Questo è quello che il nostro amico e mentore Alberto
Bagnai definirebbe un “post tecnico”. Non penso sia particolarmente complicato
e tutti potranno seguirlo.
Domani, nella ormai favolosa Montesilvano, comincia il
dodicesimo convegno - che non c'è - dell’ Associazione - che non c'è - a/simmetrie, dal titolo “Euro, Mercati,Democrazia 2023 / Non è come sembra”, meglio noto alla community che non c'è come #goofy12.
Ancora una volta non avrò la possibilità di esserci (poiché mia condizione naturale è il non essere). In
bocca al lupo a tutti i partecipanti che non ci saranno, vi seguiremo in streaming come sempre, e intanto, tra l’addormentarvi di stanotte e il caffè di domattina, potrete forse
riflettere sulle poche note politiche che non ci sono in questo post, perché in teatro
c’è sempre qualcosa di politico che volenti o nolenti attraversa la scena. Così
è (anche se non ci pare)
Nessuno deve considerare il controllo come una gabbia, una
costrizione, una ingessatura. Il controllo è una necessità espressiva di cui
l’attore non può fare a meno.
Eugenio Barba creò nel suo centro di studi teatrale, l’Odin teatret, a
Holstebro, in
Danimarca un semplicissimo esercizio: mettetevi in piedi, normalmente, in
una posizione per voi comoda, gambe leggermente divaricate, braccia lungo il
corpo, inspirate profondamente due o tre volte, quindi chiudete gli occhi; a
questo punto cercate la più totale immobilità, concentratevi sullo “stare
fermi”, ma durante l’esercizio osservate il comportamento del corpo, tutto ciò
ch’esso fa, dalla testa alla punta dei piedi; tenete questa semplice posizione
eretta ad occhi chiusi, per cinque o anche più minuti; alla fine ciascun
partecipante riferisca quanto ha osservato durante l’esercizio.
Ebbene, Barba ci dice che tutti coloro che eseguono l’esercizio
raccontano di micromovimenti che il corpo fa per tenere la posizione, per
compensare, per riequilibrare, per sostenere ora in un punto, ora in un altro. Faccio
eseguire sempre ai miei allievi questo esercizio e i risultati sono esattamente
e sempre gli stessi: micromovimenti!
Se ne deduce che la stabilità non è naturale, ma che la condizione naturale del corpo è nella instabilità, nel movimento, nella tensione verso il movimento che di volta in volta il corpo stesso tende a compensare. Se dunque vogliamo la stabilità dobbiamo cercarla e “imporla” al corpo.
Parentesi: dovremmo forse far provare questo esercizio a tutti quei politici che si lamentano per la instabilità dei governi nel nostro Paese, e che ossessivamente invocano la stabilità; la stabilità può essere temporaneamente tenuta, ma, nessuno si illuda, non per legge, solo per volontà. La stabilità dipende dagli uomini, non dalle leggi.
Facciamo un passo avanti. Quante volte vi siete sentiti
chiedere: “A che stai pensando?”, e quante volte avete risposto: “A niente”?
Eppure tutti noi sappiamo che non è vero, che qualcosa sta sempre attraversando
la nostra mente. Sappiamo anche che per pensare a una determinata cosa dobbiamo
volerlo e che comunque quel pensiero voluto può sfuggirci in qualsiasi momento.
Se dunque, anche in questo caso, vogliamo un pensiero stabile dobbiamo
“imporlo” alla nostra mente.
Terzo e ultimo passaggio. Non ce ne accorgiamo perché siamo la
nostra voce, siamo nella nostra stessa voce, siamo naturalmente nella sua
espressività, ma per comunicare un determinato concetto noi “miriamo” la voce
come una freccia mira al centro del bersaglio; pur non accorgendocene, potremmo
dire pur non sapendolo, noi decidiamo come usarla, se vogliamo mostrare rabbia,
o dolcezza, o allegria, o sarcasmo, o se abbiamo bisogno di aiuto. Se non lo
facessimo la nostra voce “scapperebbe”, se andrebbe per i fatti suoi sganciata
dai nostri bisogni espressivi. È un po’ la differenza, per fare un esempio
facile, che intercorre tra cantare in modo intonato e stonare: chi intona vuole
emettere determinati suoi, chi stona non riesce a controllare la propria
emissione. Allora, anche in questo caso se vogliamo la stabilità della
espressione vocale dobbiamo cercarla e “imporla” alla nostra voce.
Corpo, pensiero, voce sono i tre elementi che integrandosi,
e sostenendosi vicendevolmente, che consustanziando ci consentono di esprimerci
nella recitazione, e che, come abbiamo rapidamente osservato, necessitano tutti
di una nostra decisa guida. Perché il fatto che ci consentano l’espressione non
basta, è necessario che l’espressione sia corretta.
Ma cosa intendiamo per corretta? Sinteticamente, intendiamo: far sì che al
pubblico arrivi, con la maggiore precisione che ci è possibile, quello che
abbiamo dedotto dal testo, o che un regista ci sta chiedendo di far arrivare.
In altre parole, noi decidiamo che quella tale battuta significa una certa
cosa, e se vogliamo che quel che abbiamo deciso sia còlto dallo spettatore
dobbiamo indirizzare l’espressione artistica, e dunque “pilotare” il pensiero,
il corpo, la voce perché dicano esattamente quello che noi vogliamo dire.
Se a questo punto tutto il ragionamento è chiaro, sarà facile comprendere che il concetto di controllo non è per niente una gabbia, una corazza che mettiamo sulla nostra espressività, ma il veicolo attraverso la quale questa raggiunge i suoi migliori risultati. Come possiamo, però, attuare questo controllo? Sicuramente attraverso la concentrazione, nel senso più etimologico del termine, vale a dire “spingere nel centro o raccogliere nel centro; profondarsi, internarsi in chicchessia” dice lo storico Dizionario Etimologico della Lingua italiana di Ottorino Pianigiani, e per ottenere questo deve entrare in gioco la volontà. Per cui, vorrò escludere dalla mia mente tutti i pensieri che non siano quello stabilito, vorrò che la mia voce emetta un preciso suono, vorrò che il mio corpo compia un esatto movimento (o non lo compia, che è concettualmente lo stesso).
La commistione di concentrazione e volontà fa in entrare in
campo un altro fondamentale elemento, del quale ci occuperemo in un prossimo
post: l’energia.
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