(ho scritto - per me! - queste poche righe nel novembre 2007. mi pare funzionino ancora)
L’estate
scorsa mi sono lanciato in una impresa che ai più, al giorno d’oggi, apparirà folle:
leggere il Purgatorio; per essere chiari, la seconda cantica della Commedia dantesca.
Folle
perché nei nostri tempi si è un po’ persa l’abitudine di leggere poesia, e
sopra tutto di leggere poesia narrativa, come in fondo, ha ragione Borges, è
quella del Poema di Dante.
Proprio
Borges, la lettura dei suoi Saggi danteschi, mi ha spinto in questa avventura.
Nei Saggi,
il poeta argentino invita a leggere quello che definisce il “libro maximo” con
l’ingenuo abbandono di un bambino, a leggerlo dimenticando la filosofia
scolastica, le discordie tra guelfi e ghibellini o le allusioni mitologiche: “È
bene, per lo meno all’inizio – dice – attenersi al racconto”, tutto il resto
verrà dopo.
E allora
via, mi son detto, proviamo, proviamo a seguire il consiglio del grande poeta
(che forse qualcosa ci capiva). La scelta è caduta sul Purgatorio, perché nella
nostra scuola superiore - inutile negarselo - la seconda cantica è la più
bistrattata. Gli alunni, e con essi la maggior parte dei professori, sono
sistematicamente affascinati dall’Inferno, che sentono più vicino per svariate
ragioni. L’Inferno è percepito come fortemente terreno, con le sue punizioni,
la sua materialità, con i suoi racconti dolenti di scultorei protagonisti. Ci
si sente più vicini all’Inferno perché appare più vicino alla quotidianità.
Il Paradiso
è amato o non amato. C’è chi lo trova noioso, per tutte quelle sue schiere
celesti e la ripetitività della glorificazione di Dio, o per la sua poesia
“eccessivamente” trascendete.
La
trascendenza produce sostenitori o oppositori. Così per gli stessi motivi,
letti all’incontrario, ci sono gli amanti eternamente fedeli all’ultima
cantica, stroncati dalla bellezza e dalla purezza assoluta, di cui Dante tenta
(per sua ammissione, ma ci riesce benissimo) di farsi portatore.
Il
Purgatorio resta, potremmo giocare a dire, in una sorta di Limbo. I suoi
sostenitori sono talmente pochi che il loro numero, in un moderno sondaggio
d’opinione, risulterebbe irrilevante.
Gli alunni
– poiché di questi, non dei professori, fondamentalmente si parla, dei lettori
di domani – non riescono, giustamente, a collocarlo, non vi trovano la violenta
fascinazione delle bolge sataniche, né la pura sospensione delle celesti sfere.
Forse, quando nel penultimo anno di Liceo ci troviamo di fronte al mistero del
Purgatorio, siamo ancora veramente troppo giovani, non per capire, ma per
attribuirgli, nell’economia generale, un senso e una collocazione.
Anche io,
che pure ho amato La Commedia fin da
subito, devo confessare di avere sempre sorvolato sul Purgatorio. Ritenevo,
come molti, che la seconda cantica fosse la più noiosa (e, sotto sotto,
inutile), e quasi non ricordo di averne mai studiato i canti.
Poi, Borges
mi ha offerto una possibilità, indicato una via, e fidandomi di quell’uomo dolce,
ho deciso di tentare mettendo in pratica il suo consiglio.
Dunque ho
iniziato, e sono andato avanti a leggere nei luoghi più inusuali per una
lettura dantesca, dal trenino alla metropolitana, dalla toilette a sotto
l’ombrellone. Ho fatto, insomma, quello che avrei fatto con un qualsiasi
romanzo: l’ho usato per il semplice piacere della lettura e
dell’intrattenimento. Ed ho usato le note a margine solo di tanto in tanto,
quando qualche antica parola mi rimaneva oscura, e spesso procedendo anche
senza comprendere interi versi, ma fidando sul fatto che il racconto mi avrebbe
alla fine “riportato a casa”. Così è stato: Borges aveva perfettamente ragione.
E l’impressione è stata talmente soddisfacente da farmi esclamare: “Diamine,
ma… il Purgatorio… è comico!”.
Ci sono
parti di assoluta purezza poetica, splendide, commoventi, luminose: l’angelo
che porta una stella nel volto, il “dolce color d’orïental zaffiro”, il tenero
canto di Casella, i bassorilievi sulle balze sempre più strette, i prati e il
fiumicello del Paradiso terrestre, la piccola donna al di là del fiume, il
colpo al cuore che dà l’improvviso addio di Virgilio o il nome di Dante
pronunciato per la prima volta dall’amata Beatrice. L’idea, però, che il
Purgatorio sia comico, ha continuato ad abitarmi (come dicono quelli che
parlano bene).
Ultimamente
ho ripreso in mano la cantica e ho cominciato a rileggere. Inutile dire che a
seconda lettura, il fascino ed il piacere crescono, come la panna montata. Ma
dov’è la risposta a quella strana sensazione? Dopo circa un anno di pensieri
(mentirei se vi dicessi “continuati”) credo di essere arrivato ad una
accettabile conclusione.
Avanzando
sulle balze della montagna, Dante e Virgilio, vengono regolarmente in contatto
con frotte di penitenti che appena si accorgono che Dante è vivo, in carne ed
ossa, lo assalgono implorandolo di pregare per loro quando tornerà sulla terra,
così che la pena possa andare ad accorciarsi, o chiedendogli di ricordare a un
familiare di pregare: ma attenzione, dice qualcuno, non a mia moglie, a quella
fedifraga di mia moglie, ma a mia figlia che è una brava ragazza; non a mio
fratello, che mi ha tradito, ma a quella santa donna di mia madre, ecc. ecc.
Dante appare assillato da tale irruenza. D’improvviso arriva un celeste tutore dell’ordine
a “sculacciare” e rimettere tutti sul giusto cammino. La ripetitività della
situazione mostra, in fondo, una certa ironia.
L’incontro
con Stazio, poi, è al contempo splendido ed esilarante. Il poeta latino,
andando verso l’Eden, perché ormai pronto a passare in Paradiso, vede da
lontano due ombre. Felice, e sicuro, di vedere altri che godranno della sua
stessa sorte, gli corre incontro, ma arrivatogli vicino si blocca e rabbuia,
pare divenire un vecchio burbero: chi sono questo due arrivati fin lì? Chi gli
ha dato il permesso? Virgilio - che riconosce - non dovrebbe stare in
tutt’altro luogo? E quel tipo in carne ed ossa cosa ci fa lì? Ci vuole tutta la
pazienza di Virgilio per ripianare la faccenda e far sì che i tre possano
continuare serenamente il viaggio insieme.
C’è, nel
Purgatorio, una straordinaria ed evidente teatralità, nei cambi di ritmo, negli
scambi di battute improvvisi, nei colpi di scena, nelle distese meditazioni,
nel mutare della luce, nel corpo stesso dei protagonisti, anche nei silenzi,
teatralità che non si rileva, a mio parere, nelle altre cantiche, che godono,
invece, della costante ripetitività di un preciso schema narrativo:
viaggio-incontro-racconto, viaggio-incontro-racconto… rivelazione finale. Il
personaggio di Virgilio, nel Purgatorio, appare di una dolente tenerezza.
Dante-autore sembra volerci mostrare quanto il poeta latino, consapevole della
propria condizione, avvicinandosi a quella soglia per lui eternamente
invalicabile, senta crescere dentro di sé una dolorosa lacerazione. E tuttavia
Virgilio ha la fermezza dell’uomo che assolve al suo compito. Virgilio è forse
il personaggio più bello del Purgatorio.
Del
Purgatorio, inteso come luogo, sappiamo che, giunti alla fine di tutto, quando
tutte le anime saranno pronte per il Giudizio, scomparirà, si disintegrerà,
poiché non avrà più ragione di essere. Questa, ho pensato un giorno, è una
strana cosa: tutto nella Commedia - è
risaputo - si muove ed è strutturato sulla “logica del tre”; ma se tale è il
destino della montagna, alla fine (o all’inizio definitivo dell’eternità) sarà
tutto ricondotto al due, alla gloria e alla punizione, al bene e al male.
Perché? Come può Dante (autore) fare questa affermazione? Io credo che la
risposta riguardi il mondo dell’arte, l’assoluto dell’arte e la compiutezza
dell’opera in sé. “Dante – dice Borges – non si propone di stabilire la vera o
verosimile topografia dell’altro mondo”. Ecco, conta ciò che l’opera ci
racconta, non cosa sarà dopo il suo ultimo verso. La storia rientra nell’ambito
della finzione, non della Storia. Sarebbe come chiedersi cosa ne sarà del regno
di Danimarca dopo la morte di Amleto e dei suoi genitori, o dove finiranno il
Signor Ponza e la Signora Frola dopo essere stati costretti ad un confronto per
loro disumano, o se a Tara domani sarà davvero un altro giorno: sicuramente lo
sarà, ma c’interessa la frase finale non cosa accadrà in seguito, poiché nella finzione
non accadrà. La struttura è sostegno,
non fine dell’opera, e se un giorno crollerà, l’opera non ne subirà alcuna
conseguenza.
Ancora. Nel
Purgatorio, inteso come cantica, c’è un elemento che nelle altre due è assente:
il tempo. Questo elemento, così terreno e lontano dall’assoluto presente
dell’eternità, è parte fondamentale della vita delle anime che scontando anni
ed anni di penitenza, contano i giorni, le ore, i minuti che li separano dalla
beatitudine. Non è il tempo ad esistere nel Purgatorio, ma il Purgatorio ad
esistere nel tempo. Senza tempo non ci sarebbe Purgatorio.
Forse,
pensando “comico”, in realtà sbagliavo la parola, con una confusione propria
dei nostri tempi. Il Purgatorio è umano e terreno, molto più dell’Inferno; e in
quanto umano e terreno è definibile, tra gli altri, con un termine che non può
appartenere al Paradiso o all’Inferno: grottesco.
Jan Kott
dice che “il grottesco è l’impossibilità di compiere la tragedia, in un mondo
tragico”. La tragedia abita l’Inferno, la sua assenza, diciamo la beatidune,
abita il Paradiso. Ma nel Purgatorio (mi pare evidente, ora) non c’è la
dannazione eterna, né il senso antico del lavaggio delle colpe col sangue, né
la pace della glorificazione ottenuta. Sappiamo che ci sarà il lieto fine, poiché
questo è l’indiscutibile destino delle anime che abitano la montagna, ma quel
lieto fine noi non lo vediamo, né mai lo vedremo, poiché l’opera è ferma nel
suo assoluto, e questo, non scatenando la tragedia, delinea irrevocabilmente il
Dramma.
Il Purgatorio
è il dramma dell’Enrico IV pirandelliano (prima che egli stesso decida, contro
tutte le regole sociali, di compiere la tragedia): impossibilitato a tornare
alla vita normale, ed ancora incapace di segregarsi definitivamente nelle
caverne della pazzia.
Per tutto
questo, credo, la gioventù ha così tante difficoltà a riconoscersi in quella
poesia. Quando ci troviamo di fronte al Purgatorio, siamo ancora troppo puri,
inesperti della vita, per sentire tutto il grottesco, e il ridicolo, del dramma
che ci circonda.
(le poche immagini sono tratte dallo spettacolo "Poeta x Poeta - Borges legge Dante", tratto dai "Nove saggi danteschi di Borges", che misi in scena nel 2006, per la regia di Pasquale De Cristofaro, con Igor Canto e Cristina Recupito nel ruolo delle due anime)
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