Scrive Mejerchol'd (Vsevolod Ėmil'evič): “Il
teatro non è illustrazione, ma un'arte a sé stante, dotata di leggi valide
unicamente al suo interno, e richiede una specifica maestria.”
Quante “Madonna con Bambino” sono state dipinte da quando
sulla terra è apparso il Cristianesimo? Un numero incalcolabile. E come
sempre accade, qualcuna continuiamo a guardarla, ammirarla, a lasciarcene
emozionare, qualcun altra no.
Migliaia, poi, sono letteralmente finite nel
dimenticatoio.
Il contenuto è sempre lo stesso.
Se dunque valesse il contenuto, dovremmo guardarle tutte.
Se non lo facciamo è, evidentemente, perché il contenuto
vale molto meno di quel che pensiamo, o che siamo stati indotti a pensare.
Edipo, Re Lear, Tartufo, Sei personaggi, Tre sorelle... quante
edizioni abbiamo visto passare sui palcoscenici? Centinaia e centinaia.
Una volta, in un incontro all’Accademia d’Arte Drammatica S. D’Amico,
alla domanda: “Perché quest’anno lei ha voluto fare Edipo?”, Gabriele Lavia
rispose: “Innanzi tutto perché un attore che non vuol fare Edipo non è un
attore. E poi perché ci sono una serie di fatti miei...”.
Giustissimo per due motivi: un attore, per definirsi tale, deve avere un
ego smisurato, e dunque deve desiderare di fare il protagonista. Poi, se
riuscirà a farlo è altro discorso, legato a migliaia di fattori che vengono
inevitabilmente a innestarsi: avere o non avere il talento giusto, circostanze
fortunose, l’età o il fisico, ecc. ecc.
Ma fatto salvo tutto ciò deve restare limpido il suo desiderio di
volervlo fare, pur nella coscienza, magari, che mai ci riuscirà.
E poi perché ognuno deve volere “disegnare il suo quadro”, in quel
momento e in quel solo atto performativo. Proprio perché, come dice Mejerchol'd, l’arte teatrale ha suoi canoni
esclusivi.
Questo breve ragionamento per dire cosa?
Che forse dovremmo concretamente e costruittivamente cominciare a
considerare l’ipotesi, che pure noi spettatori ogni volta che torniamo a teatro
per vedere una storia che già ben conosciamo, prendi ad esempio, Edipo, o
Amleto, lo facciamo non tanto per sapere “come va a finire, chi vive e chi
muore”, ma per ammirare, per lasciarci sorprendere, affascinare, dall’arte di
un attore. Arte che si esplicità solo attraverso i suoi canoni intrinseci, e
solo in quello specifico momento in cui noi lo guardiamo.
L’arte dell’attore, l’arte del recitare, viene, alla fin fine, prima di
tutto.
Ecco perché ci lasciamo prendere da una farsa, piuttosto che da una
tragedia, piuttosto che da una commedia o dramma o da una “orazione civile”
(come usa oggi... una volta si sarebbe detto semplicemente “monologo”), perché
il primo e ultimo elemento che osserviamo e dal quale vogliamo lasciarci
prendere è l’arte dell’attore.
So cosa sta pensando qualcuno di voi, miei pochi e affezionati lettori:
“Con questo ragionamento è giusto che qualcuno si metta, allora, a leggere,
come si dice, l’elenco del telefono”.
Paradossalmente sì, ma cosa è il paradosso se non che una spinta estrema
per costringerci a guardare lì dove non riusciamo, magari molto ma molto vicino
a noi?
La riprova di questo mio credere me la fornisce, ancor più evidentemente
della Prosa, la Lirica: puoi fare la regia più bella del mondo, ma se i
cantanti cantano male, il pubblico uscendo non parlerà certo del tuo splendido
allestimento... e men che meno della storia di Violetta che tanto conosce a
mena dito.
Uscendo da una commedia nuova, il pubblico, se soddisfatto dalla
recitazione tenderà a parlare un po’ del contenuto, un po’ della prova degli
attori; al contrario, con una cattiva recitazione, si dimenticherà anche del
contenuto... o magari dirà: “La commedia sarebbe anche interessante ma...”.
Il teatro è l’attore, null’altro. E l’atto meditativo che sempre ne
nasce, quando è buon teatro, apparentemente, per quel che le nostre parole
possono riprodurre, si posa sui temi trattati; ma detti temi, sono già, sempre,
insiti nell’azione recitativa, che non cogliamo se non nel subconscio, se non a
livello subliminale, se non che a un livello altro dal quale le parole
restano escluse. Quel livello è il livello rimandatoci dall’azione dell’attore.
L’agire dell’attore sulla scena è riflesso di una intera società.
Deve essere per questo che in giro c’è così tanta cattiva recitazione.
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