Ieri mattina sono stato alla conferenza stampa di presentazione
dell’apertura della stagione lirica del Teatro Regio di Torino, il sipario
2015/16 si alzerà il 14 ottobre su “Aida” di Giuseppe Verdi.
Erano presenti il sovrintendente Vergnano, il direttore artistico
Fournier Facio, il direttore d’orchestra nonché direttore musicale del teatro,
il bravissimo Noseda, il regista americano William Friedkin , il sindaco
Fassino, e un rappresentante del gruppo Intesa-San Paolo, che sostiene
l’attività della Fondazione Teatro Regio, e del quale, mi spiace, non ricordo
il nome, né essendo lì in veste di cronista ma di semplice spettatore, mi sono
preso cura di segnarmelo: mea culpa!
È stata una conferenza interessante con spunti anche divertenti.
Molto simpatico il regista americano, premio oscar per “Il braccio violento
della legge” e regista de “L’esorcista”, il che confermerebbe, per
contrappasso, la tesi secondo cui un grande attore comico è, lontano dalle
scene, persona serissima.
Non è un resoconto della conferenza che voglio proporvi, quello lo
trovate sui quotidiani di oggi, ma la riflessione che ne ho tratto.
Nel suo discorso, “l’uomo di Intesa-San Paolo” - e mi scuso ancora
per non averne appuntato il nome - inquadrava l’attività del Regio nella
trasformazione che sta attraversando e attuando la città di Torino, la quale da
polo industriale “sta divenendo lentamente” (parole sue) polo culturale,
trovando quindi attraverso la cultura un nuovo elemento di traino economico.
Mi sono subito chiesto – e avrei voluto chiedere, ma non ce n’era
possibilità – per quale motivo un polo industriale non potesse essere anche polo
culturale, ed oggi un polo culturale non può essere anche polo industriale?
Dal discorso del cortesissimo signore si deduceva che i due elementi
è come se fossero stati, e siano ancora, in contrapposizione.
La leggenda vuole che Torino fosse una città molto viva, ricca di
locali notturni, non a caso personaggi come Fred Buscaglione qui fecero la loro
gavetta; poi, sempre leggenda vuole, il mitico ragionier Valletta, che fu a
capo della FIAT nel periodo di transizione tra Giovanni Agnelli nonno e
Giovanni Agnelli nipote-avvocato, intimò di dare una bella calmata ai
divertimenti serali perché i suoi operai la sera dovevano andare a letto
presto, altrimenti ne avrebbe risentito la loro resa.
Se con la fine della vita notturna si sia spenta anche la vita
culturale, è sempre tutto da dimostrare, ma la contrapposizione raccontata dal
rappresentante della Fondazione Intesa-San Paolo, faceva tornare alla mente
quei racconti metropolitani.
Ciò che resta sicuro è la narrazione di un contrasto a mio parere
inspiegabile, da cui, però, altra domanda è sorta: se si pensa di sostituire,
come si sta facendo, al traino economico dell’industria quello della cultura,
deve evidentemente voler dire che la cultura non è considerata un valore in sé,
da preservare, perpetuare, proteggere e sostenere sempre e indipendentemente da
tutto, ma solo un elemento da usare con secondo fine? Cosa mi deve far pensare,
quel discorso, che se l’industria non avesse piegato le ginocchia, una città
importante come Torino, e come essa magari tante altre, avrebbe continuato a
considerare la cultura non prioritaria? Devo in qualche modo pensare che per
veder sopravvivere... gli attori devo veder soccombere gli operai?
E infine: quando un giorno la cultura non tirerà più la carretta
economica, cosa si farà, la si metterà da parte, la si lascerà cadere nel
dimenticatoio o la si abbandonerà al suo destino, magari sostituendola con un
altro traino economico, per esempio lo sport?
Non posso nascondere che questo modo di concepire la Cultura mi
lascia perplesso, non mi convince. Non voglio pensare che preserveremo i templi
di Agrigento solo fin quando ci saranno turisti che andranno a visitarli,
sarebbe come dire che ad un certo punto non preserveremo più l’uomo nella sua
interezza. E forse, anche se non ce ne accorgiamo, lo stiamo già facendo...
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