchi adepti e filtra con
maglie strettissime i nuovi. Il discorso di Bigongiari è alto, altissimo,
credetemi, ma possibile che non si possa farlo più semplice? E semplice, lo
ripeterò fino alla morte, non è facile.
Semplice è un risultato, il risultato
di una lunga elaborazione e di una sintesi, semplice
è tendere e forse arrivare all’essenza. Facile
no: facile è la superficialità,
superficialità che, certo, a volte al genere umano è necessaria, serve a volte,
ne siamo tutti consapevoli, alleggerire, andare “easy” come direbbero gli
anglosassoni.
Questa è
una cosa che, per esempio, proprio gli attori conoscono molto bene: arrivare
alla semplicità è un “dono” che si conquista (perdonate il paradosso, quasi
l’ossimoro), in genere una scoperta della maturità. La semplicità in Eduardo
(De Filippo), tanto per dirne uno, è un punto di arrivo della maturità. Eh,
disgraziati quegli attori che pensano di poter partire semplici, non fanno
altro che ricalcare modelli, stilemi che non appartengono ancora alla loro
interiorità. E il guaio è che non possono accorgersene, perché altro elemento
che entra in gioco nella semplicità è la presa di coscienza, la consapevolezza,
e non si può partire “consapevoli”.
Scusate
la digressione personale-attoriale, anche incompleta. Torniamo al nostro
discorso.
Era
auspicabile, in Bigongiari, la semplicità (Borges, a mio parere, è semplice,
infatti non finite mai di scavarci dentro anche quando a prima lettura vi pare
di avere capito tutto, o quel poco Croce che ho letto è semplice, o Calvino, la
Ginzburg, o Foster Wallace…), ma la semplicità richiede fatica, molta fatica,
fatica e ricerca, richiede un “allontanarsi dai propri pensieri”, un rimetterli
in discussione, chiede la ricerca di una forma lontana da ciò che già sappiamo,
un andare fuori dalle strade battute su cui abitualmente camminiamo. Richiede
un superamento.
“Se
riesci a scrivere con parole da un dollaro fai una grande cosa, ma se riesci a
scrivere con parole da pochi cent fai un cosa ancora più grande” più o meno,
cito a memoria - pessima memoria - una frase di Hemingway.
Ma
insomma cose vorrebbe dire Bigongiari? Che innanzi tutto, quello di Gatto non è
il viaggio di Ulisse che torna a casa, ma quello del figlio Telemaco che parte
alla ricerca del padre (lessi, per dovere universitario “Le avventure di
Telemaco” di de Fénelon: una delle cose più noiose che abbia letto in vita mia,
non ve lo consiglio). Ed essendo il viaggio del figlio (l’intuizione e
l’accostamento con Telemaco sono splendidi) Gatto non cerca l’isola, ma vuole
lasciarla, cioè vorrebbe lasciare il proprio “io”, quell’ “io” dell’universo
della poesia che lo spazia, ma anche lo isola, cioè lo chiude. E in questo
viaggio alla ricerca del padre, egli in realtà, irrimediabilmente, si porta/lascia
dietro la madre, ed il viaggio lo condurrà proprio a
ritrovare la madre, elemento che dà la nascita, ma in conseguenza anche la
morte. Chi non nasce non può morire, per capirci.
Dunque,
tutta la questione si risolve in una sorta di ricongiungimento, non di Gatto
con la madre, ma dei due elementi, maschile e femminile che sono in lui (come
in ognuno di noi). Quindi – lo dicevamo prima – al compimento della sua figura,
al diventare insomma adulto, un essere compiuto nella sua interezza,
nell’equilibrata unione di maschile e femminile. La madre, abbandonata,
lasciata cioè dietro, brilla, “si riverbera”, riluce davanti a lui come approdo
finale, come un faro, come simbolo della nascita- morte. Nascita-morte che sono
la totalità di tutto il percorso: tendo a
questo dubbio intero, ricordate? E
questa ricerca della totalità, questa vita-morte è il dato fondante, secondo lo
studioso, il valore profondo del suo canto, è il valore del suo stesso canto:
arrivare in fondo per comprendere che ciò che conta è il cantare stesso, non
alcune specifiche cose che si cantano, perché la vita-morte è fatta di tutte le
cose.
È un po’
il discorso che facevo sui “temi” di Gatto. Ce ne sono talmente tanti che…
quali sono? Tutti e nessuno, in realtà. Egli offre il proprio corpo alla poesia
e si lascia suonare, si lascia cantare. Il ciclismo non è diverso dall’amore,
un processo non è diverso dalla morte del fratello, il carcere non è diverso
dai giochi dei bambini: il canto dell’anima è necessario in se stesso.
Attention
s’il vous plaît: quando diciamo “diventare adulto” non ci riferiamo all’uomo,
ma al poeta, o meglio alla sua poesia (come potremmo esaminare l’uomo, e anche
potessimo con quale diritto!); è come se
fosse lei a compiere questo percorso,
lei in lui.
Uff! S’è
fatta più fatica a spiegare il critico che il poeta. Io - ci tengo a dirlo -
non ho semplificato Bigongiari, forse l’ho “incartato” ancora di più. Ma non
toccava a me cercare la semplicità, toccava a lui: sua è l’idea, sua
l’esposizione, suo il problema.
Alla fine
di questo minimo discorso sul femminile, nel quale spero di essermi
“sgrovigliato” (credo sia veramente molto complesso, ad oggi tutti i parametri
non mi sono chiari e mi domando quando lo saranno – in realtà spero mai,
altrimenti che faccio per il resto dei miei giorni?!), alla fine di questo
discorso, dicevo, voglio darvi un piccolo e secondo me divertente consiglio
pratico:
*
Sorriderti forse è morire,
porgere la parola
a quella terra leggera
alla conchiglia in rumore
al cielo della sera,
ad ogni cosa che è sola
e s’ama col proprio cuore
*
Come la donna è calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è largo il mare.
Come la donna e calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è caldo il pane.
(…)
*
I tuoi occhi son come la giovinezza
grandi, perduti, lasciano il mondo.
(…)
Tu sei l’amore da portare in braccio
di corsa sino al vento sino al mare,
(…)
*
Forse mi lascerà del tuo bel volto
amore un soffio e la celesta sera
disparirà come un silenzio intorno.
(…)
*
Non ha parole chi rivolge agli occhi
la sua domanda e trova nello sguardo
gli occhi a conferma d’essere l’amore.
(…)
*
Resta con me la notte, com’è lunga
e non basta l’amore a darle un senso.
All’alba viene sconsolato il freddo
che non perdona, (…)
Chi resiste allo sgarbo ci vuol bene,
veglia la calma, il sonno può venire.
Ecco, ho
sfogliato e letto quasi a caso. Sono solo alcuni esempi di quello che potete
trovare in Gatto. E il consiglio è: imparate a memoria qualcuno di questi
versi, vedrete che non vi mancherà occasione di utilizzarli e scoprirete che
sono una meravigliosa arma di seduzione, reciprocamente, per entrambi i sessi,
anche dalle ragazze sui ragazzi, perché no?!, chi ce lo impedisce?, le
convenzioni sociali, i modelli consolidati, le abitudini? Ribaltiamole queste
convenzioni, proviamoci almeno (personalmente, sogno di incontrare una donna
che almeno una volta nella vita mi mandi dei fiori): siamo giovani per provare
a scardinare i modelli riconosciuti e convenzionali, siamo giovani per tentare
altre strade, e nessuno potrà nemmeno impedirci, un giorno, di dire e dirci:
vabbene, ho sbagliato, torno indietro. E magari ricominciare. Le cose
importanti io credo siano l’onestà, onestà con se stessi, e sopra tutto (sopra tutto, staccato!, voluta-mente e
decisa-mente) il non aver paura, non avere mai paura dell’amore, non avere mai
paura di vivere l’amore, di rischiare con l’amore, qualsiasi cosa possa
accadere. E credo che anche in questo Gatto ci sia d’esempio, che ce lo indichi
con la sua esperienza e la sua poesia.
Il mio
amato Tom Robbins in Cowgirl scrive:
“Sfortunatamente
mie care bambine, non esiste quella che voi chiamate una semplice storia
d’amore. La più passeggera delle cotte è complessa al punto da essere oltre la
portata del cervello. (Il cervello ha la pericolosa abitudine di pasticciare
con cose che non può e non vuole
comprendere.)
Il vostro
autore ha trovato che l’amore è la quintessenza del viaggio, emotivamente
parlando; il grand tour: prova a innamorarti, e visiterai il paradiso e
l’inferno al prezzo di uno. E con questo non abbiamo detto ancora niente. Se il
realismo può essere definito come una delle cinquantasette varietà di
decorazione, allora come possiamo sperare in una valutazione realistica
dell’amore?”
Ah, i
professoroni rabbrividiranno, strepiteranno, diranno che mettiamo i versi di un
grande poeta alla stessa stregua delle canzonette. E che ci importa?! A parte
il fatto che un grande poeta, quale Gatto è, resta sempre un grande poeta,
sempre, non sarà meglio conoscerla un po’ di poesia invece che restarne lontani
così come il tedio pseudo-scolastico ci ha generalmente indotto a fare? E non
sarà meglio utilizzarla, la poesia, per renderla strumento d’amore, piuttosto
che di potere?
Ne sono
certo: i prof. ci insulterebbero, Gatto sorriderebbe e ci direbbe: “Ma sì, è
comunque meglio”.
E mi
assumo questa responsabilità!
Però!
Oggi non abbiamo fatto nemmeno un pausa. Siamo andati dritti come treni e il
discorso si è rivelato più complicato di quanto credevo. Come sempre.
E allora,
da ultimo, ultimissimo, lasciate che vi faccia due piccole letture; solo
qualche minuto ancora di pazienza.
La prima
è la poesia d’amore di Gatto che preferisco. S’intitola “Potrebbero dirti
morta”, e non vi nascondo che mi ricorda una persona. Aveva (/ha) occhi scuri, grandi, immensi, profondi, carichi di tutta la luce del mondo,
il cuore del mondo.
I tuoi
occhi son come la giovinezza
grandi,
perduti, lasciano il mondo.
Potrebbero
dirti morta senza rumore
e
incamminare su te il cielo,
passo a
passo, seguendo l’alba.
Tu sei
l’amore da portare in braccio
di corsa
sino al vento, sino al mare,
e dirti
fredda da scaldare al fuoco
e dirti
triste coi capelli neri
da
pettinare eternamente, è come
deporti
nel silenzio, starti accanto
udendo
l’acqua battere alle rive.
E poi, il
mio amato Tom Robbins, da quello che io considero non solo il suo capolavoro,
ma uno dei più grandi romanzi del ‘900, “Natura morta con picchio”:
“Quando se ne va il mistero nel rapporto a due, se ne va l’amore.
Semplice, no? Il che spinge a pensare che non tanto l’amore è importante per
noi, quanto il mistero stesso. Il rapporto amoroso forse è solo un accorgimento
per metterci in contatto con il mistero, e desideriamo che l’amore perduri
affinché perduri l’estasi di stare vicini al mistero. È contrario alla natura
del mistero restare fermo. Ciò non ostante è sempre lì, un mondo dall’altra
parte dello specchio (o del pacchetto di Camel) una promessa nel prossimo paio
d’occhi che ci sorride. Riusciamo a coglierlo fuggevolmente se stiamo fermi noi.
L’incantesimo
del nuovo amore, l’incantesimo della solitudine, l’incantesimo degli oggetti,
l’incantesimo delle vetuste piramidi e delle stelle lontane sono mezzi per
stabilire un contatto con il mistero. Ma là dove si tratta di perpetuarlo, non
ho consigli. Però posso e voglio rammentarti due dei più importanti fatti di
cui sono a conoscenza:
1)
Tutto ne è parte.
2)
Non è mai troppo tardi per farsi
un’infanzia felice.”
Ecco, io
credo che non sia mai troppo tardi per farsi “lettori felici”.
Grazie,
oggi veramente di cuore, grazie.»
(1) Cos’è il fascino? Non
come qualcuno barbaramente crede una dote innata, ma la risultante di una serie
di combinazioni e necessità. Per un approfondimento vi rimando alla lettura di
un testo meraviglioso che credo tutti dovrebbero leggere: “La canoa di carta”
di Eugenio Barba. Qui, vi lascio per ora un prezioso insegnamento di Anna Maria
Giromella, insegnante di dizione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica
“Silvio D’Amico” in Roma: “Il fascino è concentrazione”. Sintetico, ma vi
assicuro che c’entra come il sole in una giornata al mare, almeno per gli
attori.
(2) Chiedo perdono, ma questo mi fa venire in mente
una spiritosa frase scritta su uno di quei gadget con la calamita che una mia
amica tiene appiccicato sul frigorifero: “visto che ho un corpo, ho bisogno di
una corpa!” …Sorry!
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