martedì 20 ottobre 2015

5 (o Dell'Amore) - IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)


E ricapitoliamo: La prima puntata è qui

Qui la seconda

E poi la terza 


Tutta di seguito, niente spezzatino, la quinta "puntata", quella sull'amore

Vi ricordo che i numeri in rosso segnalano le note a pie' pagina e... e che altro dirvi? Ancora una volta, buona lettura (e spero buon divertimento) 











III giornata

«La seconda giornata è un po’ come il secondo film o il secondo libro. La più difficile e la più faticosa, sia per chi “scrive” che per chi “legge”. Sorgono dubbi, si aspettano conferme, ci si chiede se si è effettivamente in grado, se veramente si è capito tutto, ci pare di esserci impossessati dell’argomento e invece poi ci si accorge che le lacune sono innumerevoli…
Fossi in voi non mi preoccuperei. È il momento della crisi, e la crisi, credetemi, se affrontata correttamente e con un poco di costanza e pazienza, è salutare. È come quando vi allenate, e arriva il momento dell’affanno, il momento in cui dovete “rompere il fiato” per poi proseguire senza tanti problemi perché avete “preso il ritmo”. I campi in cui ci siamo inoltrati l’altra volta non erano né di facile comprensione, né – lo confesso – facili da spiegare, ma non crediate sia stato tempo perso, anche se non avete capito tutto-ma-proprio-tutto. Le cose dette sedimenteranno in voi pure contro la vostra stessa volontà – “Le orecchie non hanno palpebre”, ricordate – e sono certo che quando meno ve lo aspetterete esse torneranno a galla limpide e nuove, magari sollecitate da un qualcosa letto o ascoltato tra qualche anno e che mai mettereste in relazione. Dunque, coraggio, pazienza, tenacia… e andiamo avanti. Buongiorno!
Tanto più che oggi, ho intenzione di chiacchierare con voi di un argomento che sono certo vi interesserà: l’amore.
Ah, vedo già qualche volto più rilassato e sorridente. Ne ero certo.
Devo, però, mi spiace, partire subito con una annotazione negativa. E già, perché – è assolutamente una mia osservazione – credo ci sia una curiosa idiosincrasia della critica letteraria italiana nel trattare, e spesso anche nel riconoscere, il tema dell’amore. Chissà perché, per i nostri studiosi l’amore è argomento di serie B.
Facciamo degli esempi.
Jorge Luis Borges scrive nei suoi Nove saggi danteschi: “Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice (…) un sorriso e una voce che lui sa perduti sono il fatto fondamentale. All’inizio della Vita Nuova si legge che una volta elencò in un’epistola sessanta nomi di donna per insinuarvi, segreto il nome di Beatrice. Penso che nella Commedia abbia ripetuto lo stesso malinconico gioco”. In parole povere, Borges ipotizza che Dante si sia scritto tutta la Commedia solo per farsi due, tre incontri finalmente sereni con Beatrice (che non solo morì prematuramente, ma che da quello che sappiamo non è che lo trattasse proprio bene).
Apriti cielo! Alla loro uscita, almeno in Italia, i Saggi suscitarono un mare di perplessità. Si riconosceva la grandezza e la originalità della lettura del poeta argentino, ma da qui a considerarlo un dantista… Un critico, poi, il cui nome pare sia pietosamente caduto nell’oblio, lo accusò di avere ridotto la Commedia ad un romanzetto rosa.
Ora: io vi consiglio, assolutamente, la lettura di questi saggi, illuminanti, appassionanti, folgoranti, e che per quello che ho potuto constatare, hanno spinto più gente a rileggere la Commedia che non tutti gli insegnamenti scolastici.
La cosa decisamente divertente è che, non ostante Borges dica a chiare lettere di avere letto e riletto la Commedia, di avere consultato e messo in relazione decine di commenti, dimostri di avere della materia una conoscenza più che approfondita, offra una sua personale lettura, nessuno gli riconosce il titolo di “dantista”. 





Capisco: ci sono studiosi che hanno “buttato il sangue” per una vita solo ed esclusivamente sull’opera di Dante, che ne hanno sviscerato significati e segreti, e a cui dobbiamo sicuramente essere grati. Ma cosa vuol dire essere un dantista? Perché questo titolo, questa etichetta, può essere riconosciuta ad alcuni e non ad altri? E sopra tutto: se amo così profondamente la Commedia da dedicargli tutta una vita, perché non sono contento se arriva qualcuno che ne facilità la divulgazione (dimostrando una buona dose di competenze, ovvio. Non come certi sé dicenti lettori di Dante che oggi vanno per la maggiore, ma andiamo oltre)?
Ad oggi ho tre risposte per questo: la prima è troppo brutta e ve la dico solo privatamente, a microfono spento, perché possiate stare in guardia nella vita; la seconda ce la fornisce Borges stesso quando scrive: “Ho letto quasi tutti i libri di Croce e non sempre sono d’accordo con lui, ma ne sento il fascino. Il fascino è, come ha detto Stevenson, una delle qualità essenziali che deve avere lo scrittore. Senza fascino il resto è inutile” (1). Mi spiace doverlo pensare, ma credo ci sia un “invidia del fascino”, come con gli attori. Ci sono, o meglio c’erano, attori con la seconda elementare capaci di far passare nella lettura di una poesia molte più “informazioni” di decine di saggi critici. Erano sublimi e poco amati dalla critica non teatrale. Ci sono oggi, invece, attori o sé dicenti tali, che prima spiegano il testo, verso per verso e poi lo leggono, come i professori di Liceo. Un attore fa esegesi del testo recitando, mentre recita, e non può essere diversamente. Chi sceglie altre vie, abdica alla propria professione e delega le proprie competenze. Curiosamente, questi ultimi, sono osannati dalla critica non teatrale. 
C’è forse nell’etichettare o concedere titoli un problema con la oggettività o soggettività dello scrivere? Bisogna forse presumere che lo studioso agisca, o tenti di agire, in un “regime di oggettività”, che la sua azione sia scientifica? Questo è innegabile, ma mi chiedo, ricordando anche ciò che ieri ci siamo detti sulle parole e sulla verità (e di conseguenza sulla oggettività): quando si elaborano i propri pensieri, quando si mettono le parole sulla carta, quanto si può credere di essere oggettivi? Se uno stesso accadimento storico messo in mano a due diversi studiosi ha due diverse interpretazioni, quanto l’oggettività è possibile? Eppure si tratta di un fatto, magari vicino a noi e di cui abbiamo ancora testimoni oculari, tipo la dittatura fascista, o la stagione del terrorismo.
Dunque, cosa sottintende (o cosa nasconde) questo distinguere ed etichettare? A mio parere, una paura, e non una paura del futuro, ma di perdere il passato.
Tutto questo discorso mi accorgo può avere una venatura di autoreferenzialità… è vero. Ma non sono Borges, e francamente non so nemmeno se vorrei esserlo. Probabilmente no. Non sono certamente né un poeta né uno scrittore. E allora? Credo di essere solo un appassionato, ve l’ho detto, che offre le sue riflessioni, certamente più sbagliate che giuste, e che spera di contagiare qualcuno con la sua stessa malattia: l’amore per i libri, l’amore per la poesia, l’amore per la bellezza. Per far questo uso le mie “armi”… e accetto il rischio del giudizio. Me lo ha insegnato il Teatro: tutte le volte che ti esponi al pubblico devi essere pronto ad accettare il giudizio, positivo o negativo che sia. E tra le altre cose, credo che l’amore sia rischio, un rischio che sempre meno persone sono disposte a vivere: “Esistono tre continenti perduti – scrive il mio caro Tom Robbins in “Natura morta con picchio” – …Uno siamo noi: gli amanti”. Può darsi abbia ragione chi mi giudicherà pretenzioso e autoreferenziale, ma non so che farci. Accetto il rischio, e ringrazio comunque il pubblico…
Parentesi: Gatto ha fascino? Da vendere!
Terza risposta, in una domanda: si può pensare che Dante abbia scritto cento canti, inventando praticamente una lingua, solo per amore di una donna?
Controdomanda: e perché no? È troppo squallido, misero, meschino, da portinaie (come si sarebbe detto una volta)? Fateci caso: l’amore, in uno scrittore, uomo, è essenzialmente una donna o una figura femminile, per cui ricordiamo le Beatrici o le Fiammette o le Ada o le Daisy o le Dora Markus; in una scrittrice, donna, è fondamentalmente il vivere l’amore. Ricordate qualche Jack, o Alberto, o che so io? I nomi degli “amorosi” che ricordate, attenzione, sono generalmente in testi scritti da uomini.
Dunque, il problema dell’amore, in arte, presumo debba avere tutt’altre connotazioni.
Ancora qualche altro rapido esempio.
Ricordo di avere ascoltato, una volta, alla radio, un signor professore, il quale disquisì per circa quaranta minuti su “La casa dei doganieri” di Montale. Parlò di tutto, anche del di più: dolore, sofferenza, vita, morte, miracoli, universo, ansia, attesa... Non gli sentii mai dire che la poesia parlava di una donna e di un amore lontano e forse perduto per sempre.
Attendo ancora qualcuno che a chiare lettere mi dica (colpa mia, avrò letto poco) che “Il barone rampante” di Calvino è, tra le molteplici altre splendide cose, lo struggente e tenero racconto di un amore impossibile:
“L’amore riprendeva con una furia pari a quella del litigio. Era difatti la stessa cosa, ma Cosimo non ne capiva niente.
- Perché mi fai soffrire?
- Perché ti amo.
Ora era lui ad arrabbiarsi: - No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Chi ama vuole solo l’amore, anche a costo del dolore.
- Mi fai soffrire apposta, allora.
- Sì, per vedere se mi ami.
La filosofia del Barone si rifiutava di andare oltre: – Il dolore è uno stato negativo dell’anima.
- L’amore è tutto.
- Il dolore va sempre combattuto.
- L’amore non si rifiuta a nulla.
- Certe cose non le ammetterò mai.
- Sì che le ammetti, perché mi ami e soffri.” 





Una volta ho seguito una lunga intervista concessa da Calvino alla televisione francese. Raccontava che l’ipotesi iniziale era quella di lasciare il Barone sugli alberi fino a quando tutti gli abitanti della terra non vi fossero saliti anche loro. A quel punto, Cosimo sarebbe sceso. La storia, invece, diceva con un sorriso di infinita tenerezza, lo aveva portato completamente da un’altra parte. Da quale altra parte? Cosa, quasi inconsapevolmente, gli ha fatto cambiare rotta? Forse, il Barone resta per tutta la vita sugli alberi solo per avere, chissà quanto coscientemente, accettato la giovanile sfida amorosa che lei ad un dato momento gli lancia.
Che dire? Esistono i misteri della fede, quelli della scienza, quelli della letteratura… evidentemente esistono anche quelli della critica. Forse c’è un po’ troppo Leopardi in giro, un po’ troppo pessimismo cosmico.
Ma questo problema dell’amore, della figura femminile, resta, e la critica non può evitarlo. Così della donna troviamo decine di definizioni, da angelicata a salvifica, da materna a ispiratrice (ovviamente “musa”), peccaminosa o guida o dannatrice o rivelatrice o… basta! Ogni buon poeta che si rispetti si ritrova la sua definizione della donna.
Quale sia quella attribuita dalla critica ufficiale alla figura femminile di Gatto, o, come lo studioso più correttamente direbbe, in Gatto, francamente non lo so, e confesso che non m’importa saperlo.
Sarà proprio necessario distinguere, come si fa, tra la figura materna, per la quale il poeta scrive versi a volte strazianti (“Fu in un giorno d’autunno che l’amore/ mi disse a lungo che la lunga sera/ del parlare tacendo era venuta/ a zittire sugli alberi, la muta/ eternità specchiava la peschiera/ annerita dai boschi, nel chiarore/ - visibile per sempre - la tua gota/ struggente, il segno della casa vuota.), e le figure femminili filiali, o tra le donne amate, magari amate occasionalmente?
Non credo. Credo invece che l’importante sia, per noi “lettori felici” (come dice Borges), ritrovare il senso dell’amore nelle parole che il poeta ci lascia, sentire il nostro palpito in quelle parole, sentire, nel sentimento più comune e manipolato del nostro quotidiano, il riflesso delle nostre emozioni. La poesia d’amore, paradossalmente, come il romanzo che tratta d’amore, serve più a chi legge che non a chi scrive (sic!). Chi scrive, rende un sentimento esterno a sé, forse se ne libera, o lo guarda, finalmente, nella sua amplificata bellezza (anche dolorosa), la scrittura si presta come atto di purificazione.
Ma per i “lettori felici”, quelle parole sono passioni vive, forse in quello stesso momento vissute. Siamo per un attimo pratici, piccoli, quotidiani, diretti, anche miseri, se volete: chi di noi, dotato di un minimo, ma un minimo di frequentazione con la letteratura, al momento dei primi, dolci turbamenti amorosi, non ha utilizzato qualche verso, qualche parola d’amore letta in un libro, ascoltata in un film o in una canzone, per fare di sé innamorare qualcuno o per confortarsi in un abbandono?
Dunque credo che se lo si vuole inquadrare, il problema va affrontato esclusivamente dal punto di chi scrive. E qui, la questione assume tutti altri contorni, decisamente più profondi (e in un certo qual senso anche inquietanti). La domanda da porci è: cosa rappresenta la donna, o meglio, l’idea del femminile che il poeta si porta dentro? Questa idea del femminile è un simbolo, e se lo è, quale valore ha?
Penso che una interessante risposta ce la fornisca Erich Neumann, psicologo, allievo di Jung, che ha focalizzato gran parte dei suoi studi e della sua attenzione proprio sul “femminile”.
In “Amore e Psiche – una interpretazione nella psicologia del profondo” scrive:
1 - “… nella favola gli avvenimenti sono determinati dall’attività del partner femminile, cioè da Psiche. Le metamorfosi di Eros, Eros come drago, Eros come mostro e marito, Eros dormiente e infine Eros dio che salva Psiche e la desta all’esistenza più alta: tutti questi stadi non sono raggiunti dall’attività dello stesso Eros, ma attraverso le imprese e le sofferenze di Psiche. È sempre lei quella che intraprende, soffre, realizza e porta a compimento, e in fondo anche la manifestazione del divino, di Eros, è determinata dall’attività amorosa e conoscitiva della parte femminile, dell’umana Psiche.”;
2 - “Nell’Eros della favola di Psiche come nel Lucio dell’iniziazione a Iside il corso degli eventi non deriva dall’attività dell’Io maschile ma dall’iniziativa del femminile. In entrambi i casi l’andamento delle cose, nel bene e nel male, viene indirizzato da questo principio femminile sinanche in opposizione a un Io maschile riluttante e passivo. Tali sviluppi, però, in cui la ‘spontaneità della psiche’ e la sua vitale capacità direttiva decidono in modo determinante della vita del maschile, ci sono noti dalla psicologia dell’uomo creativo come dalla psicologia del processo di individuazione . In tutti questi processi in cui ‘Psiche guida’ e il maschile segue, l’Io depone il proprio ruolo di guida ed è guidato dalla totalità. Negli sviluppi psichici che risultano incentrati sul non-Io, sul Sé, siamo in presenza nello stesso tempo di processi creativi e di processi di individuazione.” ;
3 – “Non è soltanto Psiche a percorrere un percorso di trasformazione; il suo destino è indissolubilmente intrecciato a quello di Eros. Ma questo rende il mito di Psiche un mito della relazione tra uomo e donna. (2);
4 - “Lo scopo del mistero è “procreare e partorire nel bello”, è partorire “un misterioso fanciullo che rende pregni della sua presenza tanto il corpo quanto l’anima”, una gravidanza che testimonia la presenza e l’attività di Eros.”;
5 – “Ma oltre a ciò, l’esperienza d’iniziazione religiosa diventò per Apuleio un’esperienza personale perché egli era uno di quegli uomini creativi che, come il femminile, devono partorire, e perché era uno di quelli che “Psiche guida”.”
Nelle mie letture, sempre da “lettore felice”, mi è capitato di incontrare almeno tre chiarissime riscritture della favola in questione, e tutte lontanissime tra loro nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella forma. Sono certo che ne esistono decine d’altre, poiché spesso mi capita di sentire vibrare le immagini di questo mito sotto storie che ad esso non si richiamano così chiaramente come in quei tre casi,  che sono: “La locandiera” di Carlo Goldoni, “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, “Natura morta con picchio” di Tom Robbins. Questo terzo, poi, nell’opera di “ricalco” è simpaticamente clamoroso. Ma il discorso sul mito di Amore e Psiche, sia pure molto affascinante, ci porterebbe lontano. Sarà per un’altra volta. Invito solo ad osservare che le due comiche della Locandiera si accostano alle due sorelle di Psiche, che Eros, “il vendicatore”, ha arco e frecce così come Bube ha la sua pistola e Picchio le sue bombe, che Bube e Picchio finiscono in galera così come Eros è segregato dalla madre Venere, e da ultimo che l’ombra del padre di Mirandolina sa tanto dell’oracolo che porterà Psiche alle nozze. Ma questi sono solo primi e superficiali paralleli, lasciamo stare.
Quello che penso è che le più belle poesie di Eugenio Montale sono poesie d’amore. Pensate per esempio a “Dora Markus” o alle composizioni di “Xenia”. E sarà curioso notare, se vi capiterà, che nel momento in cui Montale rimane solo per la morte della moglie Drusilla, la sua poesia cambia. Vi risparmio le disquisizioni della critica su questo cambiamento, ma evidentemente un nesso tra la scomparsa della donna ultima e più a lungo amata e questo “scarto” poetico ci deve essere.
In Gatto, questo, per esempio, non accade. Non è un merito maggiore di Gatto rispetto a Montale. Semplicemente Alfonso ha trovato sempre nuovi amori, ed intensi, fino al suo ultimo e tragico momento. Ciò che è curioso è quel suo indugiare sulle donne come forma della vita, come spazio da esplorare, da guardare muoversi, anche da lontano:

Ho visto la ragazza che può dire
d’essere il mondo.
(…)

Si ha la sensazione che egli ci additi un vero e proprio universo esterno da cui trarre continuamente linfa vitale. Posso dirvi, in coscienza, che le sue poesie d’amore, o dedicate, o che parlano di donne, sono assolutamente splendide, senza ombra di dubbio. Rimandano una tensione emotiva, un senso profondo del desiderio, e soprattutto una gioia che raramente ho incontrato. Nella maggior parte dei casi, infatti, i poeti (gli artisti in generale) tendono a cantare una malinconia dell’amore, il distacco, la lontananza. Sono più rari i casi in cui assistiamo alla “gioia della presenza”, in Saba, ad esempio, o in Aleixandre. Va comunque detto che anche nel “gioco dell’assenza” ci sono versi o attacchi che ci riempiono il cuore sempre, forse perché l’amore è tempo presente, sempre. Pensate a quello più meravigliosamente semplice e noto di Montale: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”. La mia preferita in Montale è “La frangia dei capelli…”:

“La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con  la mano non devi. Anch’essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto
del sonno la cortina che gl’indulti
tuoi distendono, l’ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s’ora
d’aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d’un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.” 





Bella, vero? Spero che leggerla non sia stato solo un mio personale piacere.
Tornando a Gatto. C’è in Gatto che guarda le donne una pienezza di vita, quasi il valore di un “ringraziamento” per la sola loro esistenza, che sia la madre o l’amante (parola splendida che soltanto il conformismo ottocentesco-borghese ha riempito di turpi significati. Amante: colei/colui da cui si è amati. Conoscete qualcosa di meglio?), un senso del “ringraziamento”, dicevo, che ci porta a pensare che esse donne non siano solo il veicolo dell’amore, ma un vero e proprio mezzo per la conoscenza.
Chi ha un minimo di frequentazione con la psicologia, sa che ognuno di noi è come fatto di due parti, indicate una come maschile l’altra come femminile. La parte maschile, generalmente situata, o meglio identificata con il lato destro (a meno che non siate mancini), è la sede della forza, del senso del dovere, della responsabilità…
Quella femminile, generalmente identificata a sinistra, è la sede della fantasia, della creatività, dell’immaginazione, dell’introspezione…
Si ritiene che una persona, un soggetto sia ben formato, sia cresciuto bene insomma, se le sue due parti sono in buon equilibrio. Dunque, “il femminile” non è solo della donna ma di ciascuno di noi, così come “il maschile”. E questa cosa è talmente precisa da divenire applicabile anche alla nostra società, alla nostra storia, cultura, al “collettivo” come lo chiama Neumann. Tanti, tanti dei nostri disastri derivano dal mancato equilibrio tra questi due elementi. Il mondo è stato per troppo, lungo tempo “maschile-patriarcale”, ed il “femminile”, che non sono solo le donne, lo ribadisco, ha fatto fin troppa fatica a venire fuori. E da che mondo è mondo, il “maschile-patriarcale” è stato portatore di dissidi e guerre. Forse non è un caso che dopo due guerre mondiali sia esploso il ’68, e che una delle sue frasi simbolo fu “l’immaginazione al potere”.
Come al solito sto un po’ divagando, ma non credo che queste osservazioni siano non-pertinenti, e visto che siamo tornati su Erich Neumann, stando alla sua lettura della favola di Amore e Psiche, possiamo ipotizzare che la donna, in questo nostro discorso su Gatto e sulla poesia,  non ha in realtà un valore in sé, in quanto elemento esterno, ma quell’elemento esterno è il riflesso di qualcosa che il poeta si porta dentro. È l’immagine riflessa di quel femminile che si muove dentro di lui, dentro ognuno di noi in realtà, e che lo spinge, come scrive Neumann, a partorire.
Non so se riesco e spiegarmi… Beatrice, non è Beatrice, ma il “femminile” di Dante, che lo conduce, lo guida verso il bello e a partorire il bello. Guardate che non è una idea solo mia, o di Neumann. Auerbach, nei suoi saggi su Dante lo scrive a chiare lettere. “Per la nostra indagine è indifferente sapere chi era Beatrice, e se essa sia vissuta davvero; la Beatrice della Vita Nova e della Commedia è una creazione di Dante e non ha quasi a che fare con una giovane di Firenze che più tardi sposò Simone de’ Bardi. E se essa d’altro canto è niente di più di una allegoria di mistica sapienza, resta in lei tanta realtà e personalità che si ha il diritto di considerarla una figura umana, che possano o no quei dati di fatto reali riferirsi a una persona determinata. (…) non si capisce perché si debba riconoscere maggior forza di ispirazione a un’esperienza erotica che può succedere a ogni uomo, che non a un’illuminazione mistica che è capace di conservare l’evidenza delle cose; come se la mimesis poetica dovesse essere una copia di cose determinate, e non fosse piuttosto autorizzata a fondere a suo piacimento il suo materiale di realtà, tratto dall’infinito numero delle cose di cui la memoria dispone.” Auerbach, Erich Auerbach, a me evidentemente stanno simpatici quelli che si chiamano Erich…
Giunto alla maturità, Gatto pare intuire questo meraviglioso “tranello” della creazione poetica. Ed ecco che in “Desinenze”, sua ultima fatica (purtroppo!), spunta una curiosa, piccola poesia, “L’anca gloriosa”:

È la mia donna o la donna
questa che seguo all’incedere
del passo fermato
a reggerle l’anca gloriosa?
È mio l’orgoglio d’averla nell’onda
della mattina o la noia
di dirmi ch’è sposa,
sposa del vento che mai la tocca
incredibile e sciocca?

L’anca gloriosa mi fa pensare subito a Petrarca, alle “Chiare fresche e dolci acque (per favore, è un settenario, non fate come troppi l’errore di staccare dolci_acque: c’è sinalefe! Attaccate, cioè, la vocale finale della parola con quella iniziale della parola successiva!) / ove le belle membra/ pose colei che sola a me par donna;/ gentil ramo ove piacque, (vi torna, ora, la rima?)/ con sospir mi rimembra,/ a lei di fare al bel fianco colonna (…)”. E forse viaggiando da quella tra le prime donne della poesia italiana fino alla sua, Gatto trova giusto chiedersi se quella sia la sua donna o la donna. Ed è suo l’orgoglio di averla nel flusso dei pensieri freschi del mattino o la noia di vederla stabile, stabile (e immutabile?) nel vento che non la tocca mai? Essa è al contempo incredibile e sciocca: tutto e nulla.
Nella maturità, al termine di quella esplorazione necessaria dell’altra parte di sé, del suo “avversario”, Gatto intuisce che c’è qualcosa di misterioso in quello splendido gioco tra i sessi, ma quel qualcosa riguarda, ancora una volta, la sua interiorità e non l’altro essere, sia pure amato e rispettato.
In un piccolo saggio pubblicato da “Il catalogo”, intitolato non a caso “Universo che mi spazia e m’isola”, Piero Bigongiari scrive:
“(…) questa aedicità del canto gattiano, pronto ad accendersi in profondo dei suoi nonnulla vitali, in quanto, esigendo questo ascolto, esige il cerchio dei felici viventi, esige i suoi Feaci. Ma è piuttosto il canto di Telemaco che quello di Ulisse, piuttosto il canto del figlio, del “bambino festoso”, in cerca del padre, e delle notizie del padre presso Nestore, a Pilo, che quello del padre in viaggio verso l’ “isola” natale. Gatto in definitiva mira a lasciare l’ “isola”, cioè il proprio io, in cui, sì, l’universo della poesia lo spazia ma, anche, lo chiude; e la lascia proprio nelle intermittenze dell’avventura che lo sospinge al canto (“mi spazia”) ma di cui il canto è anche il commento e il significato (“m’isola”). È Penelope, s’è detto, la madre, la sua morte: ed è lì che il significante raggiunge il significato primo. “Il paese cantato sui carri” il “morto ai paesi”, “il bambino festoso” ma anche “violento”, se lo porta dietro partendo alla ricerca del padre, ma la ricerca del padre finisce per risolversi nell’altro corno del problema edipico: quello della conquista retrorsa della madre abbandonata, che si riverbera in avanti come il dato stesso della morte nascita: che è il dato quotidiano del proprio uso della parola, quello del linguaggio del canto, quello infine stesso del canto e della finalità, cioè il significato, del canto”.
Ecco. Ci avete capito qualcosa? Confesso che ho dovuto leggerlo tre volte prima di farmi un’idea di cosa vuol dire (e non so nemmeno se sia quella giusta). E a me piace occuparmi di queste cose, figuriamoci un lettore comune, distratto o che cerchi di essere invogliato, che voglia essere guidato su  un percorso di conoscenza. Questo pezzo di Bigongiari è splendido, ma sembra indirizzato al solo circolo degli studiosi. Insomma… scusate: pare che se la suonino e se la cantino tra di loro; e questo – mi spiace dirlo – chiudere le porte anziché aprirle, mi dà sempre il senso di una volontà che vuole in qualche modo conservare un potere, di un consorzio, una casta si direbbe oggi, che protegge i suoi vecchi adepti e filtra con maglie strettissime i nuovi. Il discorso di Bigongiari è alto, altissimo, credetemi, ma possibile che non si possa farlo più semplice? E semplice, lo ripeterò fino alla morte, non è facile. Semplice è un risultato, il risultato di una lunga elaborazione e di una sintesi, semplice è tendere e forse arrivare all’essenza. Facile no: facile è la superficialità, superficialità che, certo, a volte al genere umano è necessaria, serve a volte, ne siamo tutti consapevoli, alleggerire, andare “easy” come direbbero gli anglosassoni.
Questa è una cosa che, per esempio, proprio gli attori conoscono molto bene: arrivare alla semplicità è un “dono” che si conquista (perdonate il paradosso, quasi l’ossimoro), in genere una scoperta della maturità. La semplicità in Eduardo (De Filippo), tanto per dirne uno, è un punto di arrivo della maturità. Eh, disgraziati quegli attori che pensano di poter partire semplici, non fanno altro che ricalcare modelli, stilemi che non appartengono ancora alla loro interiorità. E il guaio è che non possono accorgersene, perché altro elemento che entra in gioco nella semplicità è la presa di coscienza, la consapevolezza, e non si può partire “consapevoli”.
Scusate la digressione personale-attoriale, anche incompleta. Torniamo al nostro discorso.
Era auspicabile, in Bigongiari, la semplicità (Borges, a mio parere, è semplice, infatti non finite mai di scavarci dentro anche quando a prima lettura vi pare di avere capito tutto, o quel poco Croce che ho letto è semplice, o Calvino, la Ginzburg, o Foster Wallace…), ma la semplicità richiede fatica, molta fatica, fatica e ricerca, richiede un “allontanarsi dai propri pensieri”, un rimetterli in discussione, chiede la ricerca di una forma lontana da ciò che già sappiamo, un andare fuori dalle strade battute su cui abitualmente camminiamo. Richiede un superamento.
“Se riesci a scrivere con parole da un dollaro fai una grande cosa, ma se riesci a scrivere con parole da pochi cent fai un cosa ancora più grande” più o meno, cito a memoria - pessima memoria - una frase di Hemingway.
Ma insomma cose vorrebbe dire Bigongiari? Che innanzi tutto, quello di Gatto non è il viaggio di Ulisse che torna a casa, ma quello del figlio Telemaco che parte alla ricerca del padre (lessi, per dovere universitario “Le avventure di Telemaco” di de Fénelon: una delle cose più noiose che abbia letto in vita mia, non ve lo consiglio). Ed essendo il viaggio del figlio (l’intuizione e l’accostamento con Telemaco sono splendidi) Gatto non cerca l’isola, ma vuole lasciarla, cioè vorrebbe lasciare il proprio “io”, quell’ “io” dell’universo della poesia che lo spazia, ma anche lo isola, cioè lo chiude. E in questo viaggio alla ricerca del padre, egli in realtà, irrimediabilmente, si porta/lascia dietro la madre, ed il viaggio lo condurrà proprio a ritrovare la madre, elemento che dà la nascita, ma in conseguenza anche la morte. Chi non nasce non può morire, per capirci.
Dunque, tutta la questione si risolve in una sorta di ricongiungimento, non di Gatto con la madre, ma dei due elementi, maschile e femminile che sono in lui (come in ognuno di noi). Quindi – lo dicevamo prima – al compimento della sua figura, al diventare insomma adulto, un essere compiuto nella sua interezza, nell’equilibrata unione di maschile e femminile. La madre, abbandonata, lasciata cioè dietro, brilla, “si riverbera”, riluce davanti a lui come approdo finale, come un faro, come simbolo della nascita- morte. Nascita-morte che sono la totalità di tutto il percorso: tendo a questo dubbio intero, ricordate? E questa ricerca della totalità, questa vita-morte è il dato fondante, secondo lo studioso, il valore profondo del suo canto, è il valore del suo stesso canto: arrivare in fondo per comprendere che ciò che conta è il cantare stesso, non alcune specifiche cose che si cantano, perché la vita-morte è fatta di tutte le cose.
È un po’ il discorso che facevo sui “temi” di Gatto. Ce ne sono talmente tanti che… quali sono? Tutti e nessuno, in realtà. Egli offre il proprio corpo alla poesia e si lascia suonare, si lascia cantare. Il ciclismo non è diverso dall’amore, un processo non è diverso dalla morte del fratello, il carcere non è diverso dai giochi dei bambini: il canto dell’anima è necessario in se stesso.
Attention s’il vous plaît: quando diciamo “diventare adulto” non ci riferiamo all’uomo, ma al poeta, o meglio alla sua poesia (come potremmo esaminare l’uomo, e anche potessimo con quale diritto!);  è come se fosse lei a compiere questo percorso, lei in lui.
Uff! S’è fatta più fatica a spiegare il critico che il poeta. Io - ci tengo a dirlo - non ho semplificato Bigongiari, forse l’ho “incartato” ancora di più. Ma non toccava a me cercare la semplicità, toccava a lui: sua è l’idea, sua l’esposizione, suo il problema.
Alla fine di questo minimo discorso sul femminile, nel quale spero di essermi “sgrovigliato” (credo sia veramente molto complesso, ad oggi tutti i parametri non mi sono chiari e mi domando quando lo saranno – in realtà spero mai, altrimenti che faccio per il resto dei miei giorni?!), alla fine di questo discorso, dicevo, voglio darvi un piccolo e secondo me divertente consiglio pratico:

*
Sorriderti forse è morire,
porgere la parola
a quella terra leggera
alla conchiglia in rumore
al cielo della sera,
ad ogni cosa che è sola
e s’ama col proprio cuore

*
Come la donna è calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è largo il mare.

Come la donna e calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è caldo il pane.
(…)

*
I tuoi occhi son come la giovinezza
grandi, perduti, lasciano il mondo.
(…)
Tu sei l’amore da portare in braccio
di corsa sino al vento sino al mare,
(…)

*
Forse mi lascerà del tuo bel volto
amore un soffio e la celesta sera
disparirà come un silenzio intorno.
(…)

*
Non ha parole chi rivolge agli occhi
la sua domanda e trova nello sguardo
gli occhi a conferma d’essere l’amore.
(…)

*
Resta con me la notte, com’è lunga
e non basta l’amore a darle un senso.
All’alba viene sconsolato il freddo
che non perdona, (…)
Chi resiste allo sgarbo ci vuol bene,
veglia la calma, il sonno può venire.


Ecco, ho sfogliato e letto quasi a caso. Sono solo alcuni esempi di quello che potete trovare in Gatto. E il consiglio è: imparate a memoria qualcuno di questi versi, vedrete che non vi mancherà occasione di utilizzarli e scoprirete che sono una meravigliosa arma di seduzione, reciprocamente, per entrambi i sessi, anche dalle ragazze sui ragazzi, perché no?!, chi ce lo impedisce?, le convenzioni sociali, i modelli consolidati, le abitudini? Ribaltiamole queste convenzioni, proviamoci almeno (personalmente, sogno di incontrare una donna che almeno una volta nella vita mi mandi dei fiori): siamo giovani per provare a scardinare i modelli riconosciuti e convenzionali, siamo giovani per tentare altre strade, e nessuno potrà nemmeno impedirci, un giorno, di dire e dirci: vabbene, ho sbagliato, torno indietro. E magari ricominciare. Le cose importanti io credo siano l’onestà, onestà con se stessi, e sopra tutto (sopra tutto, staccato!, voluta-mente e decisa-mente) il non aver paura, non avere mai paura dell’amore, non avere mai paura di vivere l’amore, di rischiare con l’amore, qualsiasi cosa possa accadere. E credo che anche in questo Gatto ci sia d’esempio, che ce lo indichi con la sua esperienza e la sua poesia.
Il mio amato Tom Robbins in Cowgirl scrive:
“Sfortunatamente mie care bambine, non esiste quella che voi chiamate una semplice storia d’amore. La più passeggera delle cotte è complessa al punto da essere oltre la portata del cervello. (Il cervello ha la pericolosa abitudine di pasticciare con cose che non può e non vuole comprendere.)
Il vostro autore ha trovato che l’amore è la quintessenza del viaggio, emotivamente parlando; il grand tour: prova a innamorarti, e visiterai il paradiso e l’inferno al prezzo di uno. E con questo non abbiamo detto ancora niente. Se il realismo può essere definito come una delle cinquantasette varietà di decorazione, allora come possiamo sperare in una valutazione realistica dell’amore?” 

Ah, i professoroni rabbrividiranno, strepiteranno, diranno che mettiamo i versi di un grande poeta alla stessa stregua delle canzonette. E che ci importa?! A parte il fatto che un grande poeta, quale Gatto è, resta sempre un grande poeta, sempre, non sarà meglio conoscerla un po’ di poesia invece che restarne lontani così come il tedio pseudo-scolastico ci ha generalmente indotto a fare? E non sarà meglio utilizzarla, la poesia, per renderla strumento d’amore, piuttosto che di potere?
Ne sono certo: i prof. ci insulterebbero, Gatto sorriderebbe e ci direbbe: “Ma sì, è comunque meglio”.
E mi assumo questa responsabilità!

Però! Oggi non abbiamo fatto nemmeno un pausa. Siamo andati dritti come treni e il discorso si è rivelato più complicato di quanto credevo. Come sempre.
E allora, da ultimo, ultimissimo, lasciate che vi faccia due piccole letture; solo qualche minuto ancora di pazienza.
La prima è la poesia d’amore di Gatto che preferisco. S’intitola “Potrebbero dirti morta”, e non vi nascondo che mi ricorda una persona. Aveva (/ha) occhi scuri, grandi, immensi, profondi, carichi di tutta la luce del mondo, il cuore del mondo.

I tuoi occhi son come la giovinezza
grandi, perduti, lasciano il mondo.
Potrebbero dirti morta senza rumore
e incamminare su te il cielo,
passo a passo, seguendo l’alba.
Tu sei l’amore da portare in braccio
di corsa sino al vento, sino al mare,
e dirti fredda da scaldare al fuoco
e dirti triste coi capelli neri
da pettinare eternamente, è come
deporti nel silenzio, starti accanto
udendo l’acqua battere alle rive.

E poi, il mio amato Tom Robbins, da quello che io considero non solo il suo capolavoro, ma uno dei più grandi romanzi del ‘900, “Natura morta con picchio”:

“Quando se ne va il mistero nel rapporto a due, se ne va l’amore. Semplice, no? Il che spinge a pensare che non tanto l’amore è importante per noi, quanto il mistero stesso. Il rapporto amoroso forse è solo un accorgimento per metterci in contatto con il mistero, e desideriamo che l’amore perduri affinché perduri l’estasi di stare vicini al mistero. È contrario alla natura del mistero restare fermo. Ciò non ostante è sempre lì, un mondo dall’altra parte dello specchio (o del pacchetto di Camel) una promessa nel prossimo paio d’occhi che ci sorride. Riusciamo a coglierlo fuggevolmente se stiamo fermi noi.
L’incantesimo del nuovo amore, l’incantesimo della solitudine, l’incantesimo degli oggetti, l’incantesimo delle vetuste piramidi e delle stelle lontane sono mezzi per stabilire un contatto con il mistero. Ma là dove si tratta di perpetuarlo, non ho consigli. Però posso e voglio rammentarti due dei più importanti fatti di cui sono a conoscenza:
1)   Tutto ne è parte.
2)   Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice.”

Ecco, io credo che non sia mai troppo tardi per farsi “lettori felici”.
Grazie, oggi veramente di cuore, grazie.»



(1) Cos’è il fascino? Non come qualcuno barbaramente crede una dote innata, ma la risultante di una serie di combinazioni e necessità. Per un approfondimento vi rimando alla lettura di un testo meraviglioso che credo tutti dovrebbero leggere: “La canoa di carta” di Eugenio Barba. Qui, vi lascio per ora un prezioso insegnamento di Anna Maria Giromella, insegnante di dizione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” in Roma: “Il fascino è concentrazione”. Sintetico, ma vi assicuro che c’entra come il sole in una giornata al mare, almeno per gli attori.
(2) Chiedo perdono, ma questo mi fa venire in mente una spiritosa frase scritta su uno di quei gadget con la calamita che una mia amica tiene appiccicato sul frigorifero: “visto che ho un corpo, ho bisogno di una corpa!” …Sorry!

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