Nel suo
“Abbozzo di un autobiografia” Jorge Luis Borges scrive: “La famiglia di mio
padre aveva una tradizione letteraria. Il suo prozio Juan Crisóstomo Lafinur fu
uno dei primi poeti argentini, e nel 1820 scrisse un’ode sulla morte del suo
amico il generale Manuel Belgrano. Uno dei cugini di mio padre, Álvaro Melián
Lafinur, che avevo conosciuto da sempre, era uno dei migliori poeti minori e
più tardi entrò nell’Accademia argentina di lettere. Il nonno materno di mio
padre, Edward Young Haslam, fu l’editore di uno dei primi giornali inglesi in
Argentina, il «Southern Cross», ed era laureato in lettere o in filosofia
all’Università di Heidelberg. Haslam non aveva potuto permettersi Oxford o
Cambrige, così studiò e si laureò in Germania, dove seguì l’intero corso in
latino. Morì a Paraná. Mio padre scrisse un romanzo, che pubblicò a Mallorca
nel 1921, sulla storia di Entre Ríos. S’intitolava Il Caudillo. Scrisse anche (e distrusse) un libro di saggi, e
pubblicò una traduzione dell’Omar Khayyâm di Fitzgerald con la stessa metrica
dell’originale. Distrusse un libro di racconti orientali sul tipo delle Mille e una notte, e un dramma, Hacia la nada [Verso il nulla], la
storia di un uomo che veniva deluso dal figlio. Pubblicò dei bei sonetti nello
stile del poeta argentino Enrique Banchs. Fin da quando ero bambino, da quando
cioè lui divenne cieco, era stato tacitamente stabilito che avrei fatto mio
quel destino letterario che le circostanze avevano negato a mio padre. Ci si
aspettava che io diventassi uno scrittore, e simili cose non dette son ben più
importanti di quelle di cui si parla soltanto.”; e in un altro passo a
proposito della madre: “Mia madre, Leonor Acevedo de Borges, proviene da un
vecchio ceppo argentino e uruguayano (…) Suo nonno era il colonnello Isidoro
Suárez che nel 1824, all’età di ventiquattro anni, comandò una famosa carica di
cavalleria peruviana e colombiana che mutò le sorti della battaglia di Junín,
in Perú. Fu la penultima battaglia della guerra d’indipendenza sudamericana.
Sebbene Suárez fosse cugino in secondo grado di Juan Manuel de Rosas, che
governò l’Argentina da dittatore tra il 1835 e il 1852, preferì l’esilio e la
povertà a Montevideo piuttosto che vivere a Buenos Aires sotto la tirannia. (…)
Un altro membro della famiglia di mia madre fu quel Francisco de Laprida che,
nel 1816, a Tucumán, dove egli presiedeva il congresso, dichiarò l’indipendenza
argentina, e fu ucciso nel 1829 in una guerra civile. Il padre di mia madre,
Isidoro Acevedo, sebbene non fosse militare, prese parte alle guerre civili tra
il 1860 e il 1880. Così ho degli antenati militari da entrambi i lati della
famiglia; questo può spiegare la mia smania per quel destino epico che, senza
dubbio molto saggiamente, gli dèi mi hanno negato.”
Il racconto
che Borges fa della sua vita è splendido, di straordinario fascino, anche
perché condensato in una sessantina di pagine, non di più, e questo, se si
pensa alla durata ed alla intensità della sua vita, è già di per sé
stupefacente. Ma questi che ho citato, come altri, differenti passaggi sulla
sua famiglia, uniti a quelli in cui descrive sé gracile, fragile, occhialuto in
modo tristemente profetico, colpiscono particolarmente. L’indifeso Jorge Luis
pare avere fin dalla nascita, sulle sue minute spalle, il peso ed il destino
futuro di una famiglia magnifica e magnificata. Come assolverà a tale compito,
soprattutto rispetto alla parte militaresca di cui la madre è genealogicamente
la maggiore portatrice? I genitori stessi paiono venirgli in debito soccorso. In
quel: “Fin da quando ero bambino era stato tacitamente stabilito che avrei
fatto mio quel destino letterario”, essi gli predispongo la risoluzione del
problema.
Claudio
Magris, in un delizioso saggio pubblicato sul Corriere della Sera (che ho letto
ma ora non ho più), ipotizza che il mondo di questo autore, così intento alle
catalogazioni, narratore instancabile di storie di gauchos e coltelli,
inventore di racconti fantastici, accusato, spesso con evidente ignoranza, di
erronee appartenenze politiche, sia in realtà quello di un uomo attaccatissimo
alla vita, la cui apparente fuga nell’iperbole è motivabile proprio con la sua
difficoltà a vivere. È la nostalgia della vita, dice Magris, a costringere
Borges nel suo mondo irreale; l’attaccamento alle cose, cui in alcune poesie
attribuisce quasi un respiro, una esistenza parallela alla nostra, ne è una
riprova.
Jorge Luis
Borges nasce il 24 agosto del 1899. Poco meno di un anno dopo, il 24 maggio del
1900, nasce, nell’opposto emisfero, un altro autore i cui testi faranno il giro
dei palcoscenici mondiali: Eduardo De Filippo.
“Sono nato a
Napoli il 24 maggio del 1900, dall’unione del più grande autore-attore-regista
e capocomico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta, con Luisa De
Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia
nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la
strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di
padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente
intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale.
Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero
entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore,
fin dall’età di quattro anni (…), d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi,
chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure
tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”. Da molto tempo, ormai, ho
capito che il talento si fa strada comunque, e niente lo può fermare, ma è
anche vero che esso si sviluppa e cresce più rigoglioso quando la persona che
lo possiede viene considerata “diversa” dalla società.
Infatti, la
persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si
moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce
più stanchezza per di raggiunger la meta che s’è prefissata. Tutto questo però
allora non lo sapevo e la mia “diversità” mi pesava a tal punto che finii per lasciare
la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con
pochissimi soldi un tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada.
Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo scelto da sempre,
il teatro, che era stato ed è tutto per me.”
Due
“diversità”, dunque, una più fisica ed una morale, vissute differentemente
proprio grazie al supporto familiare, ma dietro le quali, forse, si nasconde
una simile finalità. Almeno così pare dalle loro parole. Quasi coccolato,
tenuto al caldo, Borges; additato e respinto De Filippo. Come due pugili
suonati e messi nell’angolo dai rispettivi avversari, Jorge Luis Borges e
Eduardo De Filippo, sentono il peso delle loro origini, ed il problema, per
entrambi, appare essere: come sopportare, superare e liberarsi di questo peso?
Nel caso dell’argentino sono fantasmi, leggende di famiglia o, materialmente,
libri; per l’italiano il rapporto è tangibile, concreto, con la consorteria
sociale degli uomini del suo tempo. Per Borges sembra palesarsi il timore di
non riuscire a rispondere alle tradizioni di famiglia, in De Filippo pare
nascere il desiderio di superarle a proprio esclusivo e definitivo
riconoscimento. L’amore per la madre li accomuna, li differenzia il rapporto
con il padre, affettuoso, rispettoso e non conflittuale, anzi complice, quello
del poeta; di stima, ammirazione ed al contempo di “odio” quello del
commediografo.
“La fitta
rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente”,
scrive Eduardo. “Ci si aspettava che io diventassi uno scrittore, e simili cose
non dette son ben più importanti di quelle di cui si parla soltanto”, scrive
Borges. Un intenso tessuto comunicativo privo di parole circonda i due – i
pettegolezzi non arrivano mai direttamente all’orecchio di chi ne è vittima,
altrimenti non sarebbero tali
“La persona
finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si
moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce
più stanchezza per di raggiungere la meta che s’è prefissata, e me ne andai col
fermo proposito di trovare la mia strada”.
Studio,
rigore, applicazione, dedizione totale alla propria arte, curiosità
instancabile, passione! Su questi gli elementi – che non avrebbero senso se
dietro a tutti non ci fosse quell’entità inafferrabile che definiamo “talento”
- i due uomini costruiscono il proprio
destino.
Chi oggi
guarda all’Argentina, pensa, di primo acchitto, indiscutibilmente, a Buenos
Aires, alla Pampas o al tango, ma sicuramente anche al grande poeta cieco,
all’Omero della nostra epoca, come è stato più volte definito Borges con una
facile, superficiale similitudine. I suoi antenati sopravvivono magnificati
perché lui, ora, ne racconta, ed è, in fondo, divertente vedere che il più piccolo
e fragile della famiglia, il “brocco” su cui nessuno alla partenza avrebbe
scommesso un soldo, è adesso il più grande ed acclamato.
Per De
Filippo il gioco è più sottile, ma arrivato in fondo non meno fruttuoso. Non
esistono dati che ce lo confermino, ma l’ipotesi non mi pare del tutto
peregrina. Schivato, additato, respinto, messo in ridicolo dalla società che lo
circonda, il giovane Eduardo sente, al contrario di Borges, il peso di un nome
non presente, ma assente, quello del padre. Può fare solo due scelte:
soccombere, o edipicamente uccidere il re per prenderne il posto.
Il sogno
della pacificazione e del riscatto del suo
cognome, del cognome della madre (e del riscatto della madre stessa), è nella
sua commedia più famosa, “Filumena Marturano”, e non casualmente il titolo è
proprio un nome e un cognome, nome e cognome di una donna, di una madre, nome e
cognome che la protagonista sa scrivere a stento. Quel nome “indicibile” può
appena rimanere sulla carta, appena per i documenti legali e indispensabili ad
attestarne l’esistenza. Ma è necessario, per Filumena, partire da una truffa,
da un imbroglio per realizzare tutto questo. Eduardo sa bene, invece, che nella
vita non si imbroglia, soprattutto sa che in teatro non si imbroglia, mai. Così
non gli resta che uccidere il padre, e come farlo se non che con le sue stesse
armi?
“Il più
grande autore-attore-regista e capocomico napoletano di quell’epoca, Eduardo
Scarpetta”, dice. “Di quell’epoca”, non di quella a venire che è tutta nelle
mani del giovane “figlio di padre ignoto”. Oggi, a richiamare alla memoria, di
primo acchitto, le voci di Napoli, viene in mente lui. Il resto è dopo. Il re è
morto. Il “diverso” ha compiuto l’impresa.
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