giovedì 14 maggio 2015

L’agire dell’attore sulla scena è riflesso di una intera società.



     Scrive Mejerchol'd (Vsevolod Ėmil'evič): “Il teatro non è illustrazione, ma un'arte a sé stante, dotata di leggi valide unicamente al suo interno, e richiede una specifica maestria.
Quante “Madonna con Bambino” sono state dipinte da quando sulla terra è apparso il Cristianesimo? Un numero incalcolabile. E come sempre accade, qualcuna continuiamo a guardarla, ammirarla, a lasciarcene emozionare, qualcun altra no.
Migliaia, poi, sono letteralmente finite nel dimenticatoio.
Il contenuto è sempre lo stesso.
Se dunque valesse il contenuto, dovremmo guardarle tutte.
Se non lo facciamo è, evidentemente, perché il contenuto vale molto meno di quel che pensiamo, o che siamo stati indotti a pensare.
Edipo, Re Lear, Tartufo, Sei personaggi, Tre sorelle... quante edizioni abbiamo visto passare sui palcoscenici? Centinaia e centinaia.
Una volta, in un incontro all’Accademia d’Arte Drammatica S. D’Amico, alla domanda: “Perché quest’anno lei ha voluto fare Edipo?”, Gabriele Lavia rispose: “Innanzi tutto perché un attore che non vuol fare Edipo non è un attore. E poi perché ci sono una serie di fatti miei...”.
Giustissimo per due motivi: un attore, per definirsi tale, deve avere un ego smisurato, e dunque deve desiderare di fare il protagonista. Poi, se riuscirà a farlo è altro discorso, legato a migliaia di fattori che vengono inevitabilmente a innestarsi: avere o non avere il talento giusto, circostanze fortunose, l’età o il fisico, ecc. ecc.
Ma fatto salvo tutto ciò deve restare limpido il suo desiderio di volervlo fare, pur nella coscienza, magari, che mai ci riuscirà.
E poi perché ognuno deve volere “disegnare il suo quadro”, in quel momento e in quel solo atto performativo. Proprio perché, come dice  Mejerchol'd, l’arte teatrale ha suoi canoni esclusivi.
Questo breve ragionamento per dire cosa?
Che forse dovremmo concretamente e costruittivamente cominciare a considerare l’ipotesi, che pure noi spettatori ogni volta che torniamo a teatro per vedere una storia che già ben conosciamo, prendi ad esempio, Edipo, o Amleto, lo facciamo non tanto per sapere “come va a finire, chi vive e chi muore”, ma per ammirare, per lasciarci sorprendere, affascinare, dall’arte di un attore. Arte che si esplicità solo attraverso i suoi canoni intrinseci, e solo in quello specifico momento in cui noi lo guardiamo.
L’arte dell’attore, l’arte del recitare, viene, alla fin fine, prima di tutto.
Ecco perché ci lasciamo prendere da una farsa, piuttosto che da una tragedia, piuttosto che da una commedia o dramma o da una “orazione civile” (come usa oggi... una volta si sarebbe detto semplicemente “monologo”), perché il primo e ultimo elemento che osserviamo e dal quale vogliamo lasciarci prendere è l’arte dell’attore.
So cosa sta pensando qualcuno di voi, miei pochi e affezionati lettori: “Con questo ragionamento è giusto che qualcuno si metta, allora, a leggere, come si dice, l’elenco del telefono”.
Paradossalmente sì, ma cosa è il paradosso se non che una spinta estrema per costringerci a guardare lì dove non riusciamo, magari molto ma molto vicino a noi?
La riprova di questo mio credere me la fornisce, ancor più evidentemente della Prosa, la Lirica: puoi fare la regia più bella del mondo, ma se i cantanti cantano male, il pubblico uscendo non parlerà certo del tuo splendido allestimento... e men che meno della storia di Violetta che tanto conosce a mena dito.
Uscendo da una commedia nuova, il pubblico, se soddisfatto dalla recitazione tenderà a parlare un po’ del contenuto, un po’ della prova degli attori; al contrario, con una cattiva recitazione, si dimenticherà anche del contenuto... o magari dirà: “La commedia sarebbe anche interessante ma...”.
Il teatro è l’attore, null’altro. E l’atto meditativo che sempre ne nasce, quando è buon teatro, apparentemente, per quel che le nostre parole possono riprodurre, si posa sui temi trattati; ma detti temi, sono già, sempre, insiti nell’azione recitativa, che non cogliamo se non nel subconscio, se non a livello subliminale, se non che a un livello altro dal quale le parole restano escluse. Quel livello è il livello rimandatoci dall’azione dell’attore.
L’agire dell’attore sulla scena è riflesso di una intera società.
Deve essere per questo che in giro c’è così tanta cattiva recitazione.  

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