Molti attori, anzi,
praticamente tutti quelli che ho avuto modo di ascoltare (e di questa mia
presente osservazione mi faccio vanto, impudicamente), quando recitano La Divina Commedia (o declamano, o dicono, scegliete voi il verbo che preferite, poiché solo tale
questione meriterebbe un’altra nota, e certamente non breve), dimenticano, o paiono
volontariamente dimenticare, i piani temporali della narrazione.
Mi ci ha fatto
riflettere - come al solito! - Borges. Borges che non espressamente parla di
ciò; ma che non dimenticando mai nelle sue osservazioni su Dante che la Commedia è un racconto, un grande
romanzo in versi, rileva dati su cui altri sorvolano.
In “L’ultimo sorriso di
Beatrice” (Nove saggi danteschi),
definisce i versi 91-93 del trentunesimo canto del Paradiso, i più patetici che
la letteratura abbia mai prodotto,
Così orai; e quella sì lontana
come parea, sorrise a riguardommi;
poi si tornò all’etterna fontana.
aggiungendo
che “per quanto famosi siano, nessuno sembra averne colto l’intima sofferenza,
nessuno li ha mai ascoltati pienamente. È proprio vero che la tragica storia
che racchiudono appartiene meno all’opera che all’autore, meno a Dante
protagonista che a Dante scrittore”.
Non casualmente, credo,
Borges dice “ascoltati”. Rileggendo tutto il passo della Commedia, e rileggendolo più volte, ci si accorge che l’osservazione
di Borges è maggiormente supportata dall’intonazione che non dalle parole
stesse. A tal proposito, non si può far torto ai vari commentatori di non aver
colto questo sottilissimo aspetto, poiché essi saranno certamente soliti
leggere in silenzio, cosa che con la buona poesia lascia sempre tratti non
rivelati. Ma se proverete a leggere a voce alta (come Borges insistentemente
consiglia: “Un buon verso – dice – non consente che lo si legga a bassa voce o
in silenzio, (…) il verso esige la declamazione”), potrete accorgervi, e
sentire, che tra la preghiera che precede la terzina, che Dante rivolge alla
donna amata, e i versi in questione c’è un indiscutibile salto temporale che
automaticamente accentua il senso dell’amore perduto. “Orai”, “lontana”, “parea”,
“sorrise”, sono tutti termini che incidono sulla malinconia.
Se nel dire a voce alta proverete a
“recitare” la preghiera a Beatrice, non potrete sfuggire, poi, al precipatare
nel ricordo doloroso, poiché vi apparirà subito evidente che tornando dalla preghiera
non sarete più nell’Empireo con il protagonista, ma nella stanza del poeta,
seduti al tavolo, a scrivere e ricordare con lui quei beati momenti. Il patos
che Borges indica salterà subito agli occhi, all’udito, al cuore.
C’è un altro punto, estremamente famoso, ed
estremamente maltrattato dalla nostrana recitazione. Riguarda l’episodio di
Ulisse, il suo discorso ai marinai.
“O frati”, dissi, “che
per cento milia
perigli siete giunti a
l’occidente,
a questa tanto picciola
vigilia
de’ nostri sensi ch’è
del rimanente
non vogliate negar
l’esperïenza,
di retro al sol, del
mondo sanza gente.
Considerate la vostra
semenza:
fatti non foste a viver
come bruti,
ma per seguir virtute e
canoscenza”.
Anche qui, l’esaltazione
dell’interprete diviene, generalmente, tale da fargli dimenticare che Ulisse,
su richiesta di Virgilio, sta già raccontando, ed arrivati a quel punto, il
discorso ai suoi uomini – riportato! - diventa il suo ricordo. Passiamo dal
ricordo-racconto di Dante, che entra nel ricordo-racconto di Ulisse, che entra
in quel momento vivo. Un triplo salto mortale.
Forse, quella voce di
Ulisse, in quel momento, è una voce della memoria. Quel “dissi” che pare
intervenire a spezzare l’incisività del tempo presente, non è lì posto a caso,
o solo per completare il computo delle undici sillabe, forse sta lì proprio per
ricordarci che Ulisse, ricordo-racconto di Dante, sta ricordando-raccontando
ciò che in quel fatale momento accadde. Forse, per l’interprete-attore, quella
voce deve essere lontana nel tempo, e
così pensandola (e magari eseguendola) essa ci rivelerà (ancora la forza della
declamazione) un risvolto amaro, doloroso, che la semplice immagine dell’uomo
esaltato dalla propria impresa ci nasconde irrimediabilmente.
Ulisse ricorda che quei
pensieri, quelle esortazioni, che evidentemente fece prima, nel silenzio del
suo animo, a se stesso, e poi agli altri, furono più di ogni altro accadimento
della sua vita, la causa della sua condanna.
Ma l’attore, si sa,
tende a compiacersi ed esaltarsi, tende a far sì che il suo ego sopravanzi il
testo che regala al pubblico. Non è una colpa, è la sua natura, e guai se così
non fosse. Forse, però, se l’attore dimeticasse il proprio ego, non nell’atto
recitativo, ma in fase di analisi e studio, scoprirebbe delle nuove vie che
possono fruttargli uguale gioia ed uguale immediato riscontro consolatorio,
nell’applauso, più che tutti i codici già noti a lui ed agli spettatori,
scoprire il nuovo orgoglio, ben più consolante per il suo animo, di poter dire:
“Dunque, non sono solo un interprete, ma anche un ‘creatore’, un ‘creatore’
perché ho trovato un piccolo elemento nuovo, perché ho visto qualcosa che
nessuno aveva mai visto prima”.
Spero, ed auguro al mio
lavoro, che domani qualcun altro trovi ancora nuovi spazi in questi pochi ed
impareggiabili versi.
Ogni volta che, indegnamente, provo a leggere i versi che Dante dedicò ad Ulisse, ai miei piccoli spettatori, mi assale un dolore che sta tra il lancinante ed il dolce, lì in fondo al cuore, che pare farsi piccolo e stretto. Mi sale un velo di pianto che sa di sconfitta universale. Mi trattengo sempre per non provocare il giustificabile riso dell'innocenza. Ma piangere sarebbe il meno, io sento.
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